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Parasubordinati e partite Iva, l'Inps fotografa i nuovi poveri

Che quella sull'articolo 18 sia una battaglia politica slegata dai problemi reali del paese lo dimostrano i dati su collaboratori e professionisti italiani appena pubblicati dall'Inps. Per loro «un altro anno orribile: aumenta la disoccupazione, stagna il reddito» recita il report curato per l'occasione dall'Associazione 20 maggio e presentato l'altroieri. Uno studio secondo cui un parasubordinato ha portato a casa una media di 10mila euro lordi nel 2013, qualche decina di euro in più rispetto all'anno precedente (9950 nel 2012). Questo se si considera il guadagno dei collaboratori esterni delle aziende, declinati in tutte le possibili sfaccettature: collaboratori di giornali, venditori porta a porta, dottori di ricerca e così via, inquadrati ad esempio con contratti a progetto, cococo, assegnisti. In realtà nel calderone dei parasubordinati finiscono anche amministratori e sindaci di società, che percepiscono mediamente 30mila euro annuali. Con loro si sale a una media di 19.500 euro, ma si tratta di valori «falsati», precisa Patrizio De Nicola, docente della Sapienza responsabile dell'indagine. Le storture sono anche altre, «esempio tangibile di come viene poco considerato e maltrattato il lavoro intellettuale in Italia, salvo poi organizzare convegni per lamentarsi della fuga dei cervelli». C'è innanzitutto lo scarto salariale uomo donna, sempre duro a morire: le quarantenni sono quelle con il gap maggiore, con meno 11mila euro rispetto ai colleghi uomini, le cui buste paga si aggirano sui 25mila euro annuali. Tra due trentenni le distanze si accorciano: a lei vanno 10mila, a lui 15, e via a salire con l'età. Uno dei paradossi è poi quello dei medici specializzandi, la cui borsa mensile nelle scuole di formazione professionale ammonta a 18mila euro, cifra più alta di quello che presumibilmente andranno a guadagnare una volta inseriti nel mercato del lavoro, quando «verranno loro offerti contratti di collaborazione molto più svantaggiosi in quanto assolutamente deregolati» osserva De Nicola. Sul fronte dei compensi, «il libero mercato non funziona». E lo testimoniano le statistiche regionali, dove le forti differenze confermano «l'esistenza di marcate discriminazioni dovute all'assenza di una regolazione collettiva»: prime, con 24mila annuali di media, si attestano Lombardia e  Veneto. Seguono Emilia e Piemonte, con 22mila. Il Lazio è una delle regioni con le percentuali più basse, con 15mila euro di reddito (l'ultima è la Calabria, con 9mila). Quasi diecimila euro in meno rispetto alle «ricche» regioni del Nord per il Lazio che è anche seconda classificata per numero di subordinati, qui in 167mila contro i 277mila della Lombardia, su un totale di circa 1,2 milioni.L'altro aspetto cruciale è il crollo delle collaborazioni a progetto, scese di 166mila rispetto al 2012 (-11,7%), «effetto della riforma FoRnero, che ha imposto l'introduzione di minimi tabellari anche per i dipendenti». Con l'obiettivo di renderli meno vantaggiosi rispetto al lavoro dipendente. Sarebbe bastato, insistono nel report, «un periodo anche di breve gradualità nell'applicazione della riforma, dando modo alla contrattazione collettiva di affrontare questo tema». Il calo qui ha riguardato soprattutto gli under 29, ridotti del 43% rispetto al 2007. Altro mito da sfatare è che la precarietà lavorativa sia un fenomeno giovanile: del milione e duecentomila che compongono questo gruppo di contratti atipici, 607mila hanno tra i 30 e i 49 anni, il 48% del totale, mentre il 33% ha superato i 50 anni. Segnale chiaro di come il lavoro instabile sia ormai prerogativa di adulti e famiglie. Per questo le donne – superati i trent'anni – abbandonano e scelgono l'accudimento dei figli: «sono prevalentemente nella fascia under 39 e scompaiono dopo, complici le minori protezioni sociali e contrattuali» è sottolineato nel report. C'è poi il capitolo professionisti, ovvero l'esercito di partite Iva. Vere o finte che siano, negli anni di crisi, dal 2007 al 2012, sono aumentate le registrazioni, crescendo da 220 a 290mila, un salto tutto concentrato peraltro sopra i 70 anni (+75%). L'osservazione degli analisti è che potrebbe trattarsi di una conseguenza «dell'aumento degli oneri sul lavoro a progetto e la maggiore convenienza per i datori di lavoro di impiegare professionisti autonomi». Ma non è da escludere neanche l'effetto delle nuove aliquote del regime dei minimi, con Irpef agevolatissimo al 5% per i redditi sotto il tetto dei 30mila, vera spinta – per molti – ad aprirsi una posizione Iva. Per questo gruppo il reddito medio è un po' un'incognita. Secondo l'Inps si sarebbe ridotto del 23% rispetto al 2012, scendendo da 18 a 15mila. Potrebbe darsi tuttavia che  «l'evidenza sia inficiata dalla provvisorietà dei dati» dell'istituto pensionistico (le dichiarazioni arrivano infatti a più riprese). Secondo l'Associazione venti maggio, sarebbe invece più generoso, attestandosi intorno ai 18mila euro, in lieve aumento sul passato. Fatto sta che neppure a questo stadio si compenserebbero gli aumenti delle aliquote contributive: quella Inps è un salasso del 27% sul reddito. Risultato: a parità di salario, per esempio mille euro, a un dipendente restano 900 euro, a un professionista 500. Ma tartassare professionisti e collaboratori è ormai prassi e spiragli di miglioramento non ce ne sono: «Non illudiamoci, si può fare poco o niente, gli spazi di manovra sono limitati» ha dichiarato Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro alla Camera alla presentazione dell'indagine. Per questa fetta di lavoratori, che da soli producono 24 miliardi di Pil e versano contributi per 7 miliardi, la pensione potrebbe restare un miraggio, così come maggiori tutele e aumenti reddituali. Quel che è certo nel frattempo è che, secondo De Nicola, il governo non sta andando nella giusta direzione. Non basta agire sul costo del lavoro: le assunzioni diventeranno più appetibili «solo aumentando gradualmente i compensi» per chi è ai margini del mercato. La strada sarà quella segnata finché il costo di un dipendente continuerà a essere più alto: 23mila il salario medio del settore privato, contro i 10mila del contratto a progetto. Quale datore di lavoro sceglierebbe il primo? Ilaria Mariotti 

Duecento stage per eurotraduttori a Bruxelles, rimborso di 1220 euro al mese

Ci sono gli Schuman, i più famosi, suddivisi tra opzione generale e giornalismo. E poi anche gli stage per traduttori. I tirocini al Parlamento europeo rivolti a chi di professione vorrebbe dedicarsi alle lingue hanno aperto le selezioni lo scorso 15 settembre e chiuderanno il prossimo 15 novembre a mezzanotte. L'importo della borsa mensile è di 1220 euro; per la tassazione le regole variano da Paese a Paese - a seconda cioè che il fisco nazionale preveda di applicare un tributo su questa tipologia di reddito. In Italia dipende ad esempio dal fatto che si percepiscano in contemporanea altre entrate (sotto i 3mila euro annuali scatta l'esenzione). È previsto anche un rimborso spese per i viaggi, sia di andata che di ritorno, sempre che la distanza sia maggiore di 50 chilometri. Anche per le missioni speciali sono riconosciuti emolumenti extra: la base del tirocinio è infatti Bruxelles, nonostante – come confermano dall'ufficio stampa – si possa essere assegnati anche a Lussemburgo («ci va circa il 10% degli stagisti»), o talvolta Strasburgo. Quel che è certo è che capita di essere inviati in missione presso altre sedi: in questo caso l'istituzione versa 180 euro di diaria per la prima giornata, e per i giorni a seguire budget minori di circa 90 euro (qui i dettagli). Il processo di selezione è aperto pressoché tutto l'anno visto che le tornate sono ben quattro. Tuttavia farsi largo tra le migliaia di domande è piuttosto faticoso considerando che ne arrivano circa 6mila l'anno (e la quota è in salita) e i posti sono meno di duecento (177 in totale nel 2012). Per chi si aggiudica il tirocinio la partenza è fissata per il primo aprile 2015. Gli stage hanno durata trimestrale ma – è specificato sul sito - «possono essere prorogati, a titolo eccezionale, per una durata massima di tre mesi».La partecipazione è consentita a tutti i titolari di un qualsiasi diploma universitario, sia triennale che specialistico (per inciso va detto che esiste questa opportunità anche per chi sta ancora studiando: si tratta di tirocini curriculari, che in tal caso l'Europarlamento rimborsa con 300 euro mensili). Non ci sono indicazioni particolari per quanto riguarda le materie di studio, perché - è evidente - per uno stage da traduttori l'essenziale sono le lingue: si accetta solo chi abbia una perfetta conoscenza di una delle lingue ufficiali dell'Unione o di quella di uno dei Paesi candidati e una conoscenza approfondita di altre due lingue ufficiali Ue. I paletti sono però anche altri: il regolamento stabilisce che è necessaria «la cittadinanza di uno Stato membro dell'Unione europea o di un paese candidato e non aver usufruito di un tirocinio o di un impiego retribuito di più di quattro settimane consecutive a carico del bilancio dell'Unione europea». La domanda va spedita online qui (ed è consigliato, suggeriscono i responsabili sul sito,  organizzarsi per tempo «dato che un gran numero di domande potrebbe sovraccaricare il sistema»). Il formulario è da compilare in inglese o in francese, le stesse lingue in cui dovrà essere redatta la lettera motivazionale (non più di 2mila caratteri).  A quel punto «l'unità Formazione e tirocini esamina la ricevibilità delle candidature, in base alle condizioni generali di ammissione» e «trasmette tutti i dati pertinenti riguardanti le singole candidature ai servizi di assegnazione della Direzione generale della traduzione, tenendo conto della lingua madre del candidato» chiarisce la normativa. Per essere selezionati contano aspetti come le «qualifiche e le attitudini dei candidati» (è obbligatorio allegare un modulo speciale sul proprio excursus accademico), ma anche «le esigenze specifiche correlate alle attività della Direzione generale della traduzione e alle rispettive capacità di accoglienza». Entra in gioco poi il criterio geografico («i servizi di assegnazione prendono in considerazione una ripartizione geografica dell'origine dei candidati quanto più equilibrata possibile») e quello di genere per garantire «l'equilibrio fra uomini e donne». I servizi di assegnazione comunicano quindi all'unità Formazione e tirocini le scelte effettuate, classificate in ordine di priorità. Completata la selezione, si informa il Comitato dell'esito finale, che verrà a sua volta comunicato ai candidati per email. Inutile quindi controllare tra i contenuti sul sito. La risposta arriva solo nella propria casella di posta elettronica, a qualche mese dall'invio della candidatura: in questo caso entro la fine del 2014. Ilaria Mariotti 

Giovani e start up, l'ostacolo più grande è la pubblica amministrazione

Pietro Gabriele è il creatore di Fonderie Digitali, laboratorio multidisciplinare tra i primi a disegnare prototipi da stampare in 3D. Federico De Simone ha fondato Makoo, un software che trasforma messaggi vocali in modelli tridimensionali per produrre gioielli. Carlo Mastroianni è invece un ingegnere alla guida di Eco4Cloud, una società di high tech che offre servizi per l'efficienza dei sistemi informatici delle imprese. Sono solo alcuni degli 'Innovation Champions' invitati al convegno organizzato qualche giorno fa dal Consiglio Nazionale delle Ricerche 'Innovating Innovation', interessato – come spiega la locandina - «a investigare sui meccanismi, metodi, buone pratiche dell'innovazione in modo trasversale, senza trascurare l'aspetto problematico, le difficoltà, i fattori frenanti». Più un covo di cervelloni che un meeting per la stampa in verità, ma utile a squarciare un velo su quel fermento imprenditoriale italiano che – nonostante le apparenze – esiste. Lo testimoniano questi cosiddetti 'Campioni dell'innovazione', ovvero «aziende, in particolare pmi, che si caratterizzano per essere in grado di innovare adottando soluzioni vincenti» spiegano i fautori dell'iniziativa. Al loro fianco ci sono gli 'Innovation Angels', organizzazioni che si occupano di finanziare gli innovatori, magari sfruttando le occasioni offerte dai bandi europei. Michele Missikof è uno di loro e fa parte del cosiddetto progetto Bivee (Business Innovation in Virtual Enterprise Environments), un progetto di ricerca europeo che sviluppa una piattaforma per gestire il processo di innovazione e di cooperazione tra piccole e medie imprese. Paolo Merialdo è invece un ingegnere di InnovAction Lab, associazione no profit nata nel 2011 che periodicamente seleziona e riunisce centinaia di giovani italiani interessati al mondo delle start up attraverso seminari e summer school. Da cui talvolta arriva anche qualche finanziamento, grazie alla partecipazione di investitori qualificati. Una due giorni, quella romana, che in sostanza contraddice la convinzione comune per cui l'imprenditoria italiana sarebbe dormiente. 'Innovating Innovation' ha dimostrato che invece nel Paese circolano idee, ci sono giovani che si rimboccano le maniche e lanciano progetti futuristici o avanguardie di vario genere. Il genio italico non sembrerebbe insomma del tutto perduto. Certo, le criticità sono tante e diversificate. E a parlarne, in occasione della convention per gli addetti ai lavori, sono stati gli 'Innovation Promoters', ovvero chi «agevola l'innovazione, con interventi di tipo normativo, finanziario, infrastrutturale». «Dobbiamo fare sistema» dice ad esempio Fulvio D'Alvia, in rappresentanza di Confindustria e RetImpresa. «Abbiamo tante eccellenze ma che non collaborano tra di loro, così si creano economie molecolari e parcellizzate». Si perde forza e le aziende finiscono per «avere difficoltà ad andare oltre l'anno di vita, o anche solo a elaborare business plan articolati». A intervenire sulla necessità di fare rete è stato anche Stephen Trueman, direttore di Sapienza Innovazione, network che «promuove il dialogo tra università, centri di ricerca, associazioni di categoria, consorzi di imprese e imprenditori,  nel supportare l'integrazione e la commercializzazione delle invenzioni e delle conoscenze scientifiche ad alto potenziale innovativo e commerciale» come spiegato sul sito. Anche perché in Italia, sottolinea Trueman, «il 90% delle imprese è di piccole o medie dimensioni e gli impiegati di questa tipologia di aziende sono l'80% del totale». «In questo modo eviteremmo di lavorare tutti sulle stesse cose, sugli stessi bandi», gli fa eco Lino Fiorentino, di Consorzio Roma Ricerche. Ma i fattori che ostacolano e rallentano l'innovazione (in gergo gli 'Innovation Blockers') sono anche altri. E ben più sostanziali, come gli investimenti («per essere nella media internazionale a noi mancano 20 miliardi» rilancia Franco Patini di Aica, associazione per l'informatica). Il decreto Sblocca Italia, denuncia Patini, è «avvilente: si parla ancora di banda larga, di grandi progetti come il Mose, ma non c'è nulla per l'innovazione digitale». Il più duro è Roberto Magnifico, direttore di Luiss Enlab, l'incubatore per start up della Luiss. Per capire fino a che punto siamo indietro, come «l'Italia sia seduta» e la stessa istruzione sia tra i settori più statici basta pensare che «al Cnr si usa ancora Windows Xp: è pazzesco». La Pubblica Amministrazione crea solo blocchi, «legifera per alzare barriere», mentre l'imprenditoria italiana è diventata «smidollata», protetta dentro gli stessi recinti di sempre. Una scossa è quello che ci vorrebbe, ed è ciò che chiedono i relatori a incontri come questi. Dove si uniscono energie e l'Italia non sembra più un Paese fermo.  Ilaria Mariotti 

Quattro borse di studio per studiare e capire il lavoro che cambia

Raccontare, pensare e studiare il lavoro che cambia. Fondazione Feltrinelli lancia l’iniziativa "Spazio Lavoro", un progetto di ricerca per capire come si evolvono nel nostro paese le dinamiche del mondo del lavoro. Quattro borse di studio del valore di 10mila euro ciascuna, finanziate dal crowdfunding, per rispondere alla necessità di creare nuovi posti di lavoro.  Fino a che punto l’Italia ha adeguato le strutture sociali, le forme di tutela e di rappresentanza? Su quali strategie puntare per fermare la crescita del tasso di disoccupazione che ha oramai superato il 12,6%?«Il lavoro sta cambiando e l’Italia non è preparata» dice Carlo Feltrinelli, presidente della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli «con questa iniziativa vogliamo aprire un dibattito per cercare nuove regole che diano non solo speranze, ma anche opportunità a chi lavora e a chi un lavoro non ce l’ha. Abbiamo cercato di coinvolgere enti pubblici e privati convinti che questo possa mettere in circolo energie positive». Il progetto vedrà la collaborazione dell’ IZA, l’istituto per gli studi sul lavoro di  Bonn e del  comune di Milano che attraverso l’assessore alle politiche per il lavoro Cristina Tajani presenta così l’iniziativa: «La collaborazione con la Fondazione Feltrinelli vedrà nel 2015  la presentazione dei risultati che permetteranno all’Amministrazione di valutare l’andamento del mercato del lavoro durante Expo e di adottare politiche innovative per favorire l’occupazione».Quattro saranno i percorsi di ricerca sviluppati da Spazio Lavoro e vedranno la collaborazione di altrettante università italiane: “Capitale Umano” curato dal professor Mauro Magatti insieme all’Università Cattolica di Milano , “Società e lavoro”, coordinato dal professor Enzo Mingione  e l’università Milano-Bicocca, “Impresa e lavoro” con il Professor Alessandro Pansa dell’università LUISS di Roma, nonché CEO di Finmeccanica fino al maggio scorso,  “Denaro” curato dal professor Giuseppe Berta con l’Università Bocconi. L’impatto delle nuove tecnologie su lavoro e occupazione, la crisi dei sindacati, le nuove forme di azienda e di impresa sostenibile saranno i temi al centro dei percorsi di studio. Un lavoro che potrà partire dall’analisi delle startup che nella giornata di lancio di “Spazio Lavoro” hanno portato la loro esperienza al fianco di quella dei docenti universitari.Le nuove frontiere hanno nomi inglesi, ma sono idee tutte italiane: WeMake, Cowo, Social Farming e Dynamo Camp nascono in settori diversi, ma tutte con la stessa filosofia: l'economia condivisa. La parola d’ordine di WeMake è “fare”, chi ha un’idea può realizzarla nei laboratori della community dove si trovano stampanti 3D, frese, macchine da cucire e altri strumenti. Cowo mette a disposizione dei professionisti tutto il necessario per l’ufficio, oltre alla possibilità di fare networking e unire competenze diverse. Scrivania, pc, wifi e sale riunioni dove spesso professionisti di diversi settori creano nuovi progetti. Si calcola che delle 161 community di Cowo in 104 città italiane portino un giro d’affari di 700mila euro l’anno. Social Farming pensa al mondo dell’agricoltura e grazie alla sua piattaforma ha creato sul web una rete di relazioni fra imprese agricole. Così si promuovono e si vendono prodotti di agricoltura sociale. Dynamo Camp Onlus, invece è la struttura di terapia ricreativa nata per creare opportunità di connessione fra il “mondo profit” e il mondo “non-profit”. La chiamano “Venture Philantopy”, cioè un’impresa che funziona grazie all’attività di 360 volontari che ogni anno assistono minori la cui vita è compromessa da gravi malattie. Quattro esempi del lavoro che è già cambiato e che adesso faranno da modello alla ricerca.Una “startup” è anche la forma di finanziamento del progetto Spazio Lavoro. L’obiettivo è quello di raggiungere i 40 mila euro, «un traguardo ambizioso» spiega ancora Feltrinelli « perché si tratta del primo caso in Italia di ricerca finanziata attraverso una piattaforma di crowdfunding». C’è tempo fino al 10 novembre per sostenere l’idea della Fondazione, che alla chiusura della raccolta fondi pubblicherà un bando che definirà le modalità di presentazione delle domande e i vincitori. «Noi crediamo molto nella raccolta fondi come strumento per riavvicinare e sensibilizzare i cittadini al tema della ricerca» fanno sapere dalla Fondazione «per questo abbiamo scelto il crowdfunding e metteremo a disposizione del progetto e delle borse di studio la capacità attrattiva della Fondazione rispetto ad investitori privati perché si completi il raggiungimento della cifra prevista». 

Jobs Act, partite Iva, articolo 18 e molto altro: il ministro Poletti "a domanda risponde"

Si possono dire molte cose dell'attuale ministro del lavoro, tranne una: che si sottragga al confronto. Il passato nella rappresentanza di un settore ad alto tasso di dibattito - quello delle cooperative - certamente aiuta: sta di fatto che Giuliano Poletti affronta tutti i pubblici con energia e non schiva le domande. Ultima prova, l'incontro organizzato ieri a Milano dal circolo 02PD, dal titolo «Il lavoro, la nostra emergenza», strutturato proprio come un botta e risposta tra il pubblico e il ministro, con batterie di domande pre-selezionate e raggruppate secondo argomenti. Niente moderatore, pochi preamboli, una raffica di domande quasi a interrogatorio. E le risposte di Poletti? Eccole qui, a ruota libera, utili per capire meglio il Poletti-pensiero.Politiche industriali, efficienza dei centri per l'impiego, utilizzo dei contratti di solidarietà«Dobbiamo lavorare perché l'Italia riesca a usare al meglio i suoi potenziali» dice subito Poletti, perché «dove diavolo sta dal punto di vista turistico, culturale, artigianale un paese che ha una base di partenza come la nostra? Noi dobbiamo fare in modo di liberarlo da vincoli, pesi e condizionamenti che impediscono oggi di far partire le imprese». Poi il ministro fa un po' di autocoscienza: «La differenza tra me e Matteo Renzi sono un po' più di venti chili e un po' più di vent'anni; e non è certo un confronto facile. Io sono cresciuto in un'altra epoca, invece adesso la logica è “non fare quello che hai fatto fino a ieri”, dunque non fare le cose nel modo che però io fino a ieri pensavo giusto. Certe mattine quando mi sveglio mi pongo la questione: poi mi rispondo che alla fine tanto giusto non doveva essere, basta guardare dove ci ha portati». Così Poletti spiega l'adesione al metodo “cambiaverso” di Renzi, anche per quanto riguarda le politiche industriali: «Questo è un paese che ha sempre ragionato sulla logica degli incentivi, “aiutiamo a fare”: invece dobbiamo rimuovere gli ostacoli. Anziché dare una vitamina a un cavallo per fargli saltare un ostacolo, non è meglio togliere l'ostacolo? Certo. Non è stato fatto prima perché chi ha la vitamina può decidere quanta darne, quando e a chi». Uscendo dalla metafora: «Le politiche industriali non possono voler dire che è il governo a decidere se è meglio che cresca la domotica piuttosto che la robotica: noi dobbiamo togliere gli ostacoli in modo che ciascun settore possa svilupparsi come meglio riesce. Poi ovviamente in certi settori c'è la spesa pubblica che ha un effetto trainante, perché è un importante acquirente di determinati beni. Dunque dobbiamo bilanciare questi due elementi, la spesa pubblica e la rimozione degli ostacoli: insomma meno incentivi, più libertà». Passando al capitolo dei servizi all'impiego: «I servizi per il lavoro nel nostro paese non sono mai stati una priorità. I centri per l'impiego non sono che l'anagrafe della disoccupazione, non aiutano in maniera equa a trovare una opportunità di lavoro: e così la distribuzione del lavoro finora è stata diseguale». Per cambiare le cose bisogna rompere qualche tabù: «Il lavoro è un mercato. Noi invece abbiamo sempre considerato che avesse un valore tale che non poteva essere toccato dal privato: invece dobbiamo entrare in una logica in cui i servizi al lavoro si comprano, si pagano, e lo Stato li controlla. Vogliamo provare a lavorare insieme, Regioni e Stato, per avere una condivisione sui principi minimi. Lo Stato deve poter attuare una tutela dei diritti minimi dei cittadini, poter intervenire quando le regioni sono inadempienti rispetto alla erogazione di un servizio. Per questo serve una struttura nazionale unica». Poletti ricorda l'attuale frammentazione non solo delle competenze ma anche delle informazioni: «L'Inps ha i dati delle pensioni e della disoccupazione, ma non sa se sei iscritto al cpi. Facciamo un sistema informatico unico nazionale, in modo che tutti sappiano quel che c'è da sapere. Il sistema non porta via niente a nessuno ma funziona da infrastruttura per tutti». Infine sui contratti di solidarietà, quelli che nel momento in cui in un'azienda si profila una riduzione di lavoro e dunque di personale anziché procedere a licenziamenti si riducono le ore di tutti i dipendenti, il ministro spende parole positive: «Pensiamo sia una buona modalità quando un'azienda ha poco lavoro, il danno che soffre il lavoratore è minore rispetto al licenziamento». E aggiunge in maniera un po' inaspettata: «Si può usare anche in caso ci sia più lavoro, per permettere a un'azienda di assumere qualcuno in più. È chiaro che però si tratta di un meccanismo volontario, dunque se un'azienda non vuole utilizzarlo, non la si può obbligare». Secondo Poletti bisogna puntare a una «buona ed equa ed equilibrata distribuzione del lavoro tra i lavoratori», anche riprendendo in mano la questione giovani - anziani: «Con l'innalzamento dell'età pensionabile noi abbiamo alzato un muro. Ora dobbiamo costruire un meccanismo per cui qualcuno di quelli più anziani vada in pensione e faccia posto a qualche giorno. Lavorare full time fino a 67 anni e poi da un giorno all'altro non lavorare più per niente a me sembra una cazzata incredibile» si lascia scappare il ministro: «Dobbiamo anche cambiare la dinamica salariale: oggi si guadagna di più a fine carriera, bisognerebbe invece avere il massimo del guadagno quando si inizia, e si ha bisogno di più soldi per andare a vivere per conto proprio, maritarsi, metter su famiglia».Partite Iva utilizzate impropriamente nelle professioni sanitarie e negli studi professionali, illicenziabilità dei dipendenti pubblici anche se inefficienti, connessione tra Jobs Act ed Expo per permettere che i posti di lavoro creati da Expo si possano stabilizzare una volta finito l'evento.Per replicare a questo blocco di domande il ministro sceglie di partire dai lavoratori pubblici: «Dovremmo andare verso una logica unitaria di rapporto di lavoro; la differenza del pubblico è fondamentalmente che si accede al posto attraverso concorso. Ma molte altre cose dovrebbero essere analoghe al settore privato. Noi abbiamo cominciato a mettere mano a questo meccanismo, con la mobilità e i tetti di stipendio. Continueremo a lavorarci». E allarga il ragionamento al macrotema del mercato del lavoro e delle tipologie contrattuali: «L'Italia ha molti vizi storici, molte cose succedono perché le si lascia accadere. Noi abbiamo raccontato che il contratto a tempo indeterminato è quello fondamentale, giusto, su cui puntare. Siamo d'accordo tutti, fatto salvo il banale particolare che negli ultimi anni su 100 contratti, solo 15 sono a tempo indeterminato. Com'è possibile che i contratti che fanno a schifo a tutti quanti valgano l'85% del totale? Noi abbiamo pensato che se vogliamo che il contratto a tempo indeterminato vinca, dobbiamo metterlo in condizione di sbaragliare gli avversari. Dunque abbiamo pensato di dotarlo di una norma chiara e con una riduzione dei costi». Una sorta di antipasto rispetto a quel che dirà dopo, rispondendo alla domanda specifica sul Jobs Act. E per quanto riguarda le partite Iva? «Tutto il problema sulle finte partite iva e i cocopro viene dal fatto che questi contratti sono meno costosi e meno tutelati. É normale che l'imprendistore scelga quelli che costano di meno e sono più flessibili». Il ministro ribadisce la promessa di «cancellare una serie di tipologie contrattuali precarie: lo faremo. Lasceremo il contratto a termine, il contratto a tempo determinato. Lasceremo ovviamente anche la partita Iva, che peraltro dal punto di vista lessicale è una definizione che mi fa incavolare» scherza «perché noi siamo riusciti a far diventare delle persone un regime fiscale». L'orientamento del governo sembra quello di definire una serie di mestieri “compatibili” con la partita Iva: «Dobbiamo stabilire delle modalità che permettano di definire i mestieri che si possono e non si possono fare in termini professionali. La segretaria o il muratore non sono mestieri che si possono fare a partita Iva. Una infermiera può lavorare a partita Iva in un ospedale? Non credo proprio. Stiamo valutando se si possa percorrere questa strada, la discussione è ancora in corso, é uno dei temi su cui stiamo ragionando». In generale il ministro afferma che la lotta alle tipologie contrttuali farlocche va combattuta sul frinte della convenienza «Bisogna ridurre l'opportunità, ridurre la differenza di costo, e quando ti becco ti legno»: perché «ci sarà una semplificazione. E quando l'avremo fatta, chi sbaglia pagherà». Le partite Iva sono anche nella legge di stabilità: «La logica della norma, lunga ben dieci pagine, è che una persona che lavora a partita iva con un reddito limitato, può avere una forfettizzazione; così diamo una mano alle partite iva nuove, più giovani, che sono anche una risposta alla disoccupazione. Abbiamo deciso di aiutarle dal punto di vista fiscale e burocratico». Oltre a quelle finte, però, Poletti dice di non voler ignorare quelle vere: «Preoccupandoci di quelle false, le altre le abbiamo un po' dimenticate». Qui dunque bosogna puntare alla «valorizzazione delle vere partite Iva» attraverso «uno di quegli atti di “pulizia” necessari che servono a semplificare e chiarire. Vogliamo pulire il mercato e dare a ognuno ciò che è ragionevole». E il discorso va allargato al «metodo che si usa in Italia per fare le leggi. Noi ci siamo inventati i contratti parasubordinati, creando poi intorno regole incorporate una nell'altra per definire cosa si può fare e cosa no all'interno di questi contratti, e allora anche i controlli diventano impossibili. Non vogliamo fregare quelli che legittimamente fanno i professionisti, ma non vogliamo permettere all'imprenditore di inquadrare come partita Iva il suo lavoratore, facendogli fare una o due fatture al mese».Jobs Act, effetti della semplificazione della licenziabilità sugli stipendi, rapporto tra decreto Poletti e Jobs Act, primi risultati del decreto poletti sull'apprendistato, associazioni sindacali«Non sono convinto che le cose che stiamo facendo indichino una significativa semplificazione della licenziabilità» esordisce Poletti in risposta a questo blocco di domande: «In più oggi il salario è fissato dai contratti di lavoro, dunque un imprenditore non può fissare il salario a seconda di come va il mercato: il contratto rappresenta un elemento di tutela. Ma se in questo Paese vogliamo avere più lavoro abbiamo bisogno che le aziende scommettano sul futuro e decidano di crescere. E l'Italia purtroppo non è particolarmente amica di chi vuole fare l'imprenditore sul serio» e qui il ministro fa l'esempio della lentezza della giustizia civile: «In Italia funziona al rovescio, chi non paga un fornitore lo guarda e gli dice “cosa fai, mi porti in tribunale?”. Questo è un elemento velenoso del sistema. La confusione che abbiamo nel versante del diritto del lavoro, del fisco, del diritto ambientale porta agli stessi nefasti risultati». La ricetta che propone Poletti è quella di mettere in pratica più velocemente e fedelmente le normative europee: «Siamo in Europa: dunque approviamo le normative europee, le applichiamo subito traducendole in maniera letterale, senza ritardi e cambiamenti come finora invece è stato». Sul tema della sovrapposizione tra lavoro a tempo determinato e tempo indeterminato, Poletti ammette: «Non siamo ancora arrivati a risolvere questo problema. Il tema si pone, lo risolveremo in sede di decreto attuativo. Noi dobbiamo sempre prevedere tutti gli effetti che a lato della norma si provocano: insomma di esodati non ne vogliamo più fare, se si può». Il ministro pensa che «tendenzialmente i due contratti possano essere incrociati. Non totalmente sommabili, ma dovremo trovare un punto di incrocio, dando la possibilità di “traslocare” nel contratto a tutele crescenti dopo qualche periodo di tempo determinato. Costruiremo un meccanismo che sia conveniente sia per il lavoratore sia per l'impresa: non so ancora quale sarà il punto di caduta dell'atto ma la logica sarà questa». Rispetto all'associazionismo, infine, si rammarica: «È un articolo della Costituzione che non è mai stato praticato, per paura che normare questa materia limitasse la libertà. Che ci sia una qualche regola che stabilisca che una organizzazione risponda di quello che fa, a me sembra giusto. ostruire quattro punti cardinali di riferimento»Jobs Act, articolo 18 e pregiudizio ideologico, reintegro, accesso al credito per i precari, confronto con politiche di Francia e altri Paesi europei«Innanzitutto noi non togliamo niente a nessuno» mette le mani avanti il ministro entrando nel vivo della discussione, «dato che chi ha il vecchio contratto se lo tiene. Nel contratto a tutele crescenti che stiamo pensando è vero che c'è un raggio di azione del reintegro effettivamente più ristretto», e questo desta scalpore perché in Italia è piuttosto radicata la convinzione «che solo attraverso il giudizio di un tribunale ci sia la giustizia». Ma il discorso va inquadrato un po' più da lontano, perché se si pensa che una volta perso il lavoro non se ne troverà facilmente un altro, è naturale percepire il diritto al reintegro come fondamentale. Ma se invece cambia l'assetto generale del mercato del lavoro? «Noi in Italia abbiamo una storia di tutele attraverso trasferimenti monetari: se c'è un problema aziendale, stai a casa e io ti dò un po' di soldi per un tot di anni. In Italia gli ammortizzatori sociali costano 24 miliardi di euro, di cui 9 pagati da aziende e lavoratori e 14 pagati dalle tasche degli italiani. Forse é ora di capire che quei 24 miliardi vanno spesi meglio. Dobbiamo uscire dalla logica di pagare la gente per rimanere inattiva, questa situazione è tossica. Noi dobbiamo spingere le persone a uscire fuori, a ricercare una nuova occupazione, rinnovare le proprie competenze. Ci sono persone che restano 8, 10, 12 anni a carico dello Stato. È giusto che ai padri venga garantito questo genere di assistenza, e ai figli no?». Il ministro cita indirettamente la Cgil, facendo riferimento a coloro che chiedono che il sistema resti il medesimo per le vecchie generazioni, e venga esteso anche alle nuove: «Non ci sono fondi per estendere questo sistema; dobbiamo invece riformarlo, secondo criteri di equità ed efficienza». Detto in parole povere, «Se sei disoccupato ti aiuto a campare ma anche a ritrovare una nuova occupazione», oppure un po' meglio: «Dobbiamo fare una operazione di ricostruzione di un meccanismo di ammortizzatori sociali che devono andare verso l'universalizzazione». Scardinando il più possibile il concetto della passività: «Se tu cittadino ricevi qualcosa dalla comunità, devi ridare qualcosa: innanzitutto la disponibilità». Disponibilità a presentarsi al centro per l'impiego, andare a colloqui, corsi di formazione, accettare nuove opportunità di lavoro. E qui il cerchio si chiude: «In un contesto come questo il tema del reintegro perde la sua virulenza, perché chi resta senza lavoro non viene più abbandonato, ha una tutela per quanto riguarda il reddito e una tutela nei termini di ricollocamento al lavoro». Il ministro cita la Germania, un Paese dove il reintegro è previsto: «Lì anche di fronte a una sentenza di reintegro sia l'azienda sia il lavoratore possono rivolgersi a un altro magistrato per far verificare che sussistano le condizioni di fiducia per poter continuare il rapporto di lavoro. Si sono dunque posti il problema della natura del rapporto di collaborazione tra un lavoratore e un datore di lavoro».Poletti passa poi al tema dell'accesso al credito: «Prima o poi bisognerà che le banche si sveglino: se l'80% dei contratti oggi è precario dovranno adeguarsi, o nuovi soggetti arriveranno a soddisfare quella domanda di credito da parte di chi non ha molte garanzie da offrire. Già sono arrivate le banche virtuali, con il conto che non costa. L'innovazione distrugge il vecchio, bisogna inventarsi il nuovo: nel caso delle banche bisognerà che ricostruiscano il sistema finanziario».Garanzia Giovani, riforma del titolo V«Francia e Italia sono i due paesi europei che hanno visto approvato il loro programma a luglio, di solito arriviamo ultimi, invece stavolta siamo stati tra i primi» esordisce Poletti parlando della Garanzia Giovani, il grande programma di matrice europea per l'occupabilità dei giovani senza lavoro che considera molto importante come segnale di attenzione alle nuove generazioni: «Fino a Garanzia Giovani dei ragazzi italiani nessuno si era occupato». E però «noi siamo partiti da una situazione molto complicata perché non abbiamo servizi per l'impiego che funzionano. Siamo partiti facendo una scommessa che ora proviamo a vincere: facciamo il progetto e contemporaneamente costruiamo la macchina per gestirlo. Perché noi la macchina» cioè la rete di servizi all'impiego funzionante su tutto il territorio nazionale «non ce l'avevamo. Ma abbiamo scommesso insieme alle regioni di far partire lo stesso l'iniziativa lo scorso maggio». La Garanzia Giovani stenta però a decollare: «Siamo a 250mila giovani iscritti. C'è chi dice che sono pochi, ma quanti stadi servirebbero per contenerli tutti? Ci accusano di non aver fatto un clicday, e meno male perché poi succedono i disastri coi server. La verità è che Garanzia Giovani oggi ha un problema naturale: abbiamo più iscrizioni nei posti dove abbiamo più disoccupati, che sono proprio i posti dove ci sono meno opportunità. A Milano ci sono più aziende disponibili a far fare uno stage piuttosto che a Catanzaro o a Enna». La sfida insomma è mettere in funzione un sistema funzionante di politiche attive per il lavoro: «Dobbiamo costruire da zero il servizio e le opportunità. Siamo convinti che se riusciamo a far andare in porto questa operazione, stiamo costruendo i nostri nuovi servizi all'impiego». Poletti non nasconde che ci siano Regioni molto indietro con l'implementazione dei servizi di Garanzia Giovani: «Ci stiamo interrogando su cosa fare con lquelle che non stanno facendo quello che dovrebbero, per garantire ai giovani di quei territori lo stesso diritto di “garanzia”». Il problema sono le competenze, che per quanto riguarda la formazione professionale e i servizi all'impiego dalla fine degli anni Novanta sono in capo alle singole Regioni: «Il problema oggi è che a normativa data il potere di intervento è limitato a casi di eclatante gravità. Fino ad ora siamo andati avanti con accordi con le Regioni, ora stiamo pensando a come mettere in atto operazioni di sostituzione. Il primo round ci dice che rischiamo di aprire un conflitto di competenze di fronte alla Corte costituzionale e se ne riparla tra cinque anni. Praticamente la metà del lavoro della Corte costituzionale» aggiunge sconsolato il ministro «è focalizzata sul dirimere contrasti tra stato e regioni». Qualcosa però in futuro potrebbe cambiare: «Sicuramente con il nuovo assetto del titolo V questo aspetto è affrontato, perché ci sono meccanismi molto più dinamici di sostituzione». Per chiudere il ministro snocciola alcuni dati numerici: «Dei 250mila giovani registrati già 60mila hanno fatto i colloqui» ammette che il problema da affrontare di petto adesso «è quello delle opportunità» e si toglie anche qualche saassolino dalla scarpa: «Abbiamo anche il problema di gestire questi progetti in maniera coerente con un impianto burocratico europeo che chiede cose spropositate».La modalità della raffica di domande sembra aver soddisfatto tutti. È quasi mezzanotte, un applauso e tutti a casa.

Stagisti laureati, per loro il compenso è un diritto: ma la Corte costituzionale fa eccezione

Oggi scade un bando di stage rivolto a quattro laureati. Non è un bando qualsiasi: lo ha aperto qualche settimana fa la Corte Costituzionale, blasonato organo previsto dalla nostra Costituzione per giudicare le «controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni», i «conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni, e tra le Regioni» e, in rari casi, le «accuse promosse contro il Presidente della Repubblica». Il bando è rivolto a laureati, e ciò significa che gli stage in questione sono  di tipologia extracurriculare - salvo il caso particolare di una persona già laureata che stia svolgendo un master o un dottorato. C'è però un problema: per questi stage non è previsto un euro di rimborso spese. Esatto: sono gratuiti. In contrasto con tutte le nuove leggi che assicurano agli stagisti extracurriculari un compenso, con le soglie minime fissate da ciascuna Regione per il proprio territorio.Nel bando si legge che la Corte costituzionale «intende offrire a neo-laureati di vecchio e nuovo ordinamento la possibilità di effettuare periodi di stage denominato “Programma di stage Corte costituzionale – Università”» con l'obiettivo di «avvicinare mondo accademico e mondo del lavoro offrendo a neo-laureati la possibilità di effettuare un periodo di formazione presso la Corte costituzionale». La Corte aprirà le porte del suo Servizio Studi e del suo Massimario per stage di 6 mesi a quattro «laureati interessati all’approfondimento delle tematiche proprie del diritto costituzionale e della giustizia costituzionale» che abbiano meno di 30 anni e abbiano preso una votazione minima 105/110, sappiano le «lingue straniere nell’ambito delle principali aree europee». Gli aspiranti stagisti possono essere iscritti «ad un dottorato di ricerca, ad una scuola di specializzazione o ad un master riguardanti le tematiche sopra richiamate», oppure essere beneficiari di una borsa di studio, o «in possesso di altri titoli equivalenti comunque rilasciati dalle università».Ma attenzione: tutto questo completamente gratis. «Lo stage non può in alcun modo e a nessun effetto configurarsi come rapporto di lavoro» si legge nel bando, e fin qui tutto bene, ma poi arriva l'inaspettato: «né può dar luogo a pretese di compensi o ad aspettative di futuri rapporti lavorativi». La formula è un tantino vessatoria: «Non sono configurabili pretese del partecipante in ordine ai contenuti, alle modalità ed ai risultati dello stage», dice la Corte nel bando stoppando dunque preventivamente ogni minima possibilità di lamentela, e infine la frase forse più gretta: «o in ordine alle spese ed agli eventuali inconvenienti che esso potrebbe comportare a carico dell’interessato». Cioè in pratica: non ce ne importa un fico secco se per fare lo stage dovrete rimetterci di tasca vostra. Laureati avvisati, mezzi salvati.Sono state le università, in queste settimane, a fare la cernita delle candidature, per mandare poi una rosa ristretta alla Corte: «Una volta recepite le candidature le Università o Istituzioni procedono ad una prima preselezione – sulla base dei requisiti richiesti dal presente bando – volta alla definizione della rosa di non più di tre candidati, da parte di ciascuna Università o Istituzione, da trasmettere all’Amministrazione della Corte costituzionale» spiega il bando: «La Corte costituzionale procederà, una volta chiusi i termini per la raccolta delle candidature, alla selezione finale dei nominativi degli ammessi». Ma come è possibile che la Corte Costituzionale preveda di fare degli stage gratuiti per neolaureati? Dato che ha sede a Roma, non dovrebbe assoggettarsi alla deliberazione regionale 199/2013, che prevede che a tutti i tirocinanti extracurriculari debba essere corrisposta un'indennità minima di 400 euro lordi mensili? Anche alcune università, sorprese dalla mancanza di rimborso spese, se lo sono chiesto, decidendo di chiedere lumi; e lo stesso ha fatto la Regione Lazio.La Corte Costituzionale a tutti gli interlocutori ha risposto nella stessa maniera. La dgr 199/2013 è stata emanata in attuazione dell’accordo adottato in Conferenza Stato - Regioni il 24 gennaio 2013, sulla base della Riforma Fornero (per la precisione secondo l’articolo 1 comma 34 della legge 92/2012: la riforma Fornero, appunto). Questa legge prevede che le disposizioni in essa contenute valgano per tutte le imprese private e anche per gli enti pubblici, ma sorpresa: non per tutti. Il testo infatti fa specifico riferimento alle «pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001».E quali enti pubblici elenca il decreto legislativo 165 del 2001? Si legge nel testo: «Per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale». La Corte costituzionale non c'è. Dunque, non è nemmeno assoggettata all'accordo Stato-Regioni sui tirocini. Dunque, nemmeno alla legge regionale del Lazio. «La Corte Costituzionale, in qualità di organo costituzionale, non rientra tra le pubbliche amministrazioni di cui al citato articolo art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, e, pertanto, non è tenuta ad applicare quest’ultima legge, né, di conseguenza, aderire all’accordo adottato dalla Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano del 24 gennaio 2013». Questa la risposta fornita per iscritto a una delle università che hanno sollevato la questione: per questo «la Corte, nell’esercizio della sua autonomia, ha deciso di offrire opportunità formative ai neo laureati nei modi e termini di cui al bando, non prevedendo alcun rimborso/compenso».Ma davvero si può pensare che la Corte costituzionale non sia una amministrazione dello Stato? E peraltro, anche se così è dal punto di vista strettamente giuridico, c'è in ballo anche una questione di opportunità: nel momento in cui si chiede alle aziende private e a praticamente tutti gli enti pubblici di pagare le indennità agli stagisti extracurriculari, è accettabile che un organo pubblico così importante come si permetta di aprire tirocini gratuiti, dando il cattivo esempio?Dal bilancio 2014 della Corte Costituzionale emerge una spesa annuale di 8 milioni 724mila euro per le sole retribuzioni dei giudici, unitamente ai contributi e alle spese di viaggio; più altri 27 milioni 331mila euro circa per il personale in servizio (un totale di 330 dipendenti di cui 204 di personale di ruolo in servizio, 58 di personale "comandato", 44 militari in forza al Comando Carabinieri Corte costituzionale, 4 unità di personale del presidio dei Vigili del fuoco, più 4 persone a contratto) e oltre 20 milioni di euro per il personale in quiescenza (235 pensionati della Corte costituzionale, di cui 22 ex giudici e 9 loro superstiti più 119 ex dipendenti e 85 loro superstiti). Una borsa di studio di 400 euro lordi al mese per 6 mesi avrebbe un costo di 2.400 euro lordi: moltiplicando questa cifra per ciascuno dei quattro stagisti per i quali  è stato pubblicato il bando in questione, si evince che per la Corte Costituzionale adeguarsi alla legge regionale del Lazio sui tirocini sarebbe costato, in questo caso, solamente 9.600 euro. Davvero impossibili da trovare nelle pieghe del bilancio? La Repubblica degli Stagisti ha posto questa domanda direttamente alla Corte, contattando il suo ufficio stampa: l'auspicio è che arrivi presto una risposta, e che venga avviata una riflessione in merito per modificare la policy e prevedere, a partire dal 2015, un compenso a favore dei giovani laureati in Giurisprudenza che svolgono stage all'interno della Corte Costituzionale.Eleonora Voltolina

Da oggi online il monitoraggio informale di Garanzia Giovani promosso da Repubblica degli Stagisti e Adapt

Vogliamo saperne di più della Garanzia Giovani. Funziona? I giovani vengono convocati? Quali sono le proposte che ricevono? È importante capirlo, perché su questo progetto di matrice europea è stato investito un mucchio di soldi, 1 miliardo e mezzo di euro per il biennio 2014-2015: e il primo di questi due anni sta quasi finendo, senza che la Garanzia Giovani abbia finora prodotto grandissimi risultati. Anche perché è partita con un certo ritardo, all'inizio di maggio, e si può dire che solo da settembre sia entrata davvero nella fase operativa.Il ministero del Lavoro diffonde settimanalmente i dati numerici, aggiornando il numero degli iscritti Regione per Regione. Ma bisogna andare più a fondo. È necessario e urgente voce ai diretti interessati, offrendo loro la possibilità di raccontare ciascuno la sua personale esperienza con Garanzia Giovani, le sue aspettative. Com'è andata, quanto ha aspettato prima di essere convocato, come è stato accolto, quanto è durato il colloquio, quali opzioni di "presa in carico" gli sono state prospettate.Per questo la Repubblica degli Stagisti ha stretto una inedita alleanza con l'associazione Adapt, che negli ultimi mesi ha concentrato la sua attenzione sulla Garanzia Giovani per denunciare i malfunzionamenti e proporre migliorie. Insieme abbiamo elaborato e messo online da oggi un questionario, veloce e anonimo, che permette a ciascun under 30 che sia senza lavoro di venire a raccontare la sua storia con Garanzia Giovani. Alcune domande sono a risposta multipla, in altri casi lo spazio è libero per poter scrivere liberamente, per esempio per raccontare il primo colloquio.Speriamo davvero che questo strumento possa essere utilizzato da tanti giovani per far sentire la propria voce; a noi permetterà di raccogliere informazioni di prima mano sull'andamento dell'iniziativa, poter capire se sta funzionando oppure no, ed eventualmente elaborare proposte correttive da sottoporre al ministero del Lavoro e alle Regioni. Quanti più giovani sceglieranno di dedicare cinque minuti per partecipare a questo progetto compilando il questionario, quanto più funzionerà il passaparola, tanto più chiara e completa sarà la mappatura che riusciremo a far uscire attraverso questo monitoraggio "informale".L'invito per tutti è quello di compilare il modulo, e sopratutto di far circolare il link attraverso Facebook, Twitter, newsletter, siti, blog e chi più ne ha più ne metta.

Il Jobs Act punto per punto

Sette pagine. Tanto è lungo il "Jobs Act", la riforma del lavoro che il governo Renzi sta portando avanti in Parlamento. Qualche giorno fa il Senato l'ha approvato, con un voto di fiducia, proprio a ridosso dell'incontro a Milano di tutti i capi di stato e di governo sul tema dell'occupazione. Ora la discussione si sposta alla Camera. Ma cosa c'è scritto in questo Jobs Act? Innanzitutto è bene sapere che non si tratta di una legge "normale", cioè di un testo normativo che viene approvato dai due rami del Parlamento, pubblicato in Gazzetta Ufficiale e da quel momento diventa operativo. No. Il Jobs Act è una legge delega: un testo cioè in cui il Parlamento autorizza («delega», appunto) il governo a legiferare su un certo tema, fornendo ovviamente una traccia e un confine a cui il governo dovrà attenersi. Dunque si può pensare il Jobs Act come una partita in tre fasi. Le prime due sono l'approvazione al Senato (avvenuta) e quella alla Camera (in fieri), che però potrebbero necessitare di tempi supplementari perché se la Camera modificherà anche solo una parola del testo approvato dal Senato, ci sarà bisogno di un nuovo passaggio di approvazione da parte di quest'ultimo. Siamo infatti - ancora per poco, forse - una democrazia organizzata come bicameralismo perfetto, e dunque tutte le leggi devono essere approvate da entrambi i rami del Parlamento in maniera univoca. La terza fase, una volta ottenuta l'approvazione definitiva dal Parlamento, sarà giocata dal governo e in particolare dal Ministero del Lavoro: perché a quel punto la squadra di Renzi e Poletti dovrà scrivere i decreti che daranno gambe al Jobs Act - tutti entro un massimo di 6 mesi. Ma cosa prevede, in concreto, questa riforma del lavoro presentata come una rivoluzione dai suoi sostenitori e bollata come una peste bubbonica dai detrattori? Il Jobs Act è composto da un solo articolo, intitolato «Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonchè in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro». Il cuore del testo si compone di 8 commi: sostanzialmente per ciascuno dei 4 macrotemi vi è un comma che dice "faremo questo" e il comma successivo che specifica "come lo faremo".Ecco come lo vedo io.Comma 1 e 2. Tra i criteri direttivi che il Parlamento fornisce al governo per elaborare il testo definitivo del Jobs Act sotto il profilo della riforma degli ammortizzatori sociali si trovano, per quanto riguarda gli strumenti di tutela in costanza di rapporto di lavoro, la «previsione di una maggiore compartecipazione da parte delle imprese utilizzatrici», la «revisione dell’ambito di applicazione della cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria e dei fondi di solidarietà» e «delle regole di funzionamento dei contratti di solidarietà», oltre che la sempreverde «semplificazione delle procedure burocratiche attraverso l’incentivazione di strumenti telematici e digitali». Per quanto riguarda il capitolo delle «strumenti di sostegno in caso di disoccupazione involontaria», il testo della legge delega prevede una «rimodulazione dell’Assicurazione sociale per l’impiego (ASpI), con omogeneizzazione della disciplina relativa ai trattamenti ordinari e ai trattamenti brevi» e sopratutto una «universalizzazione del campo di applicazione dell’ASpI, con estensione ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa», cioè i cococo e i cocopro. A fronte di queste migliorie, è prevista l'introduzione di «meccanismi che prevedano un coinvolgimento attivo del soggetto beneficiario dei trattamenti» e un generale «adeguamento delle sanzioni e delle relative modalità di applicazione, in funzione della migliore effettività, secondo criteri oggettivi e uniformi, nei confronti del lavoratore beneficiario di sostegno al reddito che non si rende disponibile ad una nuova occupazione, a programmi di formazione o alle attività a beneficio di comunità locali». Insomma, i disoccupati verranno sostenuti di più, ma si dovranno anche dare da fare. Mi piace perché: si ripropone di «assicurare, in caso di disoccupazione involontaria, tutele uniformi e legate alla storia contributiva dei lavoratori, di razionalizzare la normativa in materia di integrazione salariale», cioè di garantire un sussidio di disoccupazione anche alla maggior parte dei tantissimi lavoratori che finora ne sono rimasti esclusi. Il tassello che mi lascia perplessa: innanzitutto il fatto che, pur essendo nelle intenzioni una riforma degli ammortizzatori sociali in senso universalistico, in realtà non prevede un sussidio universale, a tutti-tutti coloro che restano temporaneamente senza lavoro. Continueranno cioè ad esserci persone che non avranno diritto al sussidio. Inoltre anche l'allargamento non sarà immediato: il testo della legge delega prevede infatti «prima dell’entrata a regime, un periodo almeno biennale di sperimentazione a risorse definite». Quelle ultime due paroline, «risorse definite», rischiano di voler dire che l'estensione del sussidio ai nuovi beneficiari verrà prevista con una copertura finanziaria limitata, e una volta raggiunta quella cifra, chi lo richiederà resterà fuori. Un meccanismo simile è stato già utilizzato in passato, per esempio con i sussidi "una tantum". Ipotizzando una approvazione definitiva del Jobs Act entro la fine dell'anno, e una pubblicazione dei vari decreti legislativi prima dell'estate 2015, non si potrà parlare di sussidio di disoccupazione davvero esteso fino alla fine del 2018.Comma 3 e 4. Prevede il «riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive». Il governo dovrà mettere a punto il decreto legislativo corrispondente concordandolo con la Conferenza Stato-Regioni, ma è esplicitamente previsto che «in mancanza dell’intesa» il governo possa procedere autonomamente. Anche in questo caso il Parlamento impone al governo di rispettare alcuni criteri, tra cui per esempio la «razionalizzazione degli incentivi all’assunzione esistenti, da collegare alle caratteristiche osservabili per le quali l’analisi statistica evidenzi una minore probabilità di trovare occupazione, e a criteri di valutazione e di verifica dell’efficacia e dell’impatto» e soprattutto la «istituzione […], di un’Agenzia nazionale per l’occupazione, di seguito denominata “Agenzia”, partecipata da Stato, regioni e province autonome, vigilata dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali». Tra i punti interessanti vi è il «rafforzamento delle funzioni di monitoraggio e valutazione delle politiche e dei servizi» - finalmente un po' di accountability! - e la «valorizzazione delle sinergie tra servizi pubblici e privati, al fine di rafforzare le capacità d’incontro tra domanda e offerta di lavoro», che si dovrebbe concretare attraverso «accordi per la ricollocazione che vedano come parte le agenzie per il lavoro o altri operatori accreditati, con obbligo di presa in carico, e la previsione di adeguati strumenti e forme di remunerazione, proporzionate alla difficoltà di collocamento, a fronte dell’effettivo inserimento almeno per un congruo periodo»: andando dunque a imparare là dove le competenze per il collocamento dei lavoratori ci sono davvero.Mi piace perché: è prevista una «valorizzazione del sistema informativo per la gestione del mercato del lavoro e il monitoraggio delle prestazioni erogate» e una «semplificazione amministrativa in materia di lavoro e politiche attive, con l’impiego delle tecnologie informatiche […] allo scopo di rafforzare l’azione dei servizi pubblici nella gestione delle politiche attive e favorire la cooperazione con i servizi privati, anche mediante la previsione di strumenti atti a favorire il conferimento al sistema nazionale per l’impiego delle informazioni relative ai posti di lavoro vacanti»: forse potrebbe essere la volta buona per un'adozione su scala nazionale del progetto delle Mappe del lavoro.Il tassello che mi lascia perplessa: essenzialmente che questa Agenzia per l'occupazione, che dovrebbe andare a coordinare le attività dei centri per l'impiego, venga prevista tassativamente «senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica» e anzi: «al cui funzionamento si provvede con le risorse umane, finanziarie e strumentali già disponibili a legislazione vigente». Perché il problema dell'efficacia dei servizi all'impiego, oggi drammaticamente inefficienti, sta anche nello scarso numero e nella scarsa preparazione dei dipendenti di questo comparto.  E allora come si puà pensare che le risorse umane già esistenti, e già comprovatamente inadeguate, possano garantire a chi cerca lavoro «percorsi personalizzati» come avviene per esempio nei Paesi del centro e nord Europa?Comma 5 e 6. In questa parte del Jobs Act viene esposto un auspicio assolutamente condivisibile, la «semplificazione e razionalizzazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese». Il parlamento chiede al governo di legiferare «con l’obiettivo di dimezzare il numero di atti di gestione del medesimo rapporto, di carattere amministrativo» ed eliminando e semplificando le «norme interessate da rilevanti contrasti interpretativi, giurisprudenziali o amministrativi»: magari! Vengono predisposte anche l'«unificazione delle comunicazioni alle pubbliche amministrazioni per i medesimi eventi e obbligo delle stesse amministrazioni di trasmetterle alle altre amministrazioni competenti» e l'«abolizione della tenuta di documenti cartacei». Mi piace perché: perché se venisse davvero realizzato sarebbe una rivoluzione: solo il pensiero che venga introdotto un sacrosanto «divieto per le pubbliche amministrazioni di richiedere dati dei quali esse sono in possesso», anziché costringere i cittadini a fare file estenuanti, ping pong tra uffici, per consegnare documenti che di fatto la pubblica amministrazione già detiene, fa commuovere. Il tassello che mi lascia perplessa: vi sono nel testo riferimenti al contrasto alle dimissioni in bianco e al lavoro sommerso, e ciò è ovviamente un bene. Specialmente per il primo tema, però, la formula non è incisivissima: il testo promette «modalità semplificate per garantire data certa nonché l’autenticità della manifestazione di volontà del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro», ma non è molto chiara la seconda parte della frase, che recita «anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso del lavoratore». Il proposito di ispirarsi alla risoluzione del Parlamento europeo dello scorso 14 gennaio «sulle ispezioni sul lavoro efficaci come strategia per migliorare le condizioni di lavoro in Europa» sarebbe poi anche buono, ma come fare con un numero così ridotto di ispettori del lavoro attivi? Nel comma successivo si fa, in effetti, riferimento alla «razionalizzazione e semplificazione dell’attività ispettiva» con l'istituzione di una «Agenzia unica per le ispezioni del lavoro, tramite l’integrazione in un’unica struttura dei servizi ispettivi del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dell’Inps e dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (Inail), prevedendo strumenti e forme di coordinamento con i servizi ispettivi delle aziende sanitarie locali e delle agenzie regionali per la protezione ambientale». Basterà?Comma 7. Siamo al punto più controverso: in questo comma sta infatti il cuore della riforma del lavoro, con tutto il dibattito che si è essenzialmente concentrato sull'articolo 18. Che però, curiosamente, non viene nemmeno nominato; così come non vi è alcun cenno al testo normativo del quale esso fa parte, e cioè lo Statuto dei lavoratori. Il testo prevede di «riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo». Il governo Renzi si impegna - sempre entro i soliti sei mesi - a emanare un decreto legislativo «recante un testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro». Il testo licenziato dal Senato prevede che alcuni contratti possano essere aboliti («individuare e analizzare tutte le forme contrattuali esistenti, ai fini di poterne valutare l’effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale, in funzione di interventi di semplificazione, modifica o superamento delle medesime tipologie contrattuali») per sostenere il contratto a tempo indeterminato «come forma privilegiata di contratto di lavoro» e cioè rendendolo finalmente «più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti». Mentre ora è esattamente il contrario: i contratti precari sono più convenienti di quelli stabili. La modalità attraverso cui Renzi si propone di centrare l'obiettivo è il «contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio». E poi anche a livello di diritto del lavoro e di contenzioso si promette una azione decisa di semplificazione, con la «abrogazione di tutte le disposizioni che disciplinano le singole forme contrattuali, incompatibili con le disposizioni del testo organico semplificato, al fine di eliminare duplicazioni normative e difficoltà interpretative e applicative».Mi piace perché: si fa riferimento alla «introduzione, eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile ai rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, nonché ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro». Qui il Senato ha apportato una modifica molto importante rispetto al primo testo di Jobs Act che era stato proposto dal Governo, allargando il raggio d'azione di questo compenso orario minimo ai cococo e cocopro.Il tassello che mi lascia perplessa: l'incertezza su quanti e quali tipologie contrattuali verranno soppresse, e quell'«eventualmente anche in via sperimentale» riferito al salario minimo: perché mai in via sperimentale? Se questa misura è già in vigore in oltre due terzi degli Stati europei, ed è stata recentissimamente introdotta anche in Germania, cosa ci sarà mai da sperimentare?Comma 8. Il Jobs Act parla infine di «genitorialità», prevedendo «la revisione e l’aggiornamento delle misure volte a tutelare la maternità e le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro», in particolare «nella prospettiva di estendere, eventualmente anche in modo graduale, tale prestazione a tutte le categorie di donne lavoratrici» (anche quelle al momento escluse). Tra i punti interessanti la «garanzia, per le lavoratrici madri parasubordinate, del diritto alla prestazione assistenziale anche in caso di mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro» e la «incentivazione di accordi collettivi volti a favorire la flessibilità dell’orario lavorativo e dell’impiego di premi di produttività, al fine di favorire la conciliazione tra l’esercizio delle responsabilità genitoriali e dell’assistenza alle persone non autosufficienti e l’attività lavorativa, anche attraverso il ricorso al telelavoro». C'è posto in questo comma anche per gli asili nido - si parla di «integrazione dell’offerta di servizi per l’infanzia forniti dalle aziende e dai fondi o enti bilaterali nel sistema pubblico-privato dei servizi alla persona, anche mediante la promozione dell’utilizzo ottimale di tali servizi da parte dei lavoratori e dei cittadini residenti nel territorio in cui sono attivi» - e viene prospettata la possibilità di una revisione della legge che regola i congedi di maternità e di paternità, «per garantire una maggiore flessibilità dei relativi congedi obbligatori e parentali, favorendo le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro».Mi piace perché: è un bene che si parli di genitorialità, superando il preconcetto per il quale la conciliazione sarebbe un affare esclusivamente femminile.Il tassello che mi lascia perplessa: una eccessiva gradualità e i contorni troppo sfumati della delega: il congedo di paternità per esempio, che il governo Monti ha varato in maniera quasi offensiva prevedendo un solo giorno di congedo obbligatorio retribuito per i neopadri, verrà rivisto ed esteso oppure no? Inoltre, al posto di terminologie obsolete come il «telelavoro», avrei preferito si parlasse di «smart working» (dato che giace anche in Parlamento una proposta di legge bipartisan in tal senso).Eccolo qui, in sintesi ma non troppo, il Jobs Act di cui tutti parlano. Una misura eccezionale? Uno specchietto per le allodole? Una accozzaglia di buoni propositi che non vedrà mai la luce? Oppure un propulsore per proiettare il mercato del lavoro italiano nel futuro dei Paesi avanzati? Lo potrà dire solamente il tempo. Nel frattempo, noi qui sulla Repubblica degli Stagisti ci prendiamo come al solito con i lettori l'impegno di seguire passo dopo passo l'iter non solo della legge delega, ma anche di tutti i singoli decreti legislativi che dovranno rendere concreto e operativo il Jobs Act.Eleonora Voltolina

Servizio civile, saranno 23mila le opportunità per il 2015: imminente l'uscita del nuovo bando

C'è grande attesa per i nuovi bandi del Servizio civile nazionale. L'uscita è prevista a giorni: «entro i primi di ottobre» assicura alla Repubblica degli Stagisti Enrico Maria Borrelli, presidente del Forum nazionale servizio civile. Che sul contenuto dei nuovi progetti rassicura: «Tutto come sempre riguardo la durata, di circa dodici mesi, e il rimborso, sempre di 433 euro mensili». Anche per le partenze è confermato come periodo la prossima primavera. L'altra buona notizia è che c'è posto per un numero maggiore di ragazzi rispetto agli anni scorsi: 23mila i posti messi a bando quest'anno, anche se il rialzo dei numeri non sembra andare di pari passo con l'aumento dei fondi. Dopo la soppressione del bando del 2012, gli stanziamenti erano drammaticamente scesi a quota 68 milioni (ridotti di un quarto rispetto al 2007). Nel 2013 l'allora ministro per l'Integrazione Kyenge aveva stanziato 76 milioni, da cui era scaturito il bando più scarno di sempre, con soli 15mila posti disponibili. Oggi «dal fondo nazionale sono arrivati 190 milioni» spiega Borrelli, con un aumento più che doppio sull'anno precedente. La stessa moltiplicazione non è però avvenuta per i posti disponibili. E questo nonostante le coperture, a ben vedere, siano ancora più ampie, perché da quest'anno i vari progetti di Servizio civile saranno associati anche al programma Garanzia giovani. Nello specifico, saranno «42 i milioni di euro provenienti dal miliardo e mezzo di dotazione della Youth Guarantee da destinare al Servizio civile. Fondi che consentiranno l'avvio di 7.432 iter, inclusi nel bacino complessivo dei 23mila» spiega ancora Borrelli. Per questa tipologia di bandi gli interessati dovranno tuttavia rivolgersi alle regioni di competenza, quelle demandate ad attivare i vari percorsi. Peraltro, non tutti i territori sono ancora operativi, «e per quanto riguarda i finanziamenti, ogni regione potrà decidere in merito in piena autonomia» riferisce Borrelli. Dunque, per il momento, nulla di certo. La novità è però che il lavoro di orientamento cambierà: «Se fino a oggi la presa in carico e di creazione del profilo del candidato spettava agli enti incaricati, adesso la palla passa ai centri per l'impiego». Una misura che potrebbe giustificare la necessità di una fetta più cospicua di fondi pubblici, pur non essendo variati in maniera significativa i posti disponibili né tanto meno la borsa mensile. Ma il Servizio civile nazionale potrebbe a breve cambiare pelle. Inizialmente concepito come alternativa alla leva obbligatoria, poi con la legge 64/ 2001 istituito come Servizio volontario aperto anche alle donne, e infine – nel 2006 – rivoluzionato a seguito del trasferimento delle competenze gestionali a Regioni e Province, potrebbe adesso diventare a tutti gli effetti un canale formativo in più destinato ai giovani. Quello che nelle intenzioni del premier Renzi dovrebbe essere il Servizio civile universale, rivolto a 100mila giovani ogni anno, con il coinvolgimento di enti pubblici di varia natura, ministeri inclusi. È una delle riforme contenute nel disegno di legge delega che per ora il Governo ha solamente abbozzato. La discussione è tuttavia ancora in corso in parlamento, e per il varo definitivo si dovrà attendere almeno la fine dell'anno, secondo le recenti dichiarazioni del ministero del Lavoro con delega al terzo settore, Luigi Bobba. L'altra novità riguarda la certificazione delle competenze. Come si legge sul sito del Governo, nella pagina che sintetizza il testo della delega, si «prevede che i decreti legislativi vadano nella direzione di riconoscere e valorizzare le competenze acquisite durante l’espletamento del servizio civile universale in funzione del loro utilizzo nei percorsi di istruzione e in ambito lavorativo». Un tentativo in sostanza di riaffermare il Servizio civile come qualcosa in più che semplice volontariato, rilanciandolo come strumento alternativo di accesso al mondo del lavoro. Un rinnovamento su cui Borrelli si dice d'accordo: «Si tratta di esperienze non solo di solidarietà, ma che trasmettono apprendimento, abilità, competenze». Infine l'aspetto del riconoscimento del Servizio civile anche a chi non possiede la nazionalità italiana. Una questione che ha di recente sollevato un caso giudiziario. Risale alla fine dello scorso anno l'accoglimento da parte del tribunale di Milano di un ricorso presentato da due giovani stranieri residenti da quattro anni in Italia. Giovani scartati, in quanto non italiani, dall'accesso al bando. La vicenda è però ancora tutta da scrivere, perché lo Stato ha nel frattempo fatto ricorso e a pronunciarsi dovrà ora essere la Cassazione. Nel frattempo però sembra chiara l'intenzione del governo che sul sito, in riferimento alla legge in via di approvazione, fa riferimento ai «giovani di età compresa tra 18 e 28 anni, anche cittadini dell’Unione europea e soggetti ad essi equiparati ovvero stranieri regolarmente soggiornanti». Anche Borrelli non ha dubbi sull'estensione del Servizio agli stranieri: «Sono da sempre favorevole, è un'occasione di integrazione». Ilaria Mariotti 

Premi di laurea, autunno di opportunità: in palio complessivamente più di 30mila euro

L’arrivo della stagione autunnale propone una serie di possibilità per chi vuole ottenere un riconoscimento in denaro per il proprio lavoro di tesi. Partiamo dalle scadenze più imminenti. Il 30 settembre 2014 è l’ultimo giorno utile per fare domanda per il premio Laura Conti, promosso dall’Ecoistituto del Veneto, sui temi dell’ecologia e dell’economia sostenibile, dalle energie rinnovabili al risparmio ambientale, dalla mobilità intelligente all’economia solidale. L’ammontare dei tre premi messi in palio è rispettivamente di 1000, 500 e 250 euro. Sono ammesse alla partecipazioni tesi di laurea di tutti i livelli discusse a partire dall’anno accademico 2005-2006.  Per partecipare è necessario inviare copia della tesi, sia formato cartaceo che digitale, e scheda di partecipazione. Tutto il materiale va spedito all’indirizzo dell’Ecoistituto del Veneto - Viale Venezia, 7 - 30171 Venezia Mestre.    Stessa deadline per il premio intitolato all’architetto  Antonio Andreucci e bandito dall’università di Firenze. Oggetto tesi di laurea discusse nell’anno accademico 2012/2013 o nella sessione estiva di quello successivo sui temi delle tecnologie dell’architettura e del design. Tre i riconoscimenti previsti, del valore di 5mila, 2mila e mille euro. Saranno dieci le tesi finaliste, le sette non premiate otterranno comunque un rimborso spese di 500 euro. Entro la data indicata dovranno essere spediti per posta al dipartimento di architettura (DIDA) dell’ateneo fiorentino (via della Mattonaia 14, 50121 Firenze) domanda di partecipazione, relazione sintetica degli obiettivi della tesi e sua copia.Più ampi i termini per il premio di laurea bandito dal G.S.E. (Gestore servizi energetici), incentrato sullo sviluppo scientifico e tecnologico delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica in Italia: la scadenza è fissata al 31 ottobre 2014. In questo caso in palio ci sono due premi di laurea del valore di tremila euro ciascuno. Possono candidarsi autori di tesi di laurea specialistica su temi attinenti il titolo del premio. Il modulo di partecipazione, con la tesi in formato elettronico e una breve presentazione del lavoro, deve essere spedito per mail all’indirizzo entro la data indicata. Il coordinamento esteri di Flp Cgil, in collaborazione con l’università La Sapienza di Roma, bandisce poi il premio Enrico Augelli. Deadline per la presentazione delle candidature sempre il 31 ottobre 2014. In palio tremila euro per tesi di laurea magistrali che affrontino tematiche relative alle economie dei paesi in via di sviluppo. Le tesi devono essere state necessariamente discusse da candidati nati dopo il primo gennaio 1984, che si siano laureati con votazione di almeno 105/110 in una delle discipline segnalate nel bando, tra cui scienze della comunicazione, relazioni internazionali, scienze per la cooperazione allo sviluppo.  Entro la data segnalata devono pervenire al coordinamento esteri FLP CGIL (piazzale della Farnesina 1, 00135 Roma) copia dell’elaborato in formato elettronico e cartaceo, cv formato europeo, fotocopia dei titoli di studio, eventuali attestati e una relazione di lunghezza massima due cartelle in cui il candidato spiega l’attività in ambito internazionale di Flp Cgil.Dario Ciapetti è stato sindaco del comune di Berlingo, nel bresciano e fino alla sua morte si è battuto sui temi del rispetto dell’ambiente e della mobilità sostenibile: a lui è intitolato il premio, del valore di 1500 euro, destinato alla migliore tesi nei settori rifiuti, gestione del territorio, mobilità e nuovi stili di vita. Possono partecipare tesi di laurea specialistica discusse in qualsiasi facoltà italiana, purché depositate entro il mese di settembre dell’anno precedente la pubblicazione del bando. Domanda di adesione (scaricabile dal sito www.comunivirtuosi.org), cv, copia della tesi di laurea e sintesi del lavoro (massimo 5 cartelle) devono essere inoltrati via mail a uno dei seguenti indirizzi: info [chiocciola] comunevirtuosi.org, segreteria.fondazione [chiocciola] cogeme.net o info [chiocciola] comune.berlingo.bs.it. Ultimo giorno utile per presentare la modulistica è l’8 novembre 2014.È arrivato alla settima edizione il premio di laurea Giulio Natta, incentrato sul tema del supporto all’anticontraffazione nel settore alimentare. Il riconoscimento del valore di tremila euro lordi è intitolato al noto ricercatore e premio Nobel per la fisica. Possono candidarsi entro il 28 novembre 2014 laureati di corsi triennali o magistrali che hanno conseguito la laurea nel periodo gennaio 2012-novembre 2013 in ingegneria, economia, informatica, biotecnologie, scienze e tecnologie agrarie con votazione di almeno 100/110. La domanda di partecipazione va scaricata dai siti www.sviluppoeconomico.gov.it o www.uibm.gov.it e deve essere accompagnata da due copie (cartacea e su cd rom) della tesi di laurea, da una breve sintesi della tesi, dal certificato di laurea con elenco degli esami sostenuti e relative votazioni e infine nota di presentazione del docente che ha seguito il lavoro. Tutta la documentazione va inviata all’indirizzo indicato sul bando. Ha deadline 15 dicembre 2014, infine, il bando del premio di laurea Mario Rava, indirizzato a tesi di laurea magistrale o di dottorato discusse in atenei italiani o esteri (purché di paesi UE) su argomenti quali credito e microcredito agrario e politiche agrarie, discusse tra il primo gennaio 2011 e il 30 novembre 2014. Il riconoscimento in palio ammonta a 5mila euro. I candidati dovranno far pervenire alla segreteria del premio (presso l’Associazione bancaria italiana, piazza del Gesù 49, 00186 Roma) entro la scadenza due copie della tesi di laurea, sintesi del lavoro, cv formato europeo (in italiano o inglese) e autorizzazione al trattamento dei dati personali. Il premio sarà assegnato entro il 31 marzo 2015 da una commissione di esperti nominati dal consiglio d’amministrazione della Fondazione Rava.Chiara Del Priore