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Diritti degli stagisti, mai più tirocini gratuiti: la Commissione europea promette una direttiva entro giugno

A giugno del 2023 il Parlamento europeo aveva approvato una risoluzione per dire basta agli stage privi di rimborso spese. Eppure gli stage gratuiti non sono magicamente scomparsi: continuano a proliferare in tutta Europa – perché, si sa, tra gli annunci della politica e i fatti concreti spesso passa molto tempo. E ancora nessuna restrizione normativa è intervenuta a vietarli. A inizio gennaio di quest’anno, la Commissione europea si è finalmente impegnata a presentare una proposta legislativa prima della scadenza della legislatura per migliorare le condizioni dei tirocinanti in Europa: i tempi della Commissione sono dunque estremamente ristretti, visto che tra tre mesi ci sono le nuove elezioni europee. In questi ultimi due mesi però non ci sono stati aggiornamenti, e le bocche degli addetti ai lavori sono rimaste cucite; ma qualche settimana fa il Parlamento europeo ha organizzato un dibattito coinvolgendo le due altre istituzioni più rappresentative, Commissione e Consiglio, per chiedere per gli stagisti – per l’ennesima volta – norme e condizioni migliori. Tra le richieste principali dei deputati ci sono indicazioni chiare sulla durata massima dei periodi di tirocinio, compensi minimi obbligatori a favore dei tirocinanti (anche curricolari), e l’accesso alla protezione sociale.  Durante l’evento Nicolas Schmit, Commissario europeo per il lavoro e i diritti sociali, si è detto convinto che «il vantaggio dei tirocini non sia solo per i tirocinanti. Non riguarda solo i giovani, ma anche le aziende». Per questo motivo «devono essere pagati: per riconoscere il contributo dei giovani». Schmit ha assicurato che la Commissione sta preparando «un’iniziativa per aggiornare il quadro di qualità dell’Unione europea per i tirocini, da presentare prima della fine della legislatura di questo Parlamento».  L’aspetto più importante – la vera notizia – è che Schmit ha precisato che l’iniziativa a cui sta pensando la Commissione è una direttiva, a cui sarà associata anche una raccomandazione. (La direttiva è un atto giuridico che stabilisce un obiettivo che i Paesi membri devono raggiungere, lasciando comunque piena libertà su come farlo; la raccomandazione invece non è vincolante: in pratica è un modo per le istituzioni europee di rendere note le loro posizioni e suggerire linee di azione, senza imporre obblighi).  Schmit ha precisato che la Commissione è vincolata a comportarsi in questo modo anche se a suo avviso non è il metodo ideale, e ha rimarcato che è «giunto il momento di agire». Perché è «una questione di dignità, di giustizia sociale, di parità di accesso. Stiamo finalizzando la proposta legislativa: arriverà. E ringrazio il Parlamento per l’insistenza e l’impegno su questo tema importante per i giovani» ha detto. Tra gli interventi durante il dibattito non è mancato quello di Brando Benifei, capogruppo del Partito democratico all’Europarlamento e da sempre attivo nelle battaglie per i diritti dei giovani. Benifei ha ricordato che in Europa sono circa quattro milioni all’anno i giovani che svolgono un tirocinio come primo passo per entrare nel mondo del lavoro (si tratta, come già spiegato da Eva Lindström della Corte dei conti europea, del numero stimato degli extracurriculari: contando anche i curricolari si arriva addirittura a 13 milioni all’anno).«Ora siamo a un passo da un traguardo storico», ha sottolineato Benifei nel suo intervento, «la pubblicazione da parte della Commissione di una direttiva sulla qualità dei tirocini, che deve stabilire alcuni concetti chiave: basta allo sfruttamento del lavoro giovanile, basta a stage e tirocini non pagati, basta a condizioni lavorative umilianti e non trasparenti, basta alla sostituzione di regolari posti di lavoro con tirocini, una pratica vergognosa per abbattere costi, obblighi e diritti, riducendo l’uso dell’apprendistato». Anche Monica Semedo, europarlamentare democratica del Lussemburgo che aveva presentato la risoluzione poi approvata lo scorso giugno, ha ripercorso le richieste: «una remunerazione equa per evitare abusi, una durata limitata a sei mesi, tirocini inclusivi e accessibili a tutti e più stage trasnazionali». Ma soprattutto ha invitato a fare presto per i giovani europei, e ad approvare tutto entro il termine del mandato del Parlamento, ovvero entro tre mesi.L'estremo ritardo è stato sottolineato, dalle fila del gruppo della sinistra unitaria europea, dall'eurodeputata francese Leila Chaibi, che nel 2005 faceva parte del collettivo Generation Précaire. Il collettivo aveva all'epoca lanciato un appello per lo sciopero dei tirocinanti. Sono passati vent’anni e i bambini di allora sono gli stagisti, sottopagati, di oggi: «Niente è cambiato», ha detto Chaibi. Per ora, quantomeno.L’aspetto più volte ricordato è che il 2023 è stato l’Anno europeo della gioventù; ma nonostante i festeggiamenti, l’Unione europea ha dimenticato di fare la cosa più importante: dare delle regole precise per i tirocini, limitarne l’abuso, aiutare i giovani a entrare dignitosamente nel mondo del lavoro. E sopratutto stabilire una volta per tutte cos’è un tirocinio. Come sottolineato nel report della Corte dei Conti europea “Azioni dell’Ue a sostegno dei tirocini destinati ai giovani”, presentato a inizio febbraio, nonostante i numeri dei tirocinanti aumentino, ancora non esiste una definizione chiara di cosa sia uno stage, con sedici Paesi membri su ventisette che non hanno una definizione giuridica del tirocinio. Perciò servono norme uniformi e coerenti in tutto il panorama europeo e indicazioni chiare dal Consiglio.  Tra gli interventi durante l'evento al Parlamento europeo anche quello di Gianantonio Da Re, leghista del gruppo Identità e Democrazia, che a inizio febbraio ha presentato alla Commissione un’interrogazione con richiesta di risposta scritta relativa ai dati pubblicati dalla Corte dei Conti europea, in cui chiede quali misure intenda adottare per migliorare il settore dei tirocini, sia curricolari che extracurricolari, e favorire l’occupazione dei giovani europei.  Uno degli aspetti evidenziati da quasi tutti i parlamentari è anche l’imminente voto di giugno – che potrebbe segnare un forte astensionismo da parte dei giovani, delusi dalle promesse non mantenute di questo esecutivo. In chiusura di dibattito il commissario Schmit ha ribadito che si tratta di «una questione di giustizia sociale, perché coloro che non hanno genitori che possono sostenere le spese non possono partecipare a un tirocinio e la loro situazione sul mercato del lavoro non ne trarrà alcun miglioramento». E dopo aver rassicurato che la proposta legislativa arriverà in tempo ha anche pungolato gli Stati membri, invitandoli a fare a loro volta attenzione e garantire che anche il lavoro dei giovani meriti una retribuzione. Alla seduta del Parlamento hanno fatto seguito le dichiarazioni del gruppo dei Socialisti e Democratici, che per primi avevano caldeggiato una legge europea per garantire una indennità equa e pieni diritti per tutti i tirocinanti. Alicia Homs, relatrice della proposta, ha ribadito che sono necessari contratti scritti, limitati nel tempo e accesso alla previdenza sociale e alla rappresentanza sindacale per i tirocinanti, perché «i giovani europei non sono manodopera a basso costo o gratuita e non dovrebbero essere intrappolati in tirocini interminabili prima di iniziare la loro carriera e vita indipendente». Agnes Jongerius, portavoce del gruppo, le ha fatto eco ricordando che «i giovani sono uno dei gruppi più vulnerabili del mercato del lavoro. Dobbiamo fare in modo che l’occupazione di qualità inizi con le loro opportunità di tirocinio».  L’ultima parola spetta alla Commissione europea, che ha ora, un po’ in zona Cesarini, la grande opportunità di lasciare un segno del suo mandato andando incontro ai giovani. La userà bene?Marianna Lepore

600mila studenti fuorisede potranno votare alle Europee: ma per altri 4 milioni di cittadini il diritto non è ancora garantito

Ci sono voluti sedici anni di attesa, ma alla fine il primo traguardo è stato raggiunto: la settimana scorsa la Commissione affari costituzionali in Senato ha approvato all’unanimità un emendamento al decreto elezioni presentato da Fratelli d’Italia per consentire alle prossime elezioni europee di giugno il voto fuori sede per chi è temporaneamente domiciliato per motivi di studio lontano dalla propria residenza abituale. «Siamo molto contenti che la politica abbia finalmente dato una risposta concreta, ma non siamo del tutto soddisfatti perché è un risultato parziale, rivolto solo agli studenti fuorisede e non a tutta la platea di cittadini coinvolti dal problema» commenta a caldo Stefano La Barbera, fondatore del comitato Io voto fuori sede alla Repubblica degli Stagisti. Il comitato è nato nel 2008 per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema del diritto di voto per i cittadini in mobilità e da allora si è battuto per far approvare una legge che garantisca questo diritto a coloro che vivono lontano dalla loro residenza. «Circa 4,9 milioni di cittadini», precisa La Barbera: più del dieci per cento del corpo elettorale. Così oggi da una parte si festeggia, ma allo stesso tempo si continua a chiedere alla politica «di dare una risposta a tutti i cittadini in mobilità, non solo ad alcune categorie. E quindi di fare un dispositivo che permetta a prescindere dalla condizione del singolo che si trova in mobilità, di poter votare senza dover giustificare la propria posizione». Che sia malato, studente, lavoratore, viaggiatore, non deve essere importante, l’unica cosa che andrebbe presa in considerazione è il fatto che si trovi lontano dalla propria residenza. L’articolo 1 del testo approvato prevede che «In occasione delle elezioni dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia per l’anno 2024, gli elettori fuori sede che per motivi di studio sono temporaneamente domiciliati, per un periodo di almeno tre mesi» in cui ricade la data del voto, «in un comune italiano situato in una regione diversa» da quella in cui si è iscritti nelle liste elettorali, «possono esercitare il diritto di voto» con le modalità in seguito illustrate. Viene da chiedersi perché sia stata data questa possibilità per le europee e non anche per le amministrative, accorpate peraltro in un unico election day. La Barbera guarda il bicchiere mezzo pieno e lo considera un primo passo per «venire incontro alle sollecitazioni che abbiamo fatto come comitati e società civile», possibile anche perché meno complicato nella gestione rispetto alle regionali. «Le elezioni europee hanno circoscrizioni molto più ampie, solo cinque: Nord est, Nord ovest, Sud, Centro e Isole. Quindi sono solo cinque schede elettorali che dovrebbero eventualmente essere stampate nelle varie circoscrizioni e questo semplifica di molto le disposizioni elettorali. Sarà la prima volta che si sperimenterà questo sistema e il ministero dell’interno vuole valutare l’impatto che questa tipologia di voto avrà sull’andamento del processo elettorale prima di allargarlo alle altre elezioni. Questo è il motivo tecnico per cui la maggioranza è riuscita ad approvare il voto fuori sede solo per le europee». La Barbera ripercorre proprio le ultime settimane, quando durante il festival di Sanremo l’attenzione al tema è cresciuta grazie alla mobilitazione con le matite che molti cantanti hanno portato sul palco. «Così è arrivata la nostra richiesta a maggioranza e governo di studiare una soluzione». Una legge delega nei confronti del Governo, già approvata alla Camera, è in questo momento in votazione alla Commissione affari costituzionali del Senato; poi dovrà passare in assemblea. «Vogliamo che sia approvata al più presto perché l’emendamento di cui oggi parliamo vale solo per le europee di giugno» ed è dunque un provvedimento «a termine. Mentre la legge delega introduce il voto a distanza definitivamente nel nostro ordinamento, anche se limitatamente a europee e referendum, con possibile allargamento alle politiche». Legge delega che consentirebbe, quindi, a tutti i fuorisede, non solo agli studenti, di esercitare il proprio voto dove si risiede temporalmente. «La nostra richiesta» continua La Barbera, «è fare in fretta ed evitare che alle prossime elezioni accada di nuovo che milioni di cittadini non riescano a votare. In questo caso sarebbe tutto più complesso perché le tessere elettorali sono diverse per ogni singola realtà amministrativa, quindi il dispositivo va studiato con maggiore accuratezza e sicuramente il ministero dell’interno da questa sperimentazione trarrà le sue considerazioni». Al momento, quindi, la legge delega è ferma al Senato e se approvata non entrerà in vigore a breve perché «prevede un massimo di diciotto mesi dalla sua approvazione per produrre il dispositivo: questo significa che ci vorrà ancora molto tempo». La buona notizia, però, è che finalmente qualcosa si muove e con l’unanimità dei partiti sul tema. «Dopo tanti anni abbiamo diffuso nella classe politica la consapevolezza che questa fosse una tematica non più rimandabile. E poi una pietra miliare l’ha messa il Libro bianco sull’astensionismo, che è un documento governativo del 2022 da cui sono uscite le cifre: 4,9 milioni di elettori» che esercitano l’astensionismo involontario. Ovvero coloro che svolgono la propria attività lavorativa o frequentano corsi di studio scolastici o universitari in luoghi diversi dalla Provincia o Città metropolitana di residenza. La Repubblica degli Stagisti aveva raccontato due anni fa i contenuti del Libro bianco, e le sue tre soluzioni per ridimensionare le cifre dell’astensionismo: digitalizzazione della tessera e delle liste elettorali, election day e voto anticipato presidiato. Con questi numeri, «la politica non ha più potuto guardare dall’altra parte», osserva La Barbera. E poi c’è il supporto ricevuto negli anni anche da altre realtà. «Noi siamo il primo comitato nato nel lontano 2008, dopo si sono aggiunte altre associazioni: la prima è stata The Good Lobby, con cui poi abbiamo costituito la rete Voto sano da lontano formata da una dozzina di associazioni. Poi nell’ultimo anno si è unito anche Will, dando un enorme supporto dal punto di vista mediatico, grazie alla loro capacità di focalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica in maniera costante». Ora che la Commissione ha approvato l’emendamento, il testo è stato inserito nel decreto elezioni che deve essere approvato al Senato, dove arriverà nella settimana tra il 12 e il 14 marzo, e poi passare alla Camera per la definitiva approvazione entro il 29 marzo. Dal 20 aprile, poi, comincerà il processo elettorale, quindi il Presidente della Repubblica dovrà indire i comizi elettorali. «Diamo per scontato che il testo arrivi ad approvazione, non ci aspettiamo cambiamenti, non ci sarebbe altrimenti il tempo per la staffetta Camera – Senato. Per questo motivo festeggiamo il traguardo perché ora non dovrebbero più esserci sorprese». Il rischio, però, «è che la politica si rilassi. Che dica: il nostro l’abbiamo fatto, e decida di riprendere l’esame della delega dopo le Europee. Non vogliamo che accada: la nostra campagna è per una legge per il diritto di voto per tutti e siamo a un passo dall’averlo. Non vogliamo distrarre l’opinione pubblica con questa soluzione ponte appena approvata». La buona notizia è che tutti gli studenti fuori sede temporaneamente residenti in un comune diverso da quello di residenza potranno esercitare il proprio diritto di voto alle elezioni europee dell’8 e 9 giugno senza necessariamente macinare chilometri in un weekend per tornare a casa. «È importante comunicare il più possibile questa notizia ed evitare l’effetto boomerang che alla fine siano in pochi a votare fuori sede», mette in guardia La Barbera. Una comunicazione necessaria anche perché non basta recarsi in un altro seggio la mattina stessa delle elezioni. Bisogna presentare apposita domanda, anche in forma telematica, al comune nelle cui liste elettorali si è iscritti. E bisogna farlo almeno 35 giorni prima della data della consultazione con la possibilità di revoca entro il 25esimo giorno antecedente. Questo significa che il 4 maggio è la data ultima per fare domanda; nel caso si cambiasse idea, la revoca va fatta non oltre il 14 maggio. Poi cinque giorni prima del voto sarà il comune di temporaneo domicilio a rilasciare, anche attraverso strumenti telematici, un’attestazione di ammissione al voto con l’indicazione del numero e dell’indirizzo della sezione presso cui votare. In pratica tra la data probabile di approvazione del provvedimento, il 29 marzo, e il giorno ultimo per aderire, ci saranno poco più di trenta giorni per informare chi è interessato. «Perciò è importantissimo diffondere la notizia per evitare che vadano pochi studenti fuori sede a votare e si dia motivo alla politica di dire la legge non è necessaria», conclude La Barbera. I giovani che potrebbero approfittare del provvedimento saranno circa 600mila fuorisede, che dovranno comportarsi, però, in maniera diversa in base a dove si trova il domicilio. Chi studia in una Regione che è nella stessa circoscrizione elettorale del proprio Comune di residenza, voterà nel Comune in cui è fuorisede. Ad esempio il giovane che è di Potenza ma studia a Salerno, potrà votare a Salerno, nel seggio che gli sarà indicato dopo l’accettazione della richiesta. Se, invece, il giovane è di Potenza ma studia a Pavia, dovrà spostarsi nel capoluogo della Regione in cui è fuorisede, (con uno sconto sui trasporti) quindi in questo caso andare a Milano. Questo perché i candidati sono diversi tra le cinque circoscrizioni (Nord est, Nord Ovest, Centro, Sud, Isole) e quindi il capoluogo fungerà da punto di raccolta per i fuorisede.   Il costo per coprire la nuova organizzazione sarà di 615mila euro attraverso risorse del fondo per le spese delle elezioni politiche, amministrative, europee e dell’attuazione dei referendum. L’iter potrebbe in futuro cambiare a seconda delle decisioni inserite nella legge delega ancora in discussione. Nel frattempo, grazie all’emendamento approvato si riuscirà almeno in parte a bloccare la contraddizione esistente dal 2015, quando con l’entrata in vigore dell’Italicum, è stata introdotta la possibilità di votare per gli italiani che si trovano momentaneamente all’estero per motivi di studio, lavoro o per curarsi, ma non per chi da un posto in Italia si sposta temporaneamente in un altro posto in Italia, senza cambiare residenza. Per chi è fuori dal territorio nazionale, ad esempio il giovane di Potenza che studia a Parigi o a Barcellona, è quindi già possibile da quasi dieci anni votare dall’estero anche senza essere iscritti all’Aire (l’anagrafe degli italiani residenti all’estero). È necessario, però, presentare domanda entro l’ottantesimo giorno antecedente l’ultimo giorno delle votazioni, quindi in questo caso il 21 marzo, alla rappresentanza diplomatico-consolare competente in base al temporaneo domicilio. Il voto si esercita presso i seggi istituiti dagli uffici consolari: precedentemente sarà il Ministero dell’Interno a inviare il certificato elettorale con l’indicazione del seggio presso cui votare, data e orario di apertura delle votazioni. Ora bisognerà vedere cosa succederà in aula. Il senatore Andrea Giorgis, Pd, ha già annunciato che richiederà l’estensione di questo diritto di voto a tutti, non solo gli studenti; dello stesso parere anche Mariastella Gelmini di Azione, che ha parlato di un errore l’esclusione dei lavoratori. Il tempo certamente stringe, ma per ora gli studenti universitari possono festeggiare. Marianna LeporeFoto in basso a destra: di Diliff da Wikipedia in modalità Creative Commons

Tirocini gratuiti, l’Unesco predica bene e razzola male

Sei mesi a Parigi, nella sede centrale dell'Unesco, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura. Sei mesi di tirocinio in una delle città con il costo della vita più alto in Europa: ma senza un rimborso spese mensile, senza ticket per il pranzo o accesso gratuito a qualche mensa, senza tessera per i mezzi pubblici, senza rimborso anche parziale delle spese di viaggio o di alloggio.  L’esperienza di mettere piede per qualche mese, anche se solo da stagista, in un’organizzazione del genere fa gola a molti – ma ancora una volta potranno permettersi questa opportunità solo quanti hanno alle spalle una famiglia che si sobbarcherà tutte le spese di permanenza per sei mesi a Parigi.E pensare che quando l’Unesco è nata, nel 1945, si era posta come obiettivo quello di contribuire alla costruzione della pace internazionale, di sviluppare il dialogo interculturale e combattere la povertà. Eppure oggi ritiene normale offrire dei tirocini senza prevedere un euro. Nella descrizione dell’offerta di stage l’Organizzazione è molto chiara nel dettagliare l’opportunità, i requisiti richiesti, le competenze, gli obiettivi di apprendimento e anche i benefici e diritti per gli stagisti: «L’Unesco non paga i tirocinanti. Non è previsto alcun compenso, finanziario o di altro tipo, per gli incarichi di tirocinio. Gli stagisti hanno diritto a 2,5 giorni di ferie al mese durante il loro stage».Nero su bianco, senza problemi. L'Unesco lo ricorda fin dal documento per far domanda: non vi diamo nulla. Quindi l’Organizzazione delle Nazioni Unite che vorrebbe «garantire che ogni bambino, giovane e adulto abbia accesso a un’istruzione di qualità per tutta la vita», ha però deciso di offrire un programma di stage solo per alcuni: quelli che possono permetterselo.Le sedi di servizio dei tirocini saranno il quartier generale di Parigi e poi una delle altre 50 sedi sul campo distribuite in tutto il mondo o uno dei nove istituti o centri di prima categoria. Sempre senza alcuna indennità.Non è certo una novità che l’Unesco non paghi: non l’ha mai fatto. Sorprende, però, che dopo quasi dieci anni di proteste e movimenti nati per denunciare lo sfruttamento degli stagisti nella galassia delle Nazioni Unite, non sia cambiato nulla. Già dal lontano 2015 a Ginevra è attiva, infatti, la campagna Fair Internship Initiative per portare alla ribalta la pratica discriminatoria dei tirocini senza rimborso spese all’interno dei palazzi dell’Onu. Gran parte degli stagisti infatti provengono solo da alcuni Paesi e tutti sono costretti a sacrifici enormi per vedere realizzato il sogno di fare uno stage prestigioso. Dopo tanti anni di manifestazioni e proteste qualche risultato è stato portato a casa. Se nove anni fa a pagare erano solo Ilo, Fao, Iom e Oms, oggi l’elenco è un po’ più lungo (e si può consultare su un database che i gestori della Fair Internship Initiative aggiornano periodicamente), ma ancora gli uffici più importanti come il Segretariato Onu, con tutti i dipartimenti collegati, o l’Unesco appunto, non prevedono indennità per i tirocinanti. Per il Segretariato qualcosa potrebbe cambiare, almeno sulla carta, tra un paio d’anni, sempre che venga dato seguito a una riforma approvata nel marzo 2023. Sei anni fa, nel 2018, l’ispettorato delle Nazioni Unite (Join inspection unit) aveva, infatti, definito l’abitudine di non pagare gli stagisti in contrasto con i valori chiave e il mandato dell’Onu. A questo aveva fatto seguito una raccomandazione per il Segretariato generale a intraprendere una riforma del programma di tirocini che includesse una borsa di studio. Con tempi a dir poco biblici la riforma è stata, appunto, approvata lo scorso anno, rimandando però la discussione alla riunione di marzo 2025 (marzo duemilaventicinque!) quando il Segretariato dovrebbe ripresentarsi con una proposta. Per ora quindi tutto tace e il silenzio non fa ben sperare. Ma se anche durante la Fifth Commission del prossimo anno dovessero esserci novità positive, questo non andrebbe a intaccare quello che succede con gli stage all’Unesco. L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura, infatti, rientra tra le agenzie specializzate dell’Onu e in quanto tale ha un proprio budget e una propria assemblea composta dai rappresentanti degli Stati membri. Questo significa che è anche dotata di autonomia decisionale e che le scelte fatte in sede di Segretariato non devono necessariamente ripercuotersi su di essa. In teoria dovrebbe essere più semplice cambiare le cose all’interno di un’agenzia specializzata, ma ad oggi non c’è stata la volontà politica di fare un passo avanti verso i diritti degli stagisti. Che, infatti, mettono tutti quanti in luce la criticità dell’assenza di un rimborso spese su una piattaforma come Glassdoor, il sito internet su cui impiegati o ex impiegati recensiscono anonimamente aziende e superiori. L’Unesco, quindi, ha un proprio bilancio di spesa biennale: l’ultimo è stato approvato a giugno 2022 per un totale di 1,5 miliardi di dollari, saliti a 1,8 nel bilancio approvato per il 2023/2024. Ed è proprio l’Unesco a sottolineare nel proprio sito che «l’ultimo anno di crisi ha evidenziato, più che mai, l’importanza cruciale di un’istruzione di qualità» e anche «della promozione dell’inclusione e della lotta alla discriminazione». Non solo, a causa della crisi pandemica, «quasi 1,6 miliardi di studenti sono stati colpiti dalla chiusura di scuole e università, causando la più grave interruzione dell’istruzione nella storia». Eppure l’Organizzazione per l’educazione, la scienza e la cultura, non reputa necessario inserire in bilancio un capitolo di spesa per pagare i propri tirocinanti e questo nonostante abbia, a novembre 2023, approvato un aumento storico del proprio bilancio del 25 per cento per rafforzare «la propria azione a favore dell’istruzione, della scienza, della cultura e dell’informazione in tutto il mondo». Nessun richiamo ai tirocinanti occupati oggi gratuitamente nei propri uffici per i quali non è previsto alcun minimo rimborso spese. Il classico caso di chi predica bene e razzola male.(Se nonostante gli aspetti negativi si volesse ugualmente far domanda, è necessario candidarsi entro il 30 giugno e si può farlo direttamente dal sito web dell’Unesco nella pagina dedicata alle offerte di tirocinio. Bisogna essere iscritti a un corso di laurea e avere almeno vent'anni. Quattordici i settori in cui è possibile farlo, a Parigi o in altre sedi). L’auspicio è che in Unesco si apra il dibattito sulla necessità di pagare i tirocinanti, ma all’orizzonte non ci sono segnali di questo tipo. E purtroppo non stupisce visto che proprio il segretario generale dell’Onu, Antonio Guteress, già nel 2017 decise di rispondere a una domanda di uno stagista che chiedeva se a suo avviso fosse giusto non pagare i tirocinanti che «anche se non hanno un rimborso spese, ogni anno ci sono tante domande per questi tirocini perché sono un’esperienza straordinaria», aggiungendo che avrebbe preferito un sistema misto, quindi tirocini sempre senza rimborso spese ma «per chi non ha risorse per affrontarlo, delle speciali borse di studio». Ma quello che servono non sono trattamenti speciali: bisogna semplicemente costruire un programma di tirocini equo, mettendo a budget le risorse per offrire una dignitosa indennità a tutti gli stagisti. Da parte di una Organizzazione delle Nazioni Unite votata all’educazione, la scienza e la cultura sarebbe, francamente, il minimo.Marianna LeporeFoto: logo Unesco da Wikimedia in modalità creative commonsFoto in alto a destra: da Flickr in modalità creative commons

Portare lavoro al Sud, grazie al cambio di paradigma digitale Bip apre due nuove sedi in Puglia

Creare lavoro al sud Italia. Una missione urgente, se si pensa che dalle Regioni del Mezzogiorno tra il 2002 e il 2021 c'è stato un “deflusso netto” di 808mila under 35, di cui 263mila laureati: oltre l'80% di loro, stando al Rapporto Svimez, si è spostato al centro-nord. In quello stesso periodo la quota di emigrati meridionali con elevate competenze si è quasi quadruplicata: oggi sono quasi uno su tre quelli che partono con una laurea in tasca.Perché si lascia la propria terra? A volte per curiosità, voglia di scoprire il resto del mondo. A volte, invece, perché si sente di non avere altra scelta. E molto spesso, in questo caso, la ragione è semplice: la mancanza di lavoro, o di un lavoro adeguato alle proprie competenze e ambizioni. Se nel posto in cui si vive non c'è un mercato del lavoro sufficientemente mobile, stimolante, si va a cercare opportunità altrove. Capita che la scelta avvenga addirittura prima: tra il 2000 e il 2022 le università del Mezzogiorno hanno registrato una diminuzione degli immatricolati del 4%, mentre quelle del centro-nord un incremento del 30%. Gli studenti meridionali che "salgono" fin dalla triennale per studiare, racconta lo Svimez, sono sempre di più – così come quelli che, completata la triennale nella loro Regione d'origine, scelgono il centro-nord per la magistrale o un master. Così il sud d'Italia si spopola – la popolazione tra il 2011 e il 2023 si è ridotta di oltre un milione di persone, a fronte di una sostanziale stabilità nel centro-nord – e ad andarsene sono sopratutto quelle energie giovani che invece avrebbero tanto da dare ai territori.E quindi, bisogna creare lavoro al sud. Creare imprese locali, certo. Ma anche, da parte di aziende nate al centro-nord, aprire sedi nel Mezzogiorno. È uno dei progetti di Bip, la più grande società di consulenza a matrice italiana, da molti anni parte del network di aziende virtuose della Repubblica degli Stagisti. Dopo aver aperto uffici a Palermo, Catania e Messina, Bip sbarca ora in Puglia con una doppietta: una sede “flagship” a Bari e una sede “di progetto”, in joint-venture con un'azienda cliente, a Lecce.«Ci stiamo muovendo nei territori dove c'è un incrocio tra buone università, e quindi disponibilità di talenti, e la possibilità di servire i clienti al meglio, con infrastrutture adeguate» spiega Alberto Idone, entrato in Bip nel 2004, quando era un ventiseienne fresco di laurea in microelettronica appena tornato da un biennio negli Usa, e cresciuto all'interno dell'azienda fino ad essere oggi, a 45 anni, partner con la responsabilità di group managing partner Italy. Le università, in particolare, sono un nodo centrale dell'iniziativa: Bip è interessata soprattutto a candidati con background STEM (science, technology, engineering and mathematics)  e «il livello di gestione e di qualità degli atenei del Sud è adesso molto alto» assicura Idone. Un circolo virtuoso, perché la partnership di una grande azienda (oggi Bip è presente in tredici Paesi nel mondo e impiega oltre 5mila persone a livello globale) con le università porta anche gli studenti ad avere più fiducia in un possibile sbocco lavorativo dopo la laurea: «Uno dei temi annosi del Sud è che molti giovani non vanno all'università perché dopo non c'è un futuro, e allora pensano che sia meglio iniziare a lavorare». Da questo cul-de-sac si esce solo creando effettivamente opportunità di lavoro di qualità nei territori. Peraltro, Bip seleziona per le sue sedi al sud anche profili umanistici, per ruoli di organizzazione e di risorse umane.All'inaugurazione della sede di Bari, a fine gennaio, era presente il sindaco Antonio De Caro; il presidente della Regione Michele Emiliano è passato il giorno dopo, durante il “Talent Discovery Day” organizzato per far conoscere Bip alla città e raccogliere le prime candidature spontanee. Il progetto prevede di portare 250 posti di lavoro in Puglia da qui alla fine del 2025: al momento in organico ci sono già una trentina di persone, e le risorse umane sono al lavoro per vagliare i cv arrivati – già oltre duecento. E il famigerato digital divide? «Il 60% dei residenti del Mezzogiorno ha difficoltà di accesso a Internet, è vero; ma il gap in questi anni è stato colmato parecchio, soprattutto nei grandi centri cittadini. La situazione cambia ovviamente nei paesi dell'entroterra, ma nel caso di Bari, Lecce, Palermo non abbiamo alcun problema» assicura Idone: «La riduzione del digital divide è un fattore abilitante. Dieci anni fa, o anche solo cinque, sarebbe stato impossibile, perché per il nostro lavoro abbiamo bisogno della banda larga» non solo banalmente per le riunioni Teams ma anche «per alcune attività in cui ci sono grandi file da trasferire: la banda larga è precondizione». E nei grandi capoluoghi del Mezzogiorno funziona bene come a Milano.Le sedi al sud possono anche essere preziose per le persone che vogliono “tornare”. A chi proviene dalla Puglia, o dalla Sicilia, e un lavoro ce l'ha già – in Bip, o altrove – al centro-nord, si apre d'un tratto la possibilità di ritornare nella propria Regione senza dover abdicare, come spesso accade, alle proprie ambizioni professionali. Per molti questa possibilità ha un valore incommensurabile. «Prima che professionisti siamo tutti persone» dice Idone con semplicità: «Se la persona è più a suo agio, non c'è dubbio che poi il professionista riesca anche meglio nel suo lavoro». Bip ha già gestito finora una trentina di richieste di questo tipo da parte di suoi dipendenti desiderosi di rientrare in terra natìa, con dei periodi di «transizione». Peraltro, queste nuove sedi sono anche pensate per ridurre uno degli aspetti meno positivi del lavoro nel settore della consulenza: e cioè l'alto turn-over. «Nei mercati molto maturi, come Milano e Roma, il tasso di turn-over è naturalmente alto, soprattutto nei giovani alle prime esperienze di lavoro», a cui può capitare, «dopo aver studiato materie di ampio respiro», di sentirsi stretti quando vengono messi a lavorare su progetti «molto focalizzati, verticali». La possibilità di “testare” più ambienti di lavoro è naturalmente legittima, ma le aziende virtuose ci tengono a costruire con i dipendenti collaborazioni durature. «Noi impostiamo le relazioni sempre a lungo termine, non ci interessa avere interinali per coprire degli spike» conferma Alberto Idone. Nelle sedi del sud il turn-over è molto meno marcato, probabilmente perché «le persone sono  più a loro agio; sono in una comfort zone perché vivono dove hanno costruito il loro bagaglio di affetti, di relazioni; e così sono più focalizzate, concentrate. Questo va migliorare tutte le dinamiche del lavoro: per noi sembra essere una scommessa vincente».Per queste sedi del sud, che non possono contare su un grande "indotto" di mercato territoriale, Bip ha ideato una strategia particolare: «Le abbiamo specializzate con dei temi principali. A Palermo, la cyber security. A Bari vogliamo lanciare un centro di eccellenza digitale sull'AI, l'intelligenza artificiale» spiega Idone. Un progetto di ampissimo respiro, perché «l'intelligenza artificiale è un settore dove in questo momento c'è molta ricerca e sviluppo, molte tecnologie sono in fase di sperimentazione; non ci sono ancora molti casi di applicazione pratica, ma stanno emergendo». Secondo il manager «la curva di domanda esploderà dal secondo semestre di quest'anno in avanti». E Bip sarà pronta. Con i suoi trecento professionisti già attivi nel campo dell'AI sparsi in Italia, e con quelli che andranno a costituire il nuovo gruppo di lavoro pugliese.«I clienti più importanti, i "consumatori della consulenza", sono le grandi aziende; e al sud ce ne sono ancora poche rispetto a quante ce ne sono al nord» spiega Alberto Idone: «Con un network solo locale il progetto Sud non sarebbe potuto decollare. È proprio il cambio di paradigma che sostanzialmente svincola la presenza fisica dal luogo del cliente che ci permette di attuarlo».Il cambio di paradigma vuol dire che oggi una persona può lavorare per uno dei clienti più importanti a livello mondiale non dalla sede di Milano, di Roma o di New York, ma da quella di Palermo. E questo grazie alla tecnologia. « È uno dei pochi lati positivi di quella sciagura che è stato il Covid» riflette Idone. E non solo dal punto di vista informatico – «le tecnologie non sono che degli strumenti, alla fine» – ma anche per «le nuove modalità sociali: oggi è più facile impostare le relazioni a distanza, c'è più abitudine». Il che permette a un cliente di accettare che il suo consulente non sia insieme a lui in ufficio, ma altrove. Magari in un'altra città. Magari in Puglia. Magari nell'ufficio di Bari Vecchia con vista sul porto di Bari e sul mar Adriatico: «Una volta sarebbe stato impossibile. È un cambiamento culturale». 

Diritti degli stagisti diversi da Paese a Paese, il compenso è nodo della discordia: l’analisi europea

Sono passati dieci anni – correva l’anno 2014 – dalla pubblicazione della raccomandazione del Consiglio dell’Unione europea per tirocini di qualità negli Stati membri. Un ulteriore elemento per approfondire il tema arriva ora da un report della Corte dei Conti europea presentato pochi giorni fa: “Azioni dell’Ue a sostegno dei tirocini destinati ai giovani”.Il documento, in realtà, non introduce nuovi elementi e non anticipa le azioni prossime venture del Consiglio: è semplicemente un’analisi basata in parte su informazioni di dominio pubblico e in parte su materiale raccolto appositamente o durante precedenti lavori di audit. In pratica una fotografia dello stato dell’arte.L’obiettivo principale è quello di «fornire ai portatori d’interesse e al grande pubblico una fonte di informazioni obiettiva e utile in vista dell’aggiornamento del quadro strategico dell’Ue relativo ai tirocini, al momento in corso», riassume Eva Lindström della Corte dei Conti Europea, responsabile dell’analisi. C’è un messaggio principale che arriva dalla relazione: «Ormai da dieci anni abbiamo una norma priva di efficacia vincolante e possiamo vedere che la maggior parte degli Stati membri non l’ha attuata pienamente», si rammarica Lindström. Il momento è «tempestivo», in quanto il dibattito pubblico sui tirocini “equi” è più che mai attuale: anche per questo Lindström si augura che la relazione venga «presa in considerazione dagli stakeholder».A parte la constatazione che se già gli stati in questi dieci anni avessero attuato la raccomandazione del 2014 pienamente la situazione sarebbe migliore, i punti chiave del documento sono tre: una definizione di tirocinio – che al momento differisce tra i vari Stati membri – e poi una maggiore disponibilità di dati attendibili e un accesso più equo alle opportunità, che non lasci fuori i giovani che arrivano da contesti sociali differenti. «I tirocini sono diventati molto importanti per accedere al mercato del lavoro. Se funzionano bene creano una situazione vantaggiosa per i tirocinanti e per i datori di lavoro. Certo c’è il rischio che alcuni sfruttino gli stagisti per sostituirli ai dipendenti e ci sono forti preoccupazioni anche sulla qualità degli stage offerti» spiega Lindström alla Repubblica degli Stagisti.La Corte dei Conti europea ha utilizzato due fonti principali, i sondaggi Eurobarometro del 2013 e del 2023, confrontandoli, e ha condotto una propria indagine presso le autorità di gestione all’interno dei singoli Stati membri. «I dati sui tirocini non si riflettono bene nelle statistiche ufficiali e oggi non esiste una loro raccolta sistematica. Per esempio, non ci sono informazioni precise sugli importi o sul numero esatto di formatori che beneficiano dei fondi europei» premette Lindström.Sulla base dei dati a disposizione, la Corte dei Conti europea stima che ogni anno ci siano circa 3,7 milioni di giovani europei che intraprendono un tirocinio come prima esperienza nel mondo del lavoro, al di fuori del percorso di studi (ovvero quelli che in Italia chiamiamo extracurriculari), a cui si aggiungono i tirocini nel sistema educativo – i curriculari. «Se dovessimo stimare il numero totale di tirocini nell’intera Unione europea, penso che arriveremmo a circa 13 milioni all’anno, compresi anche i formativi». Almeno 700mila avvengono in Italia, «veramente tanti» osserva Lindström. Che allontana però l’idea secondo la quale ridurre il numero degli stage potrebbe aumentarne la qualità: «Non vedo perché: non c’è una quantità definita per cui più tirocini hai, meno qualità ottieni. È una responsabilità dei datori di lavoro, certamente, ma anche del legislatore». Tornando al documento, Lindström si sofferma sul raffronto tra il rapporto Eurobarometro 2023 e quello del 2013: nel più recente si nota come «lo svolgimento di tirocini di qualsiasi tipo è diventato molto più frequente. Quindi aumentano i numeri, ma non esiste una definizione chiara di cosa sia uno stage, con 16 membri su 27 che non hanno una definizione giuridica del tirocinio». La raccomandazione del 2014 (che peraltro non era vincolante, cioè non prevedeva per gli Stati membri l’obbligo di recepirla ed emettere normative corrispondenti ai principi che vi erano espressi – insomma, era sostanzialmente solo parole) non chiariva, poi, se e a quali condizioni i tirocinanti potessero o dovessero essere considerati lavoratori. Una questione invece «importante da affrontare: c’è competenza dell’Unione europea nella politica sociale rispetto alle condizioni di lavoro dei lavoratori, quindi se i tirocinanti fossero considerati tali, sarebbero protetti dalla legislazione europea». In pratica, osserva Lindström, sul tema tirocini c’è confusione, addirittura per alcuni Paesi non è contemplata una definizione giuridica del tirocinante. Le raccomandazioni del Consiglio dell’Ue stabiliscono poi una sorta di requisito minimo per tirocini “di buona qualità”, ma solo una minoranza di Stati membri ha allineato il proprio quadro giuridico alle raccomandazioni. E questo «potrebbe comportare il rischio di sfruttamento dei giovani». E poi c’è una questione chiave, da sempre sostenuta dalla Repubblica degli Stagisti: la sostenibilità economica dello stage. «La questione del compenso è il punto di disaccordo tra le parti interessate quando si parla di tirocini di qualità. Da una parte i sindacati e le organizzazioni giovanili si sono battuti per vietare gli stage gratis» riassume Lindström: «Dall’altra le aziende affermano che il tirocinio è un’esperienza di apprendimento e come tale non è lavoro. Non solo, hanno anche sostenuto che se si dovesse avere l’obbligo di retribuire i tirocinanti, le aziende avrebbero più costi e anche un maggiore onere amministrativo». Svolgere un periodo di stage gratuitamente, però, comporta disparità di opportunità, perché non tutte le famiglie possono sobbarcarsi le spese connesse al mantenimento di un figlio stagista per settimane o addirittura mesi. Il rapporto non ignora questo tema, evidenziando anzi il problema dell’assenza di rimborso spese e il grande disaccordo che c’è sulla tematica, ma non offre indicazioni su cosa fare. Lindström, però, non si sottrae alla domanda se la remunerazione oggi sia un fattore di qualità: «Penso di sì. Ricordiamo però che si tratta sempre di un mercato del lavoro, quindi nessuno è obbligato a fare un tirocinio. Oggi è diventato normale farlo, e questo potrebbe portare alcuni giovani a pensare che sia più o meno necessario avere un certo numero di stage nel curriculum per poter entrare nel mercato del lavoro. Mettendo alcuni di loro in una situazione molto difficile, con la sensazione di essere costretti a fare non solo uno, ma forse due o tre, magari senza rimborso spese, per potere fare poi domanda per un lavoro. Non tutti, però, hanno la disponibilità economica per farli gratuitamente».La responsabile dell’analisi della Corte dei conti europea evidenzia anche che in ben dieci Stati europei non vi è alcun obbligo legale di pagare gli stagisti neppure nel caso dei tirocini nel “mercato libero” (ovvero quelli extracurriculari, non legati all’acquisizione di qualifiche professionali). La raccomandazione del 2014 del Consiglio dell’Unione europea non viene applicata in modo uniforme dai vari Paesi e questo anche perché è una soft law, ovvero una norma priva di efficacia vincolante diretta. «Sono dieci anni che usiamo questa soft law e ancora non è stata implementata da tutti!», sottolinea Lindström, convinta che nella prossima revisione i legislatori dovrebbero partire innanzitutto dalla definizione di tirocinio.In realtà, anche se i politici europei ora dovessero decidere di produrre una nuova raccomandazione, non ci sarebbe comunque di nuovo alcun obbligo per gli Stati membri di applicarla. «La questione su cui si sta concentrando ora il legislatore è se sia sufficiente produrre una nuova soft law o se si dovrebbero compiere ulteriori passi verso una sorta di testo più vincolante». Produrre una nuova raccomandazione, infatti, significherebbe ancora lasciare su base volontaria dei singoli Paesi la scelta di applicarla. Perché l’istruzione, aggiunge un senior auditor della Corte, «è di competenza degli Stati. Il ruolo dell’Unione è quello di sostenere e integrare, non può fare molto altro».Il testo sui tirocini pubblicato pochi giorni fa dalla Corte serve quindi per esaminare le informazioni sul tema di dibattito e fornire un’analisi che dia sufficienti notizie a politici e parti interessate sullo stato attuale della situazione.Per capire l’applicazione della precedente raccomandazione del Consiglio, del 2014, bisogna approfondire i dati della relazione. Nelle legislazioni nazionali c’è, di solito, un buon grado di attuazione dei tirocini collegati alle politiche attive del mercato del lavoro (Paml) e un grado minore per quelli del libero mercato, totalmente vietati in Francia. Gli unici Paesi in cui i principi di qualità del 2014 nei tirocini Paml sono attuati pienamente sono l’Austria e il Belgio. Quelli in cui sono attuati parzialmente sono, invece, Danimarca, Paesi Bassi, Germania, Lettonia, Estonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Croazia, Slovenia, Grecia e Malta. Negli altri i principi di qualità del 2014 sono stati in gran parte applicati. Diversa la situazione per i tirocini nel libero mercato, ovvero secondo l'analisi della Corte quella parte di stage extracurriculari che non sono collegati a politiche attive nel lavoro ma guidati da un accordo tra tirocinante e datore di lavoro, poco comuni in Italia, Slovacchia, Estonia, Finlandia e Svezia; vietati in Francia e Lettonia; attuati parzialmente in Irlanda, Paesi Bassi, Germania, Polonia, Repubblica Ceca, Austria, Ungheria, Croazia e Grecia; e attuati in gran parte solo in Spagna, Belgio, Slovenia, Romania, Bulgaria e Lituania.A rendere difficoltosa la comprensione di questi dati è la modalità di categorizzazione dei tirocini, molto diversa da quella usata in Italia – dove i tirocini extracurricolari sono, appunto, 320mila all'anno, quindi non pochi. In sostanza la Corte dei Conti europea distingue innanzitutto due macrocategorie, stage formativi e  stage “nel mercato del lavoro”, che sono quello che noi chiamiamo curricolari ed extracurricolari. Ma poi ciascuna di queste macrocategorie è a sua volta scomposta in altre due aree. I curricolari vengono suddivisi in un primo segmento, quello dei tirocini “collegati a programmi di istruzione”, e in un secondo segmento di tirocini “professionali obbligatori”. Gli extracurricolari invece possono essere “legati alle politiche attive per il mercato del lavoro” oppure quelli “nel libero mercato”. Questi ultimi sono i meno regolamentati, non legati a qualifiche riconosciute, e in pratica dipendono da un singolo accordo tra il datore di lavoro e il tirocinante, e sono infatti indicati come "poco comuni" in Italia. Adesso sta ai legislatori farsi carico delle decisioni politiche per cambiare il quadro di qualità dei tirocini e introdurre i giusti elementi per vederne l’applicazione omogenea sul territorio. Qualcosa si muove: la scorsa settimana c’è stato un nuovo dibattito in Parlamento europeo con la Commissione europea in cui sono state rimarcate le richieste arrivate lo scorso anno dal Parlamento per norme chiare su durata e compenso dei tirocini oltre all’accesso alla protezione sociale. Tutto tace però sul fronte del nuovo testo del Consiglio, di cui al momento non circola nemmeno una bozza. Marianna LeporeFoto in alto a destra: ECA copyrightFoto di apertura: da Freepik in licenza gratuita

Smartworking dall’estero, una rarità: in EY adesso si può grazie alla “job portability”

Quando si parla di smartworking, viene naturale dare per scontato che si possa lavorare da remoto da qualsiasi posto: casa propria, un bar, il parco, la casa al mare…  ammesso che ci sia una buona connessione internet, beninteso. Non è proprio così. Si può, ma rimanendo nei confini del proprio Paese. Questa poco conosciuta limitazione territoriale diventa ovviamente un ostacolo se una persona ha necessità o voglia di stare all’estero per un periodo, senza per questo sospendere la sua attività lavorativa. E non si tratta solo di una peculiarità tutta italiana dovuta alla rigidità della nostra burocrazia e del nostro diritto del lavoro: in nessun Paese (almeno tra quelli europei) lo smartworking è libero dalla connotazione territoriale. EY, società di consulenza che da molti anni fa parte del network di aziende virtuose della Repubblica degli Stagisti, ha deciso di fare un passo avanti, lanciando un progetto all’avanguardia che ha dato ai suoi dipendenti la possibilità di lavorare – ovviamente con pc e cellulare – dall’estero: nel corso del 2023, già in cento in Italia e duemila in Europa hanno potuto usufruire di questa chance.L’idea è partita a gennaio 2022 con una prova pilota della sede tedesca di EY. Un successo che ha ispirato i manager della sede italiana: «Sulla base dell’esperimento fatto dai colleghi tedeschi» racconta alla Repubblica degli Stagisti Francesca Giraudo, Talent Leader di EY, «l’Italia si è fatta portabandiera di questa iniziativa e ha guidato un progetto che ha visto l’implementazione della policy per poter lavorare dall’estero».Ottenere il risultato non è stato facile, in primis perché «parlare di smart working fuori dall’Italia è un’operazione molto complicata sotto il profilo giuridico, fiscale, assicurativo» osserva Giraudo: «Ci sono una molteplicità di regole di compliance da seguire e in quanto società di revisione avevamo bisogno di essere inappuntabili. Per questo siamo orgogliosissimi di essere riusciti a portare a casa il risultato». Al momento per i dipendenti italiani è possibile lavorare in smart working dall’estero per un massimo di venti giorni lavorativi, che quindi, includendo i fine settimana, arrivano praticamente a un mese. «Non escludiamo un possibile allungamento» anticipa la manager, «ma in questa prima fase abbiamo preferito fermarci a questo punto per verificare sia l’appeal dell’iniziativa sia eventuali azioni di assestamento». Ma tutto finora è filato liscissimo.Perché prevedere una limitazione nel numero di giorni di smart working dall’estero a disposizione? Perché ci sono specifiche normative che regolano la possibilità per le persone di lavorare in uno Stato in cui non sono residenti. Il limite massimo per poter sostare in un paese prima di essere considerati fiscalmente residenti è di 183 giorni. «Il limite è posto a tutela del massimo rispetto delle normative fiscali e previdenziali vigenti nei Paesi interessati, e degli accordi internazionali sottoscritti. Noi abbiamo iniziato a concedere i primi venti giorni di job portability anche per vedere come reagivano i dipendenti, se approfittavano dell’opportunità e come. E nel caso il progetto avesse funzionato, valutare se estenderlo ulteriormente. I più evoluti nel panorama delle sedi EY europee», spiega Giraudo, al momento «sono i tedeschi che hanno ben sessanta giorni all’anno di smart working dall’estero e stanno valutando di estenderlo a cento». Non solo, «anche l’Olanda sta passando dagli attuali venti a quaranta giorni». Circa 2mila persone di EY in tutta Europa hanno già potuto sfruttare questa opportunità. «È stata un’operazione molto innovativa che ha necessitato il coinvolgimento di vari esperti in materia internazionale» sottolinea Giraudo: «Abbiamo buttato il cuore oltre l’ostacolo e consentito a tutti i dipendenti un’esperienza che a nostro avviso dà flessibilità e che si basa sulla fiducia nel rapporto di lavoro».Ma perché per la legge italiana lo smart working da uno stato estero presenta delle difficoltà? «Perché tutta la disciplina in relazione allo smart working è nata con un implicito riferimento al territorio nazionale, in assenza di un vero e proprio coordinamento tra normative internazionali. Consideriamo anche che è il risultato di un nuovo modo di lavorare non espressamente previsto nelle normative di riferimento internazionali, proprio perché rappresentativo di un nuovo fenomeno», spiega Giraudo: «Esiste un principio giuridico per cui hai una sede di lavoro, il tuo ufficio. Lo smart working, o lavoro agile, è la modalità che ha consentito, sin dal 2017 e in presenza di determinati requisiti, di poter svolgere la prestazione lavorativa in parte presso i locali interni e in parte all’esterno senza una postazione fissa. Il tutto nel rispetto delle norme poste a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro nonché della riservatezza dei dati trattati nell’esecuzione dell’attività lavorativa. Esistono quindi diversi punti di attenzione per motivi giuridici e giuslavoristici, assicurativi e fiscali. Il problema è stato proprio quello di affrontare la frammentazione normativa nei vari Paesi e le difficoltà che alcuni avevano nel concedere questa modalità al di fuori dei confini nazionali. Per questo siamo partiti in quasi tutti i Paesi ma, poi prevedendo alcune eccezioni, come la Svizzera: lì i nostri dipendenti non possono lavorare in smart working».Per capire perché sia tanto complicato lavorare dalla propria casa all’estero piuttosto che dal proprio appartamento in una qualsiasi città italiana bisogna risalire alle norme sul lavoro agile, che sono state pensate sulla base del principio di territorialità. «Lo smart working all’estero ovviamente ha una serie di regole che abbiamo dovuto attivare soprattutto per garantire la compliance fiscale e previdenziale tramite un tool che ci consente di verificare a priori e attraverso un processo di approvazione le richieste dei nostri dipendenti che, su loro richiesta e per esigenza personale, manifestano la necessità di poter lavorare dall’estero per un periodo di tempo determinato e definito a priori».Oggi grazie alle policy approvate nei singoli Paesi i dipendenti EY di Italia, Germania, Austria, Belgio, Portogallo, Olanda, Francia, possono lavorare dall’estero in determinati paesi. La situazione è un po’ disomogenea perché non sempre c’è una reciprocità perfetta: in alcuni casi possono venire colleghi stranieri da un dato Paese a fare job portability in Italia, ma gli italiani non possono, ancora, andare in quel dato Paese, e altre volte il contrario.EY ha dovuto compiere un lungo e intricato percorso, «con il supporto di team dedicati confrontandosi anche con le autorità quando necessario», racconta Giraudo. «Non potevamo lasciare lo sviluppo della questione al caso: tutto questo deve valere per 36mila persone in Europa, e andava fatto bene». Dopo la Germania, apripista a gennaio 2022, e l’Austria a fine 2022, la formalizzazione dello smart working dall’estero è arrivata in Italia a febbraio del 2023.Oggi sono ventinove i Paesi in cui EY ha uffici e da cui è possibile questa modalità di lavoro, in pratica tutta l’Unione europea con l’aggiunta della Gran Bretagna. Il management di EY vede questo progetto come un connubio di «flessibilità e responsabilità», intendendo con questo «responsabilizzare le persone. Far capire che non devono essere in ufficio perché si sta in ufficio. Bisogna invece chiedersi: qual è il posto giusto per fare questo lavoro, farlo al meglio e stare bene nel farlo?», osserva Giraudo, sottolineando come EY si impegni da sempre perché le persone che fanno parte dell’organizzazione «possano scegliere il meglio per sé e per i clienti. Per dare ai nostri talenti un ambiente quanto più inclusivo e accogliente possibile e far sentire tutti “al posto giusto e al momento giusto”». Marianna Lepore

Servizio civile, il nuovo bando: 52mila posti, l'indennità mensile aumenta del 15%

Sarà online fino alle ore 14 del 15 febbraio il bando per partecipare alla nuova edizione del programma di Servizio civile universale. È aperto a chiunque tra i 18 e i 28 anni, non abbia precedenti penali e voglia cimentarsi in una iniziativa a beneficio della collettività. Alcuni posti sono riservati a chi è in difficoltà, quindi con bassa scolarizzazione, problemi economici o fragilità personale. A saltare all’occhio c’è subito una novità, e cioè l’aumento dell’indennità riconosciuta ai partecipanti, che dallo scorso maggio è passata da 443,30 euro mensili a 507,30 euro. «Si tratta di un adeguamento Istat legato al costo della vita» sottolinea alla Repubblica degli Stagisti Enrico Maria Borrelli, fresco di nomina come presidente della Consulta nazionale per il Servizio civile universale: «Per chi accede al bando si apre una collaborazione con lo Stato, quindi è nelle cose che ci sia un aumento del rimborso». Accade ad esempio anche alle pensioni corrisposte dall’Inps. Non cresce però l’impegno richiesto. I progetti continuano a avere una durata tra gli otto e i dodici mesi, con turni di 25 ore settimanali. Ma non è detto che si debba rispettare una scaletta settimanale perché per alcuni progetti il calcolo delle ore è su base annuale, «con un monte ore che varia, in maniera commisurata, tra le 1145 ore per i progetti di 12 mesi e le 765 ore per i progetti di otto mesi, articolati su cinque o sei giorni a settimana» specifica il sito.L’altro aspetto nuovo introdotto da quest’anno è il canale preferenziale per i concorsi pubblici. Una riserva per i volontari che terminano il percorso civile «senza demerito» puntualizza il bando, pari a una quota del 15 per cento di posti nei concorsi pubblici per l’assunzione di personale non dirigenziale. Una regola che però non vale per ogni ente della pubblica amministrazione, ma solo quelli indicati nel bando appena uscito. Vi rientrano, per fare qualche esempio, Province, Comuni, Regioni, istituzioni educative e universitarie. «Una bella notizia considerando che negli ultimi tempi la cronaca ci ricorda come non di rado i bandi pubblici vadano deserti – perché tra i giovani il posto fisso, specie nel pubblico, non è più un traguardo» conferma Borrelli. Un interesse in discesa che si riscontra un po’ ovunque in ambito lavorativo tra le nuove generazioni, come il fenomeno delle grandi dimissioni post pandemia ha messo in luce.E il servizio civile non fa eccezione, anche se «non ci sono flessioni importanti nelle domande degli ultimi anni» riflette Borrelli: «C'è stata una piccola contrazione, ma la richiesta oscilla sempre tra le 100 e le 120mila domande, con una media pari a 106mila». C’è sempre quindi una richiesta sovrabbondante rispetto ai posti messi a bando, che sono quest’anno 51.132, per 2.023 progetti. A cui vanno aggiunti 1.104 volontari da inserire nei 160 programmi che si svolgeranno all’estero. Una tendenza in crescita è però «quella delle rinunce, quindi a non portare a termine il percorso, che si verifica circa nel 13 per cento dei casi». La spiegazione potrebbe trovare le sue radici nella pandemia, «che ha segnato un cambio di passo, perché il pensiero comune è diventato quello di vivere il presente, perché la vita è solo una». C'è un po' meno voglia di mettersi in gioco, «e lo vediamo soprattutto dalla tipologia di iniziative più in voga tra i ragazzi».Se una volta infatti ci si candidava con entusiasmo anche ai progetti in cui l’obiettivo era aiutare il prossimo, «come per esempio nell’assistenza agli anziani, adesso i ragazzi fanno scelte più autoreferenziali». Vanno per la maggiore percorsi come la promozione culturale, i progetti dedicati all’ambiente, e soprattutto quelli sulla trasformazione digitale. «Da qualche anno abbiamo avviato una sperimentazione in ambito digitale, i progetti sono al momento un paio e interessano un migliaio di giovani» dice Borrelli, e stanno avendo grande successo: «Riguardano mansioni relative alla digitalizzazione della Pubblica amministrazione come può essere l’assistenza agli anziani nell’utilizzo dello Spid».Va detto che pure per il servizio nazionale vale il problema del mismatch: non è sempre facile incrociare il candidato giusto e il percorso giusto. «Capita anche per alcuni progetti di solito molto in voga, come quelli per la promozione culturale: è accaduto ad esempio in più casi su Roma, dove non c'erano candidature» adeguate. Non se lo spiega Borrelli, se non attribuendo la causa a una mancanza di comunicazione. «Il servizio civile» denuncia, «continua a essere un fatto di nicchia, la gente non lo conosce». Andrebbe pubblicizzato, «e su scala nazionale, non solo sui territori». Una difficoltà «che è nota ai governi, che però non agiscono per cambiare le cose». Dovrebbe invece diventare una scuola di cittadinanza a disposizione della società, e l’auspicio di Borrelli per i suoi tre anni di mandato alla presidenza della Consulta va in tal senso. «Il mio tentativo sarà far sì che il servizio civile si normalizzi, entri finalmente a regime e non sia in costante sperimentazione con continue riforme». E che questa esperienza possa essere conosciuta da tutti i giovani italiani.Ilaria Mariotti

Candidature aperte per tirocini alla Corte dei conti europea: il rimborso spese sale a 1.500 euro

Gli italiani sono stati il 50 per cento dei candidati per i tirocini alla Corte dei conti europea nell’ultima sessione di stage e circa il venti per cento sul totale dei selezionati. Insomma, i giovani del nostro Paese dimostrano di essere particolarmente interessati al programma di stage presso l’organo di controllo delle finanze dell’Unione europea, che ha sede in Lussemburgo. Probabile che anche questa volta non si lasceranno scappare l’occasione per far domanda per i tirocini che prenderanno il via il primo maggio 2024 e per cui è ancora possibile fare l’application entro il 31 gennaio. Oltre all’esperienza internazionale di alto prestigio c’è anche una motivazione in più per tentare questa chance: il rimborso spese mensile previsto per i sei mesi di tirocinio ammonta a 1.500 euro, 150 in più dello scorso anno. Un aumento dell’11% dovuto, è vero, all’aumento del costo della vita, ma comunque interessante da sottolineare (specie in tempi in cui altri enti continuano a proporre tirocini gratuiti…).I posti a disposizione per l’intero anno sono sessanta, quindi circa venti stagisti per ognuna delle tre sessioni di tirocinio nel corso del 2024 – quelle di marzo, maggio e ottobre. Non c’è però ancora certezza sulla distribuzione effettiva per periodo e sul totale, questo perché «il budget di spesa è calcolato su circa sessanta tirocinanti all’anno, sulla base delle esperienze passate», spiega alla Repubblica degli Stagisti Vincent Bourgeais, senior communication officer della Corte dei conti, ma «il numero esatto dipende da quante richieste riceviamo dai vari uffici e servizi della Corte che ospiteranno gli stagisti». Per esempio nel 2019 gli stage totali attivati erano stati 55, nel 2020 solo 43.  Gli italiani, si diceva, sono sproporzionatamente numerosi nel far domanda per questo programma. Nella sessione cominciata a ottobre «la Corte dei conti ha ricevuto 1.108 candidature: Italia in testa con 548, seguita da Spagna a 175 e Grecia a 60. Sono stati selezionati 33 tirocinanti», spiega alla Repubblica degli Stagisti Damijan Fiser, vice portavoce della Corte dei Conti europea, di cui «sette italiani, cinque spagnoli, cinque tedeschi e cinque irlandesi, tre greci, due francesi e due finlandesi, e uno stagista rispettivamente da Portogallo, Ungheria, Olanda e Lussemburgo». Quindi non solo siamo i primi per candidature, ma anche (fortunatamente) per selezionati.Se si è interessati a svolgere un’esperienza del genere, per un periodo che va dai tre ai cinque mesi, si può provare a far domanda. Prima, però, bisogna accertare di avere tutti i requisiti necessari: essere un cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea, aver completato almeno quattro semestri di studi universitari in un settore che rivesta interesse per il lavoro della Corte – in pratica non si può essere ai primi anni universitari – avere un’ottima padronanza di una lingua ufficiale dell’Ue e conoscerne in modo soddisfacente una seconda. Non solo, è necessario anche non aver già svolto un tirocinio, pagato o non, in un qualsiasi altro ente, istituzione o agenzia europea, nemmeno come assistente di un deputato del Parlamento europeo. Questo perché uno degli obiettivi del programma di tirocini della Corte è consentire al maggior numero possibile di partecipanti di fare un’esperienza nell’amministrazione dell’Unione europea.Un mese prima dell’inizio del tirocinio l’ufficio risorse umane contatterà via email i giovani selezionati che a questo punto dovranno presentare un estratto del casellario giudiziale che attesta l’assenza di precedenti penali. A questo va aggiunto anche un certificato medico che attesti l’idoneità fisica e in caso di disabilità un certificato del proprio medico di famiglia che attesti la capacità di operare in un ambiente di lavoro in cui siano adottati gli opportuni accorgimenti. Un requisito, quello “dell’idoneità fisica”, che «viene richiesto a tutti i neo assunti, indipendentemente dalla tipologia contrattuale», spiega Bourgeais. Per candidarsi allo stage bisogna compilare online l’application, rispondendo ad alcune domande, tra cui la scelta della durata di tirocinio (tre, quattro o cinque mesi) e l’area preferita in cui svolgerlo, e compilare tutti gli step presenti sul sito, anche la lettera motivazionale sul perché si voglia fare questa esperienza alla Corte dei conti. Oltre ai 1.500 euro di indennità mensile è previsto anche il rimborso delle spese di viaggio di andata e ritorno dal luogo di residenza. L’Eca fornisce ai tirocinanti un’assicurazione contro gli infortuni. Gli stagisti devono essere coperti anche da un’assicurazione sanitaria, che in linea di massima è data dalla Tessera europea di assicurazione malattia, ovvero la nostra tessera sanitaria, valida anche in Lussemburgo. Se per qualche motivo, però, lo stagista ne fosse sprovvisto «l’Eca gli offrirà un’assicurazione sanitaria. In tal caso il tirocinante deve pagare un terzo del premio assicurativo», come stabilisce l’ultima decisione datata 23 settembre 2023. «Questo aspetto, comunque, non è preso in considerazione durante la fase di selezione, ma solo in un secondo momento quando il candidato è stato selezionato», precisa Bourgeais. Non sono previsti buoni pasto o sconti per il pranzo ma gli stagisti possono risparmiare sui trasporti: in Lussemburgo, infatti, tutti i mezzi pubblici sono gratis. La Corte, si legge dal sito, «accetta candidature per tirocinanti in tutti i propri settori di attività: audit, traduzione, comunicazione, amministrazione generale, IT e gestione della biblioteca» e sono particolarmente incoraggiati a presentare domanda «candidati con profili nel campo dell’audit informatico e della scienza dei dati». Questo perché la Corte vuole migliorare «il modo in cui si serve della tecnologia e dei dati nel proprio lavoro di audit, ed è alla ricerca di tirocinanti che abbiano la visione e le idee per produrre un impatto effettivo in questo settore».All’inizio del periodo di stage è assegnato un mentore di tirocinio che aiuta nell’integrazione nel gruppo di lavoro e monitora i compiti dello stagista. «Tutti gli stagisti della Corte iniziano lo stesso giorno, in gruppo. Vivere quest’esperienza assieme in genere fa sì che si formi un gruppo affiatato. Oltre ad acquisire esperienza pratica, costituiscono una rete di contatti che dura oltre il termine dello stage».Se selezionati si entrerà a far parte di un ente che nell’anno in corso conta 972 dipendenti,  più della metà donne. E in cui si presta molta attenzione in materia di diversità e inclusione, «in modo che tutti possano conseguire il proprio pieno potenziale». Marianna LeporeFoto in alto a destra: di Euseson in modalità Creative Commons

Ancora tirocini gratis, stavolta al ministero dell’Università

Si è chiuso pochi giorni fa, l’8 gennaio, un bando organizzato dalla Crui per tirocini curriculari all’interno del ministero dell’Università e ricerca: sedici posti presso le sedi dell’amministrazione centrale del Mur, per stage da svolgere tra i mesi di febbraio e giugno. Dopo il bando per stage gratuiti alla Camera dei deputati di qualche mese fa, un altro bando per stage gratuiti organizzato in un prestigioso ente pubblico.Il programma anche in questo caso è disciplinato da una convenzione firmata nel settembre del 2022 da Fondazione Crui e Ministero dell’università e ricerca. Nel testo firmato dall'allora presidente Crui, Ferruccio Resta, si legge tra le premesse che «Il Mur intende promuovere ed integrare il percorso formativo universitario offrendo agli studenti delle università italiane periodi di tirocini curriculari, da svolgersi presso la propria sede in Roma, secondo modalità concertate con gli Atenei».Il programma è rivolto agli atenei associati alla Crui, al momento 85 – anche se solo in 60 aderiscono a questo specifico bando.La Crui, secondo quanto stabilito nella convenzione, pubblica sul proprio sito il bando con le offerte di tirocinio sulla base delle informazioni ricevute dal Mur che «si impegna a garantire la realizzazione di almeno due cicli di tirocini curriculari all’anno». Dopo di che sono le università che stipulano una convenzione con la Fondazione Crui e in base a questa si occupano della preselezione dei candidati, della stipula di un’assicurazione contro gli infortuni e per la responsabilità civile dei tirocinanti. Una commissione congiunta Mur-Crui compie l’ulteriore scrematura e sceglie i candidati idonei a svolgere il tirocinio gratuito, della durata di quattro mesi. Il bando si è chiuso con un risultato di 265 domande arrivate al ministero, tra cui ora verranno scelti i sedici giovani che parteciperanno al tirocinio.Il bando non prevede alcuna indennità: eppure la convenzione prevedrebbe diversamente. L’articolo 9 mette nero su bianco che «il bando può prevedere un contributo per il rimborso delle spese sostenute dal tirocinante, laddove queste siano all’uopo destinate dal Mur o dall’Università».  La possibilità di prevedere un emolumento insomma esiste, nonostante gli stage siano curriculari. Passando però dalla convenzione al bando vero e proprio si perde traccia dell'indennità. Anzi, viene specificato che «i tirocini non danno luogo ad oneri a carico del Ministero», e che non è previsto alcun «contributo per il rimborso delle spese sostenute dal tirocinante». Che fine abbia fatto l’eventuale contributo, non è dato sapere.Repetita iuvant: la legge, purtroppo, non prevede un obbligo di garantire agli stagisti curriculari un rimborso spese mensile, obbligo che esiste invece per gli extracurriculari. Ma anni di battaglie sul tema hanno portato molte aziende e anche parecchi enti pubblici a introdurre un’indennità anche per i curriculari – lo garantiscono per esempio tutte le realtà che aderiscono al network della Repubblica degli Stagisti. Stupisce che il ministero dell’Università non abbia pensato di introdurre un rimborso spese per questi stage, peraltro dopo le numerose polemiche sollevate sul caso dei tirocini gratuiti alla Camera dei deputati organizzati sempre dalla Crui.Anche in questo caso, come per gli stage a Montecitorio, traspare il timore di rivendicazioni da parte degli stagisti, tanto che nell’avviso di selezione si legge che il tirocinio «non può in alcun modo ed a nessun effetto configurarsi come rapporto di lavoro, né può dar luogo ad aspettative di futuri rapporti lavorativi» e che «non sono configurabili pretese del tirocinante in ordine ai contenuti, alle modalità ed ai risultati del tirocinio o in ordine alle spese e agli eventuali inconvenienti che esso potrebbe comportare a carico del tirocinante». Una copia-carbone delle (disgraziate) parole contenute nella convenzione tra la Camera dei deputati e la Crui. Infine, sia ben chiaro che i tirocini «non danno luogo ad oneri a carico del Ministero dell’università e della ricerca». Quindi nella convenzione, quella “generale” che attivava la collaborazione tra Crui e Mur per realizzare questi bandi di tirocinio, si parla della possibilità di un contributo a favore degli studenti-tirocinanti – a carico del Mur oppure dell’Università. Poi però, nell’avviso di selezione, l’amara sorpresa: il ministero non intende mettere a disposizione risorse. Chissà se qualcuna delle università, che già selezionano e si fanno carico della copertura delle assicurazioni, troverà qualche fondo per pagare gli stagisti. Qualcuna in passato lo ha fatto, in qualche caso, specialmente per tirocini svolti presso soggetti ospitanti recalcitranti a prevedere una indennità: ma si tratta di una fattispecie rarissima e anche poco sensata. Perché mai un'università dovrebbe pagare un proprio studente per lo stage che questi svolge in un ministero? Il ministero dovrebbe avere soldi in abbondanza per provvedere da solo a coprire sedici indennità di stage! Possibile che al Mur e alla Crui siano tutti convinti che sia giusto non prevedere un rimborso spese, anche di modesta entità, per i tirocinanti curriculari? Nessuno che si renda conto che continuare a proporre stage di questo tipo è ingiusto e classista? La Repubblica degli Stagisti ha provato a chiederlo direttamente a Crui e ministero. Nonostante le mail e ripetute telefonate, da prima di Natale a oggi, non è riuscita ad ottenere risposta dall’ufficio stampa della Conferenza dei rettori delle università italiane. Qualche risposta, decisamente scarna, è arrivata invece dal ministero: «I tirocini non prevedono un rimborso spese in quanto curriculari e, come tali, appartengono al periodo di formazione finalizzato ad integrare l’apprendimento durante il corso di studi. Infatti, le Università al termine delle attività di stage riconosceranno un numero di CFU, proporzionato alle attività richieste durante il tirocinio e al piano di studi dello studente».Insomma il ministero si trincera dietro la scusa che pagare i curricolari non è obbligatorio – il che è vero, ma è altrettanto vero che non è nemmeno vietato – e che il guadagno degli studenti-stagisti sarà nei cfu accumulati. Eppure  quattro mesi a Roma sono dannatamente cari per uno studente, la vita costa, il vitto e l’alloggio costano anche a chi sta ancora studiando, e non solo ai laureati. E il tempo e l’impegno di un tirocinante vanno ricompensati, senza distinzione tra curricolari ed extracurricolari. Mentre la risposta ministeriale, laconica, è che il rimborso spese «non è stato introdotto in quanto si tratta di tirocini curriculari e non extracurriculari». E qui allora la Repubblica degli Stagisti rivolge un appello al ministro Valditara: per le prossime volte, meglio “introdurlo”, il rimborso. Rispetto al bando della Camera, per giunta, c’è pure la beffa della (assenza di) mensa. Se infatti a fine novembre, quando era divampata – grazie alla nostra denuncia – la polemica sugli stage gratuiti, Camera e Crui si erano affrettate a sottolineare come fosse però «previsto l’accesso gratuito ai servizi di ristorazione della Camera» (dettaglio curiosamente non specificato nel bando, peraltro), nel caso, invece, dei tirocini presso il ministero dell’Università non c’è nemmeno questo piccolo aiuto. La Repubblica degli Stagisti ha, infatti, chiesto al ministero se fossero previsti ticket per il pranzo e la risposta anche in questo caso è stata che «non sono previsti in quanto trattasi di tirocini curriculari e non extracurriculari». Forse al ministero e alla Crui pensano che gli stagisti curricolari, a differenza dei loro colleghi extracurricolari, siano in digiuno permanente.Marianna LeporeFoto di apertura di Lalupa da Wikipedia in modalità Creative Commons

L'Ocse aumenta a mille euro l'indennità mensile per i suoi stagisti, un motivo in più per far domanda

Tra le organizzazioni che offrono tirocini con un buon rimborso spese oltre all’esperienza all’estero c’è l’Ocse, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, con sede a Parigi. Al momento è possibile candidarsi per svolgere un tirocinio nel corso del 2024. E quest’anno ci sarà un motivo in più per i giovani italiani per far domanda: il rimborso spese mensile, infatti, è stato innalzato a 1.000 euro.«L’indennità è aumentata rispetto ai 740 euro del 2022 a partire dai tirocini che hanno preso il via il primo marzo 2023», spiega alla Repubblica degli Stagisti Martin Wassermann, Talent management analyst all’Ocse: «Questo per gli stage che hanno sede in Francia. Una scelta fatta per attrarre giovani talenti provenienti da contesti differenti e promuovere l’inclusione e il benessere supportando meglio gli studenti durante il loro tirocinio presso l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico». Il rimborso spese di mille euro «è esteso anche ai tirocinanti che lavorano da remoto per i gruppi di lavoro con sede a Parigi». La maggior parte degli stage ha sede proprio lì – l’anno scorso sono stati ben il 98% – ma alcuni possono essere anche in altre sedi regionali come Berlino, Instanbul, Tokyo o Trento. In questo caso si possono reperire alcune informazioni sui siti dedicati, da cui si evince che a Trento il rimborso spese per gli stagisti è di circa 980 euro al mese, mentre a Berlino di circa 1.100 euro.La principale motivazione che ha spinto l’Ocse ad aumentare del trentacinque per cento l’indennità per i tirocinanti della sede parigina è stato «l’innalzamento del costo della vita. Per raggiungere il risultato sono state effettuate consultazioni con le parti interessate, inclusa anche la comunità di tirocinanti dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico», precisa Wassermann. «Infine l’aumento è stato approvato dal management dell’Ocse». Anche se la precedente indennità, seppur bassa, non scoraggiava gli aspiranti stagisti dal candidarsi: «Non abbiamo individuato alcuna correlazione tra il numero di domande ricevute e il rimborso spese che eroghiamo. Continuiamo a ricevere, infatti, circa 7.500 candidature per pubblicazione di posti vacanti (ndr. quindi circa 22mila l’anno) con una tendenza in aumento».  Al momento è possibile candidarsi per i tirocini “invernali”, ma non c’è una vera e propria data di inizio ufficiale degli stage. «Reclutiamo stagisti su base continuativa, senza una scadenza o una data di avvio prestabilita. Gli studenti possono presentare domanda in qualsiasi momento e possono essere reclutati in base alle necessità degli uffici», spiega Wassermann: «Tuttavia, per scopi amministrativi pubblicizziamo una nuova apertura per le candidature per il periodo estivo e invernale, rispettivamente il 1° marzo e il 1° settembre. Questo perché riceviamo un elevato numero di domande. Il periodo di candidatura non ha alcun impatto sulle date di inizio del tirocinio». Se però una volta scaduto il periodo di reclutamento non si venisse chiamati, conviene rifare l’application, in caso si fosse ancora interessati a tentare quest’esperienza. Martin Wassermann precisa anche «il processo di selezione dura circa tre mesi. Quindi l’ufficio tirocini suggerisce di fare domanda almeno tre mesi prima il periodo preferito di inizio stage».Chi fosse interessato a far domanda può procedere con l’application online. Per prima cosa bisogna verificare di avere tutti i requisiti: essere studenti iscritti agli ultimi anni di un corso di laurea, un master o un dottorato. E avere una buona conoscenza di almeno una delle due lingue ufficiali: inglese e francese. A quel punto si può procedere con la candidatura che raccoglie informazioni personali, di studio, le eventuali esperienze lavorative oltre a una lettera motivazionale. Lo scopo, si legge dal sito, «è quello di acquisire informazioni sul perché si vuole fare uno stage presso l’Ocse e avere un’idea di come si possa contribuire al nostro lavoro. Oltre a capire in che modo uno stage in questi uffici ti aiuterebbe a raggiungere i tuoi obiettivi di carriera».In questa fase è possibile anche indicare le aree di interesse in cui si vorrebbe svolgere lo stage. A questo punto i tirocinanti che soddisfano le richieste degli uffici e si distinguono per conoscenza della lingua, capacità di redazione e altri requisiti, sono inseriti in un gruppo a disposizione di tutti i responsabili delle assunzioni e del personale delle risorse umane. I candidati che rispecchiano i criteri ricercati sono invitati a sostenere un colloquio. Le interviste sono condotte in remoto attraverso videochiamate, quindi non è necessario andare a Parigi per farle. Visto l’alto numero di richieste, l’Ocse avverte che non può dare un feedback a tutti: solo i candidati selezionati vengono contattati dalle varie direzioni per un’intervista. Per questo, «se non si è contattati entro tre mesi dall’invio della domanda di stage, vuol dire che in questa occasione la domanda non è stata considerata utile e potrai fare una nuova richiesta a marzo o settembre».Ogni anno i tirocinanti ospitati all’Ocse sono circa 700, un numero molto alto, e altrettanto è la richiesta: circa 11 volte tanto. Inutile aggiungere, quindi, che la competizione è notevole. «Nel 2023 abbiamo ricevuto il maggior numero di candidature da Francia, Italia e Turchia. Su un totale di 701 stagisti selezionati, 110 erano francesi, 72 italiani e 52 americani» snocciola Wasserman. L’anno precedente, il 2022, erano «stati selezionati 112 tirocinanti francesi, 60 americani e 60 italiani, su un totale di 638 stagisti» e in quel caso il maggior numero di candidature coincideva con i primi tre paesi con più selezionati.Lo scorso anno si è registrato il numero più alto di tirocinanti: precedentemente il record era del 2021 con 670 (di cui 53 italiani), un picco verificatosi dopo il forte calo dovuto alla pandemia Covid del 2020, quando il totale selezionati era stato di appena 373 giovani. Quindi negli ultimi tre anni anche il numero di giovani provenienti dall’Italia è via via aumentato.In fase di candidatura è possibile scegliere la durata del tirocinio, da un minimo di un mese a un massimo di sei, anche se Wasserman aggiunge che i potenziali stagisti sono incoraggiati «a svolgere uno stage di quattro mesi o più per sfruttare al meglio questa esperienza e acquisire conoscenze significative». Tirocinio che può anche occasionalmente essere rinnovato per altri sei mesi. L’impegno è «per 40 ore a settimana, 8 ore al giorno dal lunedì al venerdì, con un orario di inizio alle 9 del mattino». Non sono previste facilitazioni per il pranzo. In compenso, «previo accordo con la direzione competente, è possibile scegliere di lavorare da casa. In genere gli stagisti che scelgono lo smart-internshipping fanno lo stage a tempo pieno, ma a volte è consentito anche il part-time». Una modalità introdotta durante la pandemia per venire incontro agli studenti: poiché l’Ocse conta 38 paesi aderenti, alcuni avevano regole molto rigide sugli spostamenti ed era quindi stata inserita la possibilità di stage da remoto che, parzialmente, è ancora possibile.Questo per «consentire di reclutare i candidati più diversi tra loro, provenienti da contesti differenti. Certo, vista la natura del nostro lavoro, pensiamo che se gli stagisti collaborano a stretto contatto con il proprio team possano trarre maggiori benefici dai tirocini in sede, che consentono una maggiore interazione, collaborazione e tutoraggio dai propri supervisori», osserva Wassermann. Non solo, uno stage sul posto permette di sviluppare il proprio network, visto che «consente di partecipare a diversi incontri e conferenze e a tutte le attività organizzate da Intern Circle», un gruppo gestito da stagisti Ocse per dare un valore aggiunto a questa esperienza organizzando eventi e creando attività di networking. «Gli stage a distanza sono più adatti a chi per qualsiasi motivo non può trasferirsi a Parigi, ma in questo caso sarà piuttosto limitata la possibilità di lavorare in gruppo, di sfruttare il tutoraggio e il networking».In una selezione così forte cos’è che può fare la differenza? Sicuramente l’aderenza dei propri studi alle aree di ricerca dei tirocinanti. Ma non va sottovalutata la capacità di mettere in risalto nella lettera motivazionale e nell’eventuale colloquio quello che si è imparato all’università. Un curriculum in ambito economico può fare la differenza visto che la maggior parte degli stagisti ha studi in questo settore o in politica internazionale, ma molti provengono anche da altre aree di studio. L’importante è «spiegare in modo semplice come si potranno applicare le proprie competenze e talenti una volta accettato l’incarico».Per verificare di essere idonei al partecipare a questa selezione, da quest’anno c’è un piccolo aiuto in più. L’Ocse, infatti, ha creato un test di idoneità al tirocinio, disponibile a questo link, dove si può rispondere ad alcune domande per capire se si può tentare o meno questa opportunità. Se selezionati si entrerà a far parte di un grande gruppo di lavoro in cui gli stagisti potranno avere vari compiti: partecipare alla preparazione di studi e documenti, fare ricerche di vario tipo, raccogliere e organizzare dati, partecipare a convegni e seminari o contribuire all’organizzazione di eventi. In questa fase avranno diritto anche a due giorni e mezzo di ferie per ogni mese di tirocinio svolto, oltre a tutte le festività celebrate in Francia.Per altre informazioni non solo è disponibile un file con tutte le faq sul programma, che contengono anche qualche suggerimento per compilare al meglio la domanda, ma anche una brochure che raccoglie le testimonianze dirette di ex stagisti. Tutti concordi nel definirla un’esperienza arricchente, totalmente nuova, l’opportunità di prendere parte a progetti che avranno un impatto sulla vita di migliaia di persone oltre a incontrare stagisti da tutto il mondo. Marianna LeporeFoto in basso a destra di Hervé Cortinat / OECD da Flickr in modalità Creative Commons