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Giornalismo, al Festival i problemi della professione

Al Festival del Giornalismo, che si è chiuso domenica a Perugia dopo cinque giorni intensi e 50mila visitatori, si è parlato anche - e come poteva essere altrimenti? - dei problemi della professione giornalistica. Due su tutti: il precariato sottopagato e i canali di accesso. A quest'ultima tematica, la prima che ogni aspirante giornalista si trova a dover affrontare, era dedicato il panel «In-formazione - La pratica che fa scuola». Perché «il giornalismo è ormai l'unico mestiere per il quale non serve portare il curriculum», come ha riassunto con disappunto Roberto Cotroneo, direttore della scuola di giornalismo della Luiss. «Si fa ancora riferimento al tempo in cui i caporedattori si crescevano i collaboratori preferiti: ma quel giornalismo non esiste più, oggi è una realtà industriale. Il giorno in cui i giornalisti saranno assunti per quello che sanno, forse cambierà qualcosa». Tra i relatori Monica Maggioni, inviata del Tg1 ed ex allieva della scuola di Perugia, ha provato a smontare la solita visione stereotipata del giornalista che si fa le ossa sul campo, consumandosi la suola delle scarpe, contrapposto al ricco pivello che comodamente svolge il suo praticantato all'interno di una scuola. «Mi fa paura l'impianto di retorica associato alla formazione: la storia delle suole delle scarpe ne è un esempio. C'è chi se le consuma restando alla scrivania e chi torna con le suole integre pur essendo andato dall'altra parte del mondo». Insomma essere sul posto è importantissimo, certo, ma «solo se si è studiato e si conoscono le chiavi di decodifica». Quindi le scuole di giornalismo servono a dare ai futuri giornalisti gli strumenti per potersi poi consumare le suole delle scarpe con cognizione di causa: «L'antica contrapposizione tra scuola e talento, tra studio teorico e suola delle scarpe, non è più attuale». Anzi le scuole dovrebbero essere l'avanguardia: «Il territorio avanzato di ricerca sulla professione» secondo Angelo Agostini del master di giornalismo Iulm. Che ha rievocato: «Ventidue anni fa, al primo anno della scuola dell'università di Bologna, scegliemmo di insegnare agli allievi la videoimpaginazione, che allora era vietata dal contratto nazionale. Nel corso del biennio il contratto venne rinnovato, il divieto decadde e molti di quegli ragazzi non finirono nemmeno la scuola perché vennero immediatamente assunti. Questo insegna che le scuole di giornalismo devono essere un passo avanti, dare gli strumenti per sopravvivere nel mondo del lavoro del futuro».Coro unanime però sui costi troppo alti: secondo Marcello Greco - oggi giornalista del Tg3, ieri allievo della scuola di Perugia - la Rai in primis essendo servizio pubblico dovrebbe «investire nella formazione permanente di chi è già dentro, ma anche dando borse di studio». Quasi un'utopia secondo Cotroneo: «Nessun editore mi ha mai detto "ecco 30mila euro per due borse di studio". Ma io sono ottimista, perché entro un paio d'anni cambierà tutto - volenti o nolenti. Il problema è che nel giornalismo non esiste l'idea che si debba assumere gente che sa fare il giornalista. Per ora gli editori sanno solo dichiarare stati di crisi e prepensionare. Vedremo cosa succederà con la riforma del lavoro».Per chiudere Gianni Riotta, già direttore del Tg1 e del Sole 24 Ore, ha fatto una panoramica delle difficoltà economiche del comparto editoria-giornalismo: «Il mercato sta cambiando negativamente, i dati 2011 dicono che sono usciti dal mercato del lavoro dei media oltre 1100 giornalisti di cui oltre 600 solo dalla carta stampata». Insomma il momento è duro perfino per chi ha un contratto: figurarsi per chi non ce l'ha. «Alla scuola di giornalismo della Columbia un docente insegnava ai futuri freelance anche come contrattare e ottenere il compenso» Rivolgendosi poi direttamente agli allievi delle scuole italiane: «Voi non avete amici: né l'Odg, né la Fnsi, né la Fieg, né i giornalisti assunti. Siete solo voi i vostri amici. Alleatevi con i colleghi, e magari coi prepensionati che sono stati espulsi dal mondo del lavoro prematuramente». Per cercare di lavorare dignitosamente, e di ricavarci uno stipendio decente.E qui si arriva al secondo grande problema della professione. I precari sottopagati, supersfruttati, calpestati. Quei giornalisti che non hanno un contratto di lavoro a proteggerli e si ritrovano alla mercé di testate che pagano un articolo pochi euro - facendo magari attendere anche mesi il saldo del pagamento. Ormai da mesi i collettivi di precari, insieme all'Ordine e alla Fnsi, sono sul piede di guerra. All'inizio di ottobre c'è stata in Toscana la prima "convention", con 400 partecipanti, in cui è stata presentata e discussa la Carta di Firenze: un documento deontologico, poi approvato dall'Ordine dei giornalisti, che dovrebbe disincentivare lo sfruttamento e responsabilizzare gli "insider" ad essere solidali con gli "outsider". A Perugia il primissimo panel, quello che ha inaugurato il Festival, è stato proprio il meeting dei movimenti dei giornalisti precari italiani, moderato da Vittorio Pasteris e Francesca Ferrara con la partecipazione tra gli altri di Viola Giannoli di Errori di Stampa, Nicola Chiarini del coordinamento Refusi del Veneto, Massimo Romano di quello dei giornalisti precari della Campania e di Federico Belprete per quello dell'Emilia Romagna. Per fare il punto sullo stato dell'arte e soprattutto sull'efficacia della Carta di Firenze, a sei mesi dalla sua approvazione e a quattro dall'entrata in vigore. A Chiarini [nell'immagine a fianco insieme a Romano] il compito di tracciare una radiografia della situazione: «Siamo una categoria parcellizzata, perché parcellizzate sono le condizioni contrattuali e di lavoro. Ma finalmente, anche grazie al lavoro dei coordinamenti regionali, la questione del precariato viene affrontata fattivamente - oltre gli slogan, oltre la lamentela sterile da bar, cercando con coscienza di costruire percorsi ed exit strategy per la maggioranza dei giornalisti». La maggioranza? «Su 44mila colleghi attivi, 24mila sono fuori dalla cornice del contratto collettivo nazionale di lavoro, e lavorano in condizioni al di sotto della soglia di dignità: una media di 7.500 euro lordi annui per un parasubordinato, il famoso cococo, 9mila per le partite Iva che in molti casi sono monomandatarie». Secondo Chiarini l'unica soluzione è «ripartire dal dovere di colleganza, la collaborazione solidale tra colleghi: per questo la Carta di Firenze mira a sanzionare quelli che svolgono un odioso ruolo di caporalato, andando ad avallare le politiche miopi di quegli editori che non riconoscono il valore della professione giornalistica». Ma la Carta è solo uno strumento: «Se non arrivano le segnalazioni non potranno arrivare nemmeno le sanzioni».Deluso invece Massimo Romano: «Io c'ero a Firenze, ed ero un grande entusiasta della Carta. Proprio per questo posso dirlo: dopo l'approvazione non è successo quasi niente. Alcuni articoli sono rimasti lettera morta: per esempio gli ordini regionali avrebbero dovuto fissare le soglie di equo compenso per i giornalisti precari, e  Odg e Assostampa istituire un osservatorio per valutare i casi di violazione, ma entrambe le cose non sono state fatte. Allo stesso modo c'è un punto che riguarda i pensionati, per evitare che chi va in pensione venga poi impiegato dalla stessa testata come collaboratore: rimasto lettera morta anche questo. E molte persone questa Carta nemmeno la conoscono». Non distante il parere di Viola Giannoli: «Il problema è proprio la concreta applicazione. Il presidente Iacopino ci ha detto che a Roma ci sono stati gli unici tre casi di ricorso a questo strumento. Solo tre casi in quattro mesi sono un fallimento - o quantomeno una battuta d'arresto rispetto alle aspettative. Ma all'Odg chiediamo: a che livello si impegna ad agire rispetto alle sanzioni? Potrà chiedere all'Inpgi di fare ispezioni, per esempio per controllare la pratica dei neopensionati che tornano subito in redazione, con tanto di scrivania, pagati il doppio o il triplo dei collaboratori giovani? Insomma, va rilanciata da parte nostra e degli organi istituzionali una campagna che dia nuova linfa alla Carta di Firenze. Affinché non resti solo "carta"». Indirizzato a Iacopino anche l'appello di Federico Del Prete: «L'Ordine nazionale porti questa Carta nelle redazioni: andrebbe affissa sui muri delle stanze dei direttori».In attesa che riparta il percorso di approvazione della legge sull'equo compenso giornalistico, stoppata a sorpresa qualche giorno fa dal governo - che ha dichiarato di voler apportare alcune modifiche non meglio precisate. «Noi però puntiamo a riattivare al più presto l'iter» ha assicurato alla Repubblica degli Stagisti Roberto Natale, presidente della Fnsi [nella foto a fianco]: «Per questo saremo al fianco dell'Ordine e dei comitati dei precari, e disponibili anche a scendere in piazza nelle prossime settimane con una grande manifestazione. Entro la fine della legislatura questa legge deve vedere la luce». I giornalisti, specie quelli più giovani, lo sperano fortemente.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Enzo Carra: «Dal 2013 equo compenso per i giornalisti freelance» - Giornalisti precari, il problema non è il posto fisso ma le retribuzioni sotto la soglia della dignità- Lo scandalo dei giornalisti pagati cinquanta centesimi a pezzo. Il presidente degli editori a Firenze: «La Fieg non dà sanzioni. E poi, cos’è un pezzo?»- Giornalisti precari alla riscossa: a Firenze due giorni di dibattito per approvare una Carta deontologica che protegga dallo sfruttamentoE anche:- Disposti a tutto pur di diventare giornalisti pubblicisti: anche a fingere di essere pagati. Ma gli Ordini non vigilano?- Un'aspirante giornalista: «Una testata non voleva pagare i miei articoli: ma grazie alla Repubblica degli Stagisti e a un avvocato ho ottenuto i 165 euro che mi spettavano»- Articoli pagati 2,50 euro e collaborazioni mai retribuite. Ecco i dati della vergogna che emergono da una ricerca dell'Ordine dei giornalisti

Apprendistato, in Campania l'età massima passerà da 29 a 35 anni: la legge regionale è quasi pronta

Un mese, massimo due, e la Campania avrà la sua legge sull’apprendistato. Il 10 aprile, infatti, è stata pubblicata sul Bollettino ufficiale della regione la delibera della giunta n.158 con cui si è approvato il testo unico dell’apprendistato. La prima fase è quindi terminata e ora si aspetta la seconda approvazione, quella del consiglio regionale, che l’assessore al lavoro Severino Nappi (nella foto) spera arrivi in tempi rapidi «consentendoci così di essere la prima realtà italiana ad avere un simile strumento». Un testo che vorrebbe far ripartire l’occupazione in un territorio in cui sono andati in fumo, solo nel 2011, 17mila posti di lavoro, e con un tasso di occupazione che è all’ultimo posto in Italia - gli indicatori statistici diffusi dall’Istat a inizio mese certificano che nel IV trimestre 2011 in Campania la disoccupazione è arrivata al 16,8%: praticamente il doppio della media nazionale.La politica regionale ha deciso quindi di puntare proprio sull’apprendistato, fino a oggi utilizzato poco e male (con un totale di apprendisti assunti in Campania nel biennio 2008-2010 di 21.480 contro i 592.767 nazionali e 1.196 formati contro i 147.246 nazionali) per cercare di arginare la disoccupazione giovanile e provare a reinserire nel mondo occupazionale i lavoratori in mobilità.Il testo, composto da tre titoli e sette articoli, identifica quattro tipologie di apprendistato: per la qualifica e per il diploma professionale, professionalizzante o contratto di mestiere, di alta formazione e ricerca e per i lavoratori in mobilità.  Il contratto di apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale può essere stipulato con i soggetti tra i 15 e i 25 anni (non compiuti), anche con il fine del recupero della dispersione scolastica. Il monte ore annuo di formazione non potrà essere inferiore a 400 ore, ma per gli apprendisti di età superiore a 18 anni potrà essere ridotto nel caso di riconoscimento del possesso dei crediti formativi. Sarà la Regione, con un proprio atto amministrativo - ancora da approvare - a individuare le modalità per questo riconoscimento. Il contratto di apprendistato professionalizzante o di mestiere riguarda invece soggetti dai 18 ai 29 anni, e l’età è innalzata in via sperimentale fino ai 32 anni anche per i disoccupati di lunga durata che hanno accesso ai benefici all’assunzione previsti dalla legge. Attraverso questo tipo di apprendistato, poi, si riconosce il titolo di maestro artigiano o di mestiere «finalizzato all’istituzione della Bottega Scuola per diffondere e per sostenere l’interesse dei giovani che hanno adempiuto alla scuola dell’obbligo all’esercizio delle attività artigianali.»  Il contratto di apprendistato di alta formazione e ricerca «può essere stipulato per tutti i settori di attività, pubblici e privati, per attività di ricerca, per il conseguimento di un diploma di istruzione secondaria superiore, di titoli di studio universitari e dell’alta formazione, compresi i dottorati di ricerca, per la specializzazione tecnica superiore», nonché per il praticantato per l’accesso alle professioni ordinistiche. Con questa forma contrattuale possono essere assunti i soggetti tra i 18 e i 29 anni, ma in via sperimentale la Campania ha deciso di ampliare l'accesso a tutti giovani, anche disoccupati di lunga durata, che non abbiano compiuto i 35 anni. Ultima tipologia di apprendistato contemplata dalla legislazione regionale è quella per i lavoratori in mobilità per cui non c’è alcun limite di età. La Regione, in questo caso, si impegna a stanziare specifici incentivi all’assunzione con contratti di apprendistato anche attraverso intese con le associazioni datoriali.La prima e più evidente novità della legge è l’estensione del contratto dai 29 ai 32 anni (in alcuni casi 35). Una scelta che l’assessore Nappi e il presidente della regione Stefano Caldoro hanno motivato ricordando l’età media d’ingresso nel mercato del lavoro per i giovani campani, spesso oltre i 30 anni. Lo scopo del testo è integrare il decreto legislativo 167/2011 e favorire l’incremento dell’occupazione di qualità rendendo l’apprendistato uno strumento privilegiato per l’accesso al mondo del lavoro da parte dei giovani e dei disoccupati. Così, oltre a richiamare tre forme di apprendistato già conosciute, si identifica una tipologia totalmente nuova: quella per i lavoratori in mobilità. C’è poi un’altra novità: al titolo III, articolo 7, è infatti istituito presso l’Agenzia per il lavoro e l’istruzione (Arlas) un Osservatorio sull’apprendistato della regione Campania, presieduto dall’assessore al lavoro, con funzioni di informazione, gestione delle banche dati, monitoraggio, valutazione, promozione dell’istituto dell’apprendistato e delle attività connesse.Il testo ha ottenuto fino a questo momento il sostegno di Mario Guida, direttore dell’associazione imprenditoriale regionale Piccole e medie imprese (Pmi Campania), soprattutto per l’estensione del contratto ai lavoratori in mobilità, e quella della Cisl Campania che attraverso una dichiarazione congiunta del segretario regionale Lina Nucci (nella foto a destra) e di quello della provincia di Avellino, Mario Melchionna, hanno definito il testo «un risultato straordinario che anticipa i contenuti della discussione in atto a livello nazionale sulla riforma del mercato del lavoro, costituendo un’esperienza pilota su come affrontare in maniera strutturata le carenze del sistema produttivo della Campania».L’ultimo passaggio spetta quindi ora al consiglio regionale che dovrà dare il suo ultimo sì alla legge. Il primo incontro per la discussione era previsto per venerdì 20 aprile, ma la commissione Attività produttive ha rinviato l’esame del testo, facendo sfumare la possibilità che il testo venisse approvato entro il 25 aprile 2012, in attuazione della riforma Sacconi, come auspicato dall'assessore Nappi. La discussione in Commissione Lavoro è quindi slittata al pomeriggio di oggi, giovedì 26 aprile. La Campania dunque per poco non è riuscita a rispettare la data ultima prevista dal vecchio governo: ma cosa stanno facendo le altre regioni su questa materia? Sembrava che nessuna fosse in grado di rispettare questa deadline, ma poi a cavallo di Pasqua le parti sociali hanno risposto alle sollecitazioni del ministero e hanno sottoscritto accordi o intese per recepire la riforma dell’anno scorso.Il Piemonte ha sottoscritto un accordo con i sindacati sull’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale a inizio aprile e qualche giorno dopo ha siglato un protocollo d’intesa per l’apprendistato in alta formazione per far conseguire all’interno delle aziende una laurea o master a 734 giovani. Anche il Veneto è riuscito a siglare un accordo sia per la qualifica e il diploma professionale sia per l’apprendistato professionalizzante così come ha fatto il Trentino Alto Adige. La giunta regionale dell’Abruzzo ha approvato, invece, a metà aprile i documenti attuativi del Testo unico dell’apprendistato dando quindi il via alle tre tipologie di apprendistato: per la qualifica e il diploma professionale, professionalizzante e di alta formazione e ricerca. Anche il Friuli Venezia Giulia, (dove sono anche in corso incontri per modificare il regolamento regionale), la Toscana e l’Umbria recepiscono il testo unico 167/2011. Così come hanno fatto il Molise con la legge regionale 2/2012, la Liguria, con l’approvazione da parte del consiglio regionale del disegno di legge che modifica la legge regionale 30/2008 (che affronta anche il tema dell’apprendistato) e le Marche, con il via libera alla proposta di modifica  della legge regionale 2/2005 sulle norme per l’occupazione. La Valle d’Aosta è stata, invece, tra le prime regioni a sottoscrivere a dicembre 2011 un’intesa per l’apprendistato professionalizzante, mentre il Lazio con deliberazione n. 41 del 3 febbraio 2012 si è occupata del problema con le “Disposizioni in materia di formazione nell’ambito del contratto di apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere” ma nel testo manca la parte procedurale che serve per attivare un contratto di apprendistato.  La Regione aveva peraltro abrogato la legislazione in materia di apprendistato con la conseguenza che dal 26 aprile, salvo proroghe, non si potranno stipulare altri contratti - eccetto per i mestieri a vocazione artigianale per cui l’assessore al lavoro Mariella Zezza ha firmato un accordo con ItaliaLavoro. La Sicilia ha pubblicato il ddg n. 46  e anche il primo avviso pubblico per il finanziamento di voucher formativi apprendistato professionalizzante. La Lombardia, invece, ha approvato a inizio aprile la legge “Misure per la crescita, lo sviluppo, l’occupazione”  che all’articolo 20 parla di apprendistato - ma in modo generico e senza individuare le diverse tipologie.L’Emilia Romagna ha varato un piano straordinario per l'occupazione giovanile, destinando 20 milioni di euro al Fondo per l’apprendistato per promuovere questo tipo di contratto e la Puglia ha siglato un’intesa per la disciplina dell’apprendistato per le professioni turistiche e ha presentato una proposta di legge per promuovere l’apprendistato nelle botteghe scuola. La giunta regionale della Basilicata ha, invece, firmato un Protocollo d'intesa con le associazioni di categoria per i primi provvedimenti attuativi del testo unico dell'apprendistato. Calabria e Sardegna non hanno ancora approvato i regolamenti relativi all’apprendistato nonostante l’assessore calabrese Francescantonio Stillitani abbia annunciato di essere pronto anche per un testo di legge regionale. Le regioni si avviano, quindi, ad avere provvedimenti molto diversi tra loro. Il che ribadisce ancora una volta la necessità di avere una legge quadro nazionale, un «testo unico del welfare in materia di lavoro, istruzione e politiche sociali», come ha detto l’assessore abruzzese Paolo Gatti. L’obiettivo dovrebbe essere quello di trovare una sintesi tra le diverse politiche regionali in materia di lavoro che riesca a considerare le competenze e l’età dei soggetti allo stesso modo evitando di avere situazioni, come nel caso della legge regionale campana, in cui un contratto di apprendistato può essere esteso fino ai 35 anni. Perchè alla fine la domanda è una: l'apprendistato è un contratto per tutti, o dev'essere limitato a chi non ha esperienza e deve appunto «apprendere»?  Marianna Lepore Per saperne di più su questo argomento leggi anche:- Apprendistato: contratto a tempo indeterminato oppure no?- Regioni e riforma del lavoro, è guerra al governo sull'articolo sui tirocini - Apprendistato: coinvolge pochissimi laureati e spesso non garantisce vera formazione

Italia, abbandonarla o resistere? Al Festival del Giornalismo di Perugia «Italy: love it or leave it»

L'Italia è bellissima. Chi può dubitarne? Mille comuni, paesaggi straordinari, città d'arte senza eguali nel mondo, tradizione enogastronomica insuperabile. Ma l'Italia non funziona. È un concentrato di ingiustizie, inefficienze, arretratezze, corruzione, gerontocrazia, bigottismo. Per chi ci vive, specie se giovane, può essere peggio di una gabbia - perché è un Paese che non garantisce protezione ai più deboli, giustizia a chi non vuole piegarsi alla malavita o anche semplicemente al malcostume, meritocrazia ai tanti che studiano e che vorrebbero vedere riconosciuto e valorizzato il proprio talento.E allora vale ancora la pena restare a vivere in Italia, oggi, e magari cercare di cambiarla? A questa domanda cerca di rispondere il documentario Italy: love it or leave it, che verrà proiettato mercoledì 25 aprile a Perugia nel giorno inaugurale del Festival del Giornalismo, dopo un dibattito che coinvolgerà i due autori - Gustav Hofer e Luca Ragazzi, registi e sceneggiatori oltre che protagonisti - insieme alle giornaliste Eleonora Voltolina e Caterina Soffici (la prima direttore della Repubblica degli Stagisti e autrice del libro Se potessi avere mille euro al mese - L'Italia sottopagata oltre che vicepresidente dell'associazione Italents, la seconda già responsabile delle pagine culturali de Il Giornale, oggi collaboratrice di Vanity Fair e del Fatto Quotidiano e autrice di Ma le donne no - Come si vive nel paese più maschilista d'Europa) e a John Peter Sloan, attore e autore di Instant English che ha calcato i palcoscenici di Zelig Off e partecipato con una rubrica al programma Report su RaiTre.Gustav e Luca sono, nel documentario come nella realtà, una coppia di trentenni. Vivono insieme a Roma e alle spalle hanno un altro film, Improvvisamente l'inverno scorso, dedicato al tema dei diritti delle famiglie omosessuali, che nel 2009 è valso loro il Nastro d'Argento al Festival di Berlino. Due anni dopo hanno deciso di fare una radiografia dell'Italia e si sono imbarcati in un viaggio da nord a sud, dalle città ai paesini più sperduti, per capire se in questo Paese c'è ancora qualcosa da salvare, qualche motivo per restare. Nel documentario Gustav, che è altoatesino dunque italiano "atipico" con accento tedesco e sprovvisto di cordone ombelicale, rappresenta la voce critica. Porta all'attenzione del suo compagno e degli spettatori i problemi, le storture, le iniquità, e fa impietosi confronti con l'estero. Luca invece, romano e più "mammone", è quello che resiste, che si impegna a trovare e dare visibilità al buono dell'Italia di oggi, a dimostrare che non tutto è perduto e che la soluzione non può essere quella di fuggire lontano lasciando il Paese a marcire. Il docu-trip è costellato di incontri, per la maggior parte volti sconosciuti di giovani e meno giovani che si impegnano e lottano per la legalità, i diritti, la salvaguardia dell'ambiente, intrecciati a quelli di alcuni personaggi famosi - Andrea Camilleri, Carlin Petrini e Nichi Vendola. Presentato per la prima volta nel settembre 2011 al Milano Film Festival, ha sbancato portandosi a casa il premio per il miglior film e quello del pubblico; poi è stato selezionato per una dozzina di altri festival - da Rio de Janeiro a Zurigo, da Cape Town a Goteborg - vincendo anche il premio della giuria dei giovani al  Festival di Annecy.Dopo Perugia, Italy love it or leave it verrà proiettato nelle prossime settimane anche a Bologna (al Cinema Lumière dal 27 al 29 aprile), e a Soliera in provincia di Modena (al Cinemateatro Italia il 1° maggio). Dallo scorso dicembre è anche scaricabile su iTunes.Per saperne di più su questo argomento:- Partire è un po' morire? Qualche volta, per i giovani italiani invece è l'unico modo per vivere- Fuggi-fuggi dall'Italia: sono almeno 2 milioni i giovani all'estero- E se Steve Jobs fosse nato a Napoli? Essere «affamati e folli» a volte non bastaE anche:- Laureati in fuga: i giovani italiani vogliono partire. Però sognando di riuscire a tornare- Sulla Rete i giovani italiani scalpitano per fare rete: ITalents sbarca su Facebook, ed è boom

Milano, i bamboccioni non abitano qui

Nella capitale lombarda la maggior parte dei giovani tra i 18 e i 30 anni lavora mentre studia e solamente 33 ragazzi su 100 affermano di dedicarsi esclusivamente all’università. E i famosi Neet? Solo il 3% degli intervistati rientra nella categoria, secondo la ricerca svolta da Francesco Marcaletti, professore dell'università Cattolica [nella foto a destra], presentata venerdì scorso al convegno «Bamboccioni: giovani e lavoro nell'era della flessibilità».L’indagine svolta dai volontari dell'Azione Cattolica ambrosiana si basa sulla diocesi di Milano (comprese anche Varese, Lecco e Monza). Il campione di quasi 600 ragazzi non è rappresentativo di tutta la realtà cittadina (le donne sono leggermente più degli uomini, tutti sono italiani e 1 su 2 ha almeno una laurea triennale), ma i risultati sono comunque interessanti.È vero che il 33% del campione decide di non avere alcuna esperienza lavorativa per potersi concentrare sullo studio. È vero che quasi tutti gli intervistati tra i 18 e i 24 anni vivono ancora in famiglia ma la percentuale scende tra i 25 e i 30, quando le ragazze tendono ad andare a vivere da sole mentre i maschi, se escono di casa, vanno a convivere con amici. È vero anche solo un giovane milanese su venti aiuta in casa, e la percentuale scende ancora tra chi ha un impiego. Però il 42% lavora oltre a frequentare l’università, soprattutto le ragazze. Una volta finiti gli studi, però, a fronte di questo impegno maggiore da parte delle donne sono invece gli uomini a trovare più facilmente un’occupazione, contratti migliori (il 53% ottiene il tempo indeterminato contro il 22% delle ragazze) e salari più alti (quasi uno su cinque guadagna più di 1500 a superare questa soglia è invece solo una donna su venti). Come sottolinea Ida Regalia, professoressa della Statale: «Si è socializzati alla vita in modo diverso a seconda che si nasca uomini o donne».Sfatato invece il mito dell’importanza delle conoscenze per trovare lavoro dato che in tre casi su cinque la raccomandazione porta sì a un impiego, ma senza contratto. Frutta di più autocandidarsi presso un’impresa, in questo modo infatti un neoassunto su quattro ottiene un posto a tempo determinato. Nell’area milanese per fortuna questo non è un caso raro: l’ha ottenuto il 14% degli intervistati, mentre addirittura il 37% è impiegato a tempo indeterminato. Ma in un campione che va dai 18 ai 30 anni non è specificato quanto tempo ci è voluto per arrivare a un buon contratto.L’indagine si occupa anche di chi un lavoro proprio non ce l’ha e scopre come i milanesi disoccupati siano abbastanza schizzinosi, tanto da rifiutare un posto che li porti in un’altra città o in un altro paese. Mammoni o abbastanza realisti da non voler traslocare per un contratto a progetto? Secondo Marcaletti ed Emiliano Novelli, vicepresidente del Gruppo Giovani imprenditori Assolombarda, molti ragazzi preferiscono stare a casa piuttosto che fare lavori considerati umili, mentre all’estero pur di non vivere con mamma e papà gli studenti fanno le pulizie negli uffici, raccolgono frutta nei campi o servono hamburger nei fast-food. Eppure, nonostante stiano attenti a scegliersi l’occupazione, solo il 7% degli intervistati ha risposto di fare qualcosa che gli piace.  Quindi sono bamboccioni o no i giovani lombardi? In definitiva, dalla ricerca dell’Azione Cattolica emerge il ritratto di una generazione molto legata al nido, ma più per necessità che per scelta: spesso questi ragazzi hanno stipendi così bassi che senza il supporto dei genitori non riuscirebbero a sopravvivere.Valentina NavonePer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- «Non solo bamboccioni: i giovani hanno voglia di riscatto». La testimonianza di un'ex stagista di Chiesi.- E se Steve Jobs fosse nato a Napoli? Essere «affamati e folli» a volte non basta- «Non è un paese per bamboccioni», un libro per chi è stufo di piangersi addosso

Ottanta tirocini alla Nato pagati 800 euro al mese, bando aperto fino al 30 aprile

Un tirocinio pagato 800 euro (lordi) al mese in una delle organizzazioni internazionali più importanti al mondo. Si tratta del programma di traineeship offerto dalla Nato, ente con circa 1.300 dipendenti che ogni anno recluta decine di giovani laureati di diverse nazionalità desiderosi di farsi le ossa in uno dei suoi dipartimenti. Dalla sicurezza agli affari politici, passando per il settore legale e la difesa (la scelta può cadere al massimo su tre opzioni). La deadline per partecipare a questa edizione, che si svilupperà in due fasi con inizio a marzo e settembre 2013, è fissata al 30 aprile entro la mezzanotte. Superata questa data occorrerà aspettare l'anno prossimo per candidarsi perchè viene pubblicato un solo bando all'anno. La buona notizia è che, oltre a un emolumento più che dignitoso, i tirocinanti possono anche percepire rimborsi per borse di studio e per spese di viaggio fino a 1.200 euro. Inoltre, il numero indicativo di candidati ammessi al progetto è di circa 40 per ogni semestre, ma la cifra totale può variare anche per il flusso di stagisti provenienti da altri programmi di internship nazionali o scolastici. Per il 2012, come spiega alla Repubblica degli Stagisti Céline Shakouri-Dias del dipartimento risorse umane Nato, «sono stati scelti circa 80 interns su 3.200 candidati», lo stesso numero del 2010. Età media: attorno ai 23 anni. Peraltro gli italiani rappresentano una fetta consistente delle candidature: l'anno scorso sono stati ben 800 i connazionali che si sono fatti avanti, circa un quarto del totale.La notizia meno incoraggiante è invece che non ci sono possibilità di assunzione: «Non c'è un metodo per convertire lo stage in un lavoro vero e proprio» specifica Shakouri-Dias, «esistono dei casi in cui si fanno dei contratti bimestrali per permettere al candidato di terminare il suo progetto, così come altri in cui è possibile che i nostri interns si candidino a nostri concorsi pubblici, ma sta a loro riuscire a superarli. Per quanto ci compete, il programma di traineeship termina dopo i 6 mesi». Ma sulle faq del sito la situazione è descritta in maniera un po' più ottimista e viene spiegato che, pur non essendovi un collegamento diretto tra lo stage e l'assunzione, «questa possibilità può essere vagliata una volta terminato il programma di tirocinio e sempre che si siano rispettate tutte le regole previste per le selezioni di un determinato impiego». I requisiti. Per candidarsi bisogna avere più di 21 anni, essere originario di un paese Nato o suo partner, conoscere bene il francese o l'inglese e infine essere uno studente universitario al terzo anno o con una laurea conseguita da non più di 12 mesi. Non c'è un filtro per le tipologie di laurea, anche se sul sito si fa riferimento ad alcune facoltà come scienze politiche, relazioni internazionali, giornalismo, ma anche ingegneria o grafica.Application form: per compilarlo è necessario registrarsi al sito e inviare il curriculum più una lettera motivazionale di 500 parole sul perchè della propria candidatura.Il processo di selezione. Per questa tornata inizierà a luglio, mentre i traineeship avranno inizio a marzo o a settembre del 2013, per una durata di sei mesi (tranne eccezioni per motivi accademici che consentono un impegno più breve, ma mai sotto i tre mesi). Tutti i candidati saranno comunque avvisati dell'esito tramite una mail che arriverà tra settembre e ottobre. Per i vincitori sarà inoltre obbligatoria la sottoscrizione di una security clearance, ovvero un nulla osta per la sicurezza rilasciato dal paese d'origine e dall'ufficio di sicurezza della Nato.Criteri di selezione, la short list si costruisce in base al curriculum in relazione alla compatibilità con il dipartimento prescelto dal candidato. Ma contribuisce anche il nationality and gender balance, ovvero un sistema di riequilibrio dei vincitori in base alla provenienza geografica e al genere.Ilaria MariottiPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Cento tirocini ben pagati all’Agenzia per i diritti fondamentali, alla Nato e all’Agenzia per i medicinali- Erasmus Placement: per gli studenti universitari tirocini da 600 euro al mese in tutta Europa. Ecco come funzionano i bandiE anche:- Fuggi-fuggi dall'Italia: sono almeno 2 milioni i giovani all'estero

Medici specializzandi, allarme rientrato: sparisce l'emendamento sull'Irpef per le borse di studio

Allarme rientrato per i 22mila medici specializzandi a rischio tassazione Irpef. Mentre i camici bianchi "scioperavano" in tutta Italia astenendosi dal lavoro in corsia, la commissione Finanze della Camera ha approvato un emendamento abrogativo della norma che mirava ad introdurre sul reddito dei medici in formazione l'imposta sulle persone fisiche per la parte eccedente gli 11.500 euro di retribuzione lorda annuale. «È stata una vittoria di tutti» è il commento a caldo di Carmine Cerullo, delegato del comitato nazionale che questa mattina ha incontrato i vertici della commissione parlamentare. Presente anche il sottosegretario alle Finanze Vieri Ceriani «che ha dato parere positivo perché l'emendamento sia tolto e ridiscusso in seguito in sede di delega fiscale» spiega Cerullo. Approvati il 4 aprile scorso al Senato, i commi incriminati sono il 16 ter e quarter dell'articolo 3 della legge di conversione del decreto "crescitalia" che minacciavano di colpire, insieme ai camici bianchi, tutti i titolari «di borsa di studio o di assegno, premio o sussidio per fini di studio o di addestramento professionale». In parole povere la stragrande maggioranza dei giovani precari che fanno ricerca all'interno di università e istituti pubblici o privati, in tutti i settori disciplinari. «La ratio dell'emendamento era quella di fare un po' di cassa, non c'è dubbio» osserva l'onorevole Tea Albini (Pd), una delle promotrici della correzione che ha assicurato il ritorno allo status quo. «La situazione dei dottorandi e dei borsisti è probabilmente anche peggiore della nostra» ammette Demo Dugoni (nella foto insieme a Valentina Romeo), membro del direttivo di Federspecializzandi che, insieme al Segretariato italiano dei giovani medici (SIGM), ha lanciato nei giorni scorsi l'allarme. Per gli specializzandi il salasso sarebbe stato di circa 300 euro mensili, su una busta paga di 1.750 euro. Una retribuzione che pone la categoria altamente al di sopra della media dei titolari di borse e assegni di ricerca. Ma il vantaggio appare comunque molto relativo considerate le responsabilità e l'impegno richiesto agli specializzandi, che possono arrivare a lavorare anche 70 ore settimanali. Per non parlare del faticoso cursus honorum che si deve affrontare per arrivare in reparto. «Ci sono scuole di specializzazione che hanno attese di 4 o 5 anni» racconta ancora Dugoni che fortunatamente è riuscito a vincere al primo tentativo il concorso per la scuola di specializzazione in neurochirurgia all'Umberto I di Roma. «Non siamo lavoratori dipendenti e non ha alcun senso tassarci come tali» spiega Valentina Romeo, anche lei specializzanda al policlinico romano ma in chirurgia generale. «Per la scuola di specializzazione paghiamo già le tasse universitarie (circa 3.000 euro annuali ndr); poi ci sono l'assicurazione e i contributi Inps ed Enpam. Il 70% degli specializzandi sono inoltre dei fuorisede e devono affrontare ingenti spese aggiuntive per completare la propria formazione».Ovvio che dinanzi alla prospettiva di un'ulteriore decurtazione dello stipendio i futuri specialisti siano insorti in massa. Lo sciopero indetto per oggi «ha avuto un'adesione altissima in tutte le cliniche universitarie del paese: siamo intorno all'80%» racconta Dugoni «non era mai accaduto prima». E considerato il fattivo apporto dato dagli specializzandi ai vari reparti si può essere certi che il disagio sia stato avvertito nitidamente in moltissimi ospedali. Nonostante che per medici e borsisti l'allarme sia ufficialmente rientrato, «la manifestazione nazionale prevista per domani davanti a Montecitorio resta confermata», assicura Carmine Cerullo, «per chiarire che siamo pronti alla mobilitazione qualora un testo del genere venga ripresentato in futuro». In corsia si torna solo mercoledì.Ilaria CostantiniPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Medici specializzandi e tirocinanti psicologi, la lunga gavetta delle professioni sanitarie

Congedo di paternità obbligatorio, passo in avanti verso l’Europa

La riforma del lavoro, approvata dal governo lo scorso 23 marzo, introduce tra le varie novità per la prima volta nel nostro Paese il congedo di paternità obbligatorio. Il testo del provvedimento presentato due settimane dopo stabilisce infatti, all'articolo 56, che «il padre lavoratore dipendente, entro i cinque mesi dalla nascita del figlio, ha l’obbligo di astenersi dal lavoro per un periodo di tre giorni, anche continuativi». Cosa significa? Se la riforma dovesse passare, tutti i lavoratori dipendenti avrebbero diritto a tre giorni continuativi di assenza dal lavoro nei cinque mesi successivi alla nascita del proprio figlio, regolarmente retribuiti. Ma,  chiarisce il provvedimento, di questi tre giorni, due sono «in sostituzione della madre e con un riconoscimento di un’indennità giornaliera a carico dell’Inps pari al cento per cento della retribuzione e il restante giorno in aggiunta all’obbligo di astensione della madre con un riconoscimento di un’indennità giornaliera pari al cento per cento della retribuzione». Inoltre, «il padre lavoratore è tenuto a fornire preventiva comunicazione in forma scritta al datore di lavoro dei giorni prescelti per astenersi dal lavoro, almeno quindici giorni prima dei medesimi».Questo significa che due dei tre giorni obbligatori per i padri vengono sottratti a quelli a disposizione per la madre. È utile ricordare che le madri italiane possono già avere cinque mesi di congedo retribuito all'80% e un numero indefinito opzionale di mesi al 30% dello stipendio, fino al compimento del primo anno di età del bambino. Il congedo di paternità va distinto da quello parentale, che già esiste in Italia, anche se facoltativo. Fino all’ottavo anno di età del bambino il padre può assentarsi dal lavoro per un periodo di tempo, continuativo o frazionato, pari a cinque mesi, percependo una retribuzione pari al 30% di quella normale. Tuttavia le astensioni dal lavoro, se utilizzate da entrambi i genitori, non possono superare il limite massimo complessivo di 11 mesi.L'introduzione del congedo di paternità comporta un cambiamento significativo: oggi esso esiste ma è una (rara) agevolazione che le aziende possono concedere ai propri dipendenti, sulla base di specifici accordi contrattuali o come una specie di «benefit» individuale. Rendendolo universale il governo allinea finalmente il nostro Paese al panorama europeo, dove invece è già ampiamente diffuso e dove già esistono benefici significativi sia per il padre che per la madre.In ambito istituzionale è tuttora in corso un dibattito: un anno e mezzo fa il Parlamento europeo ha adottato in prima lettura le revisione della direttiva sul congedo parentale che prevede l’estensione nei paesi Ue del congedo di maternità a 20 settimane totalmente retribuite e un congedo di paternità di due settimane. Oggi il provvedimento è in attesa della reazione del Consiglio prima di passare alla seconda lettura. Qual è la situazione attuale in Europa? A portare il buon esempio sono, come spesso accade in materia di welfare, i paesi scandinavi. Secondo le rilevazioni dell’Eiro (European industrial relations observatory online), osservatorio europeo del lavoro, in Norvegia i neopapà possono godere di sei settimane di congedo retribuito al 100% e di 45 settimane, da dividere con la madre, all’80%. In Finlandia i padri hanno diritto a un congedo retribuito di quattro settimane, in Danimarca a due. Tutti e tre i paesi presentano tassi di natalità più elevati rispetto all’Italia: nel primo caso è 12 ogni mille abitanti; nel secondo e nel terzo 11,2 (dati Onu 2010). Il nostro Paese, secondo le ultime rilevazioni Istat, si attesta su 9,1 ogni mille abitanti.  La differenza è evidente. Ma è sufficiente anche solo spostarsi oltralpe per trovare una situazione migliore della nostra: in Francia i papà beneficiano di un congedo retribuito di due settimane, di cui undici giorni di paternità e tre per «motivi familiari». Lo stesso per il Regno Unito: il periodo di assenza dal lavoro, completamente pagato, è pari a due settimane, da sfruttare in qualsiasi momento fino a otto settimane dopo la nascita. Nei due paesi il tasso di natalità registrato è pari, rispettivamente, al 12,2 e al 12%. Anche in stati con un tasso di natalità appena poco più alto del nostro, come nel caso del Portogallo (10,5 nati ogni mille abitanti) è in vigore il congedo di paternità: l’astensione dal lavoro può arrivare fino a cinque giorni, con una retribuzione al 100%.Si passa invece da cinque a due giorni di astensione retribuita dal lavoro in Spagna (tasso di natalità di 10,8 su mille abitanti), Paesi Bassi (11,1 nati ogni mille abitanti), e Grecia (9,3 ogni mille abitanti).Ma l'Italia non è sola: anche in altri paesi Ue invece non esiste ancora un congedo di paternità obbligatorio. È il caso di Austria, Germania (dove il padre però può dividere con la madre fino a 12 mesi di astensione dal lavoro,al 67% della retribuzione) e Irlanda, dove a marzo 2007 è stato stabilito un congedo retribuito per le madri di 26 settimane, al 75% dello stipendio, mentre per i papà non esiste alcuna formula che consenta di usufruire della retribuzione piena (o quasi piena) per accudire per un periodo i propri figli.Recenti anche le decisioni in materia di tutela dei padri lavoratori adottate oltreoceano: negli Stati Uniti parlare di congedo di paternità retribuito è quasi un’utopia. Attualmente non esiste neppure un congedo di maternità completamente pagato; dal 2003 neomamme e neopapà possono richiedere 12 settimane tra congedi per malattia e parentali. Per beneficiarne però è indispensabile aver lavorato almeno 1.250 ore nel corso dell’ultimo anno per un datore di lavoro con più di 50 dipendenti. Negli anni successivi, le legislazioni di alcuni stati hanno iniziato ad adottare provvedimenti che vanno incontro alle esigenze del lavoratore: dal 2004 in California è possibile ottenere sei settimane di congedo parentale parzialmente retribuito. Anche negli stati di Washington e del New Jersey si stanno seguendo politiche simili, ma tuttora la maggior parte dei neopapà americani continua a prendere giorni di permesso non pagati o di malattia per stare con i propri figli nei primi mesi di vita.In ogni caso, per arrivare anche in Italia a una «maggiore condivisione nella gestione dei figli da parte di entrambi i genitori e una maggiore conciliazione tra i tempi del lavoro e quelli della famiglia», così come auspicato dal ministro del Lavoro Elsa Fornero, bisognerebbe fermarsi e pensare ad alcune integrazioni. Innanzitutto, sarebbe opportuno che nel passaggio in Parlamento il testo della riforma cambiasse, e venisse sensibilmente aumentato il numero – finora francamente aneddotico – di giorni di congedo per i neopapà. E soprattutto che il congedo di paternità non sia considerato un beneficio da concedere al padre, privando le madri del tempo per stare con i propri figli, ma come un pieno diritto per entrambi i genitori, in modo da stare vicino al bambino nelle fasi iniziali della crescita.Chiara Del PriorePer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Donne e libere professioni, un binomio ancora difficile- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani- Riforma del lavoro, il ministro Fornero: «Non andrà in vigore prima del 2013»

Fair trade come opportunità di lavoro, ai giovani piace «fare la cosa giusta»

Giovani imprenditori a caccia di nuove idee. La nona edizione di Fà la cosa giusta!, che dal 30 marzo al 1 aprile ha visto 700 espositori e migliaia di visitatori invadere gli spazi di Fieramilanocity, ha riconfermato questa fiera come il  riferimento italiano per «tutto ciò che viene consumato con il cervello» - definizione cara a Fausto Trucillo di Terre di mezzo, associazione organizzatrice dell’evento. A partecipare è da sempre un pubblico trasversale di cultura medio-alta, dai super esperti desiderosi di conoscere le ultime novità del consumo critico ai semplici curiosi. Tra venditori in coloratissimi abiti africani che propongono i libri e le riviste di Terre di mezzo e code per prendere l’acqua del rubinetto (vietato vendere bottigliette), si può assistere a un concerto etnico comodamente seduti su cassette della frutta riciclate o partecipare a presentazioni di libri - per esempio quella di Alice senza niente, romanzo di Pietro de Viola sulla precarietà giovanile. Trucillo, responsabile della sezione turismo, spiega che la tematica dell'occupazione dei giovani è fondamentale per Terre di mezzo ed è trasversale a tutte le attività della fiera, anche se non c’è una sezione dedicata.Camminando attraverso le 11 sezioni (turismo consapevole – il tema speciale di quest’anno – e poi cibo, critical fashion, cosmesi, abitare green, mobilità sostenibile, bambini, commercio equo e solidale, pace e partecipazione, servizi per la sostenibilità e spazio narrativa), si nota come la manifestazione richiami sempre più aziende del sud Italia. E a settembre Palermo dovrebbe ospitare una nuova edizione dell’evento. Ci sono anche ditte straniere - dal Brasile, dall'Armenia, dalla Svizzera - e uno degli obiettivi dei prossimi anni è far conoscere sempre più Fà la cosa giusta! anche all’estero. La realtà economica attuale pesa nel settore del consumo consapevole: «Questo non è un anno come gli altri» spiega Trucillo, «la crisi ha inciso sui produttori e sui consumatori. I numero di visitatori a occhio, senza numeri ufficiali, sembra simile alle precedenti edizioni. Ma hanno meno soldi da spendere quindi cercano soluzioni più economiche o più puntuali, investendo in un oggetto che duri nel tempo».I giovani tra il pubblico sono molti, e secondo Trucillo costituiscono anche una fetta importante degli espositori: «Sono presenti soprattutto nell’agricoltura, che cerca di superare le difficoltà del momento eliminando gli intermediari, o nel critical fashion, dove usando elementi riciclati si può risparmiare sugli altissimi costi delle materie prime e allo stesso tempo fare qualcosa per l’ambiente».  «Quando è nata, Fà la cosa giusta! era una festa: ora è l’espressione di un ambito economico» riassume Trucillo: «Espositori e visitatori vengono qui a cercare stimoli, che si trasformano in progetti imprenditoriali». Fiere come questa diventano quindi anche incubatori importanti per nuovi progetti, in un periodo nel quale i ragazzi più che trovare lavoro devono inventarselo.Valentina NavonePer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- «Alice senza niente», in un romanzo la vita nuda e cruda dei giovani squattrinati precari italiani- Regione Piemonte, un milione di euro per chi sostiene i giovani imprenditori- Imprenditoria giovanile, ecco chi la sostiene

Stage, il ddl Fornero punta a introdurre rimborso spese obbligatorio e sanzioni per chi sfrutta

Poco meno di due settimane fa il ministro Elsa Fornero e il premier Mario Monti avevano illustrato i contenuti della riforma del lavoro che intendono realizzare. I punti erano poi stati resi disponibili alla stampa e ai cittadini attraverso un testo per cosi dire "programmatico", un documento di 26 pagine che spiegava argomento per argomento le intenzioni del governo. Ma quel testo non era ancora definito, non aveva la forma di un atto normativo. Ora ce l'ha. Dopo 12 giorni di lavoro - e di ultime trattative - Monti e Fornero si sono ritrovati ieri pomeriggio di nuovo fianco a fianco, di nuovo in conferenza stampa, per presentare il dettato definitivo che il governo propone ai due rami del Parlamento - in prima battuta al Senato. Il «Disegno di legge recante disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita» si articola lungo 79 pagine [scarica qui il pdf], che la Repubblica degli Stagisti nei prossimi giorni approfondirà e presenterà ai suoi lettori per capire appieno la portata dei cambiamenti proposti e gli effetti sull'occupazione giovanile. Il primo focus, oggi, è sull'articolo 12 e riguarda il tema dei tirocini formativi.Cosa diceva il testo programmatico rispetto agli stageIl testo del 23 marzo era molto generico in proposito: al punto 2.10 diceva che «nel rispetto dei profili di competenza regionale» sarebbero state individuate, «unitamente alle regioni stesse», alcune non meglio precisate «misure rivolte a delineare un quadro più razionale ed efficiente dei tirocini formativi e di orientamento, al fine di valorizzarne le potenzialità in termini di occupabilità dei giovani e prevenire gli abusi, nonché l’utilizzo distorto dell’istituto, in concorrenza con il contratto di apprendistato». Il governo si riprometteva cioè di elaborare alcune «linee guida per la definizione di standard minimi di uniformità della disciplina sul territorio nazionale», riservandosi peraltro (un po' fumosamente) di prevedere anche  «misure, riconducibili alla esclusiva competenza dello Stato, volte a disciplinare i periodi di attività lavorativa che non costituiscono momenti del percorso di tirocinio formativo, ad evitare un uso strumentale e distorto delle attività esclusivamente lavorative svolte nel tirocinio». Niente veniva detto però rispetto al contenuto delle linee guida. Cosa prevede il disegno di leggeOra l'articolo 12 del ddl qualcosa lo precisa, quantomeno nelle intenzioni. Promette che, all'indomani dell'applicazione definitiva della riforma - ipotizzabile per l'estate - partirà un conto alla rovescia che, nel giro di massimo 6 mesi, dovrebbe portare all'approvazione di «uno o più decreti legislativi finalizzati ad individuare principi fondamentali e requisiti minimi dei tirocini formativi e di orientamento». Questo decreto verrà elaborato «dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano».Disciplina da rivedere interamente per frenare gli abusiE conterrà disposizioni coerenti con quattro «princìpi e criteri direttivi». Il primo: «revisione della disciplina dei tirocini formativi, anche in relazione alla valorizzazione di altre forme contrattuali a contenuto formativo». Cioè la normativa verrà rimodellata per rendere lo stage meno intercambiabile con l'apprendistato, in modo che cessi di esserne un concorrente sleale. Il secondo: «previsione di azioni e interventi volti a prevenire e contrastare un uso distorto dell’istituto, anche attraverso la puntuale individuazione delle modalità con cui il tirocinante presta la propria attività». Qui si può evincere che il governo abbia intenzione di porre paletti più stringenti per quanto riguarda la durata massima, le garanzie di qualità formativa, il raggio di possibile applicazione degli stage, con l'obiettivo di rendere più difficile ai datori di lavoro il malcostume di utilizzare i tirocinanti come se fossero dipendenti, lasciandoli soli dopo qualche giorno di formazione sommaria, e richiedendo loro prestazioni e autonomia e gravandoli di responsabilità. Si pensi qui solo all'enorme bacino degli stagisti utilizzati come commessi nei supermercati, come baristi e camerieri nei locali, come receptionist negli alberghi. Sanzioni per chi abusa dello stage e rimborso spese obbligatorioMa sono senz'altro il terzo e il quarto dei punti messi nero su bianco da Monti e Fornero a suscitare le migliori speranze. Il terzo prevede infatti la «individuazione degli elementi qualificanti del tirocinio e degli effetti conseguenti alla loro assenza, anche attraverso la previsione di sanzioni amministrative, in misura variabile da mille a seimila euro». Finalmente cioè la normativa sugli stage smetterebbe di essere sine sanctione - al pari una sorta di mero suggerimento, senza alcuna possibilità di punire il trasgressore - e si introdurrebbe un deterrente monetario. Infine, il quarto «criterio e principio» è quello per il quale la Repubblica degli Stagisti si batte fin dalla sua nascita: la «previsione di non assoluta gratuità del tirocinio, attraverso il riconoscimento di una indennità, anche in forma forfetaria, in relazione alla prestazione svolta». Stop agli stage gratuiti dunque. Non viene specificato se il divieto di gratuità andrà applicato a tutti i tirocini, oppure solo a quelli extracurriculari (questa via, più soft, è stata quella utilizzata dalla Regione Toscana e dalla Regione Abruzzo che per prime hanno legiferato introducendo l'obbligatorietà di un rimborso spese minimo). Ma si tratta comunque di un principio di portata rivoluzionaria per l'Italia: che anche la prestazione di uno stagista, benché non esperto, benché in formazione, è meritevole di riconoscimento economico.Ora si vedrà l'iter parlamentare di questo ddl: ma il primo giudizio della Repubblica degli Stagisti su questo articolo 12 è sicuramente positivo.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani- Riforma del lavoro, il testo apre a nuove linee guida nazionali sugli stageE anche:- Riforma Fornero, cosa non va secondo i sindacalisti esperti di precariato- Abolire gli stage post formazione: buona idea ministro, ma a queste condizioni

Abolire il valore legale del titolo di studio? Il ministero lancia un sondaggio

Sul tema del valore legale del titolo di studio il dibattito sembra essere giunto a una fase di stallo. C’è chi propone di abolirlo per liberalizzare il mercato del lavoro, e chi ritiene invece opportuno mantenerlo quale garanzia fondamentale del diritto allo studio. Ogni parte schiera in campo esperti di rilievo con motivazioni complesse e ragionate. Ecco allora che il governo Monti, alla fine di gennaio, ha proposto una soluzione per uscire dall’impasse: indire una consultazione pubblica online che raccolga spunti, opinioni e pareri direttamente dai cittadini. Il sondaggio è composto da quindici quesiti ed è stato avviato il 22 marzo; nel giro dei primi quattro giorni hanno risposto ben 20mila persone. Prima di partecipare, però, è bene approfondire l’oggetto della consultazione. A partire dalla definizione del valore del titolo legale di studi, come recentemente espressa dal Servizio studi del Senato: si tratta di un istituto giuridico che va «desunto dal complesso di disposizioni che ricollegano un qualche effetto al conseguimento di un certo titolo scolastico o accademico». Cosa vuol dire? Che oggi le lauree e i diplomi hanno una rilevanza giuridica per poter accedere ad alcune professioni, per lavorare nel settore pubblico e per avanzare nella carriera accademica all’interno di scuole e università. Le autorità che possono emettere titoli di studio con valore legale, quindi, sono esclusivamente le amministrazioni pubbliche incaricate dalla legge o gli istituti privati riconosciuti legalmente dal Miur. I titoli di studio conseguiti all’estero non hanno valore legale a meno che non siano considerati equipollenti a quelli italiani sulla base di convenzioni internazionali o leggi nazionali. A complicare la questione vi è il fatto che il valore legale non è regolato da una normativa unica, ma da un insieme di norme e leggi che si sono andate stratificando nel tempo. La consultazione, comunque, non interesserà gli effetti del valore legale sui percorsi di carriera accademici, ma esclusivamente le ricadute sul mercato del lavoro.Quali sono le principali ragioni di chi è in favore dell'abolizione del valore legale? Sicuramente instaurare una competizione tra le università; ma anche prevenire fenomeni come quello dei dipendenti pubblici (o aspiranti tali) che, per poter partecipare ai concorsi che hanno come prerequisito un determinato titolo di studi, si rivolgono a università private compiacenti che, in cambio della retta, forniscono lauree di dubbia qualità. «La finalità è bloccare i diplomifici» chiarisce in un intervento Marco Meloni [nella foto], responsabile università del Partito Democratico «che da un lato mortificano il sistema universitario, dall’altro sottraggono impegno al lavoro dei pubblici dipendenti orientandoli verso l’acquisizione di titoli di studio fittizi». Chi è contrario, invece, ritiene che proprio il valore legale del titolo di studio sia una garanzia imprescindibile di uguaglianza per i cittadini, sia in termini di diritto alla formazione, sia in termini di possibilità di accesso al mondo del lavoro. In una lettera aperta ai parlamentari abruzzesi, il rettore dell'università dell'Aquila Ferdinando di Orio commenta: «In un sistema di generale precarizzazione del mondo lavoro, [il valore legale] rappresenta la migliore ed unica garanzia in grado di assicurare reali condizioni di uguaglianza per tutti i cittadini nell’accesso al mondo delle professioni. Il che non esclude che, oltre il titolo di studio, possano essere effettuate le opportune valutazioni sul curriculum dei candidati al concorso e/o alla progressione di carriera». Alla consultazione online tutti possono partecipare direttamente dal sito web del ministero dell’Istruzione: il termine per rispondere al questionario è il 24 aprile, dopodichè i contributi ricevuti verranno resi pubblici (in forma anonima) e sintetizzati in un documento riepilogativo. I risultati della consultazione saranno oggetto di seminari e soprattutto costituiranno il cuore delle proposte da sottoporre al Consiglio dei Ministri e di tutti i provvedimenti in materia da parte del Miur. Certo, c’è da dire che non si tratta di un vero e proprio sondaggio popolare: già la complessità della tematica e il fatto che la consultazione sia effettuata esclusivamente tramite il canale online esclude dal quadro una buona fetta della popolazione italiana. L’obiettivo del governo, comunque, consiste espressamente nel coinvolgere nel dibattito in particolar modo i giovani, che saranno in fondo i diretti interessati da un’eventuale riforma.di Andrea CuriatPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Quanto vale la laurea nei concorsi? Bandi poco chiari sulle equipollenze tra i titoli, arriva una guida dal ministero- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani- Università come agenzie per il lavoro a costo zero: una deriva da scongiurare- Tutti geni i neolaureati italiani? Nuovi dati Almalaurea: alla specialistica il voto medio è 108, con punte di 111 per le facoltà letterarie