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Trovare lavoro all'estero, la piattaforma Eures si rafforza: "Obiettivo 900 contratti in due anni"

29mila curriculum caricati sulla piattaforma EUJOB4EU, 350 aziende registrate, 1.200 contratti attivati in tre anni, grazie al matching fra i profili dei candidati e le richieste delle imprese. Sono i numeri raggiunti nel primo triennio dai progetto pilota di “Your first Eures job” (YfEj) coordinati dal ministero del Lavoro e dalla Città metropolitana di Roma (l'ex Provincia di Roma), che Marie Debicki, assistant manager del progetto per la Città metropolitana di Roma, ha illustrato alla Repubblica degli Stagisti in occasione di uno dei due seminari dedicati al tema “Lavoro, apprendistato e tirocini in Europa: Your first EURES Job”, nel corso dello Young International Forum [nella foto a destra] organizzato qualche giorno fa a Roma da Italia Orienta.Nel corso del seminario, Debicki ha descritto l’iniziativa, cofinanziata dall’Unione Europea (all'incirca 4 milioni di euro il budget per il primo triennio), che dallo scorso febbraio vede la collaborazione di altri 8 ministeri del Lavoro europei (Croazia, Cipro, Repubblica Ceca, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Portogallo, Spagna) insieme a un ampio network di partner associati.Se l’iniziativa in Italia era partita con una serie di progetti pilota (due della ex Provincia di Roma, uno del Ministero del Lavoro e altri realizzati da enti pubblici e privati), dallo scorso febbraio il coordinamento è unitario. E il nuovo progetto, che si chiama YfEj 4.0 ed è finanziato dal programma europeo EaSI (Employment and social innovation) con altri 3 milioni di euro, prevede nel biennio febbraio 2015 - febbraio 2017 «di arrivare all’attivazione di 900 nuovi contratti per il progetto coordinato dall'Italia, che coinvolge però anche ragazzi di altri Paesi» spiega Debicki.Obiettivo dell’iniziativa, partita nel 2012 è infatti quello di favorire la mobilità e aiutare giovani dei 28 Stati dell’Unione europea e di Islanda e Norvegia a trovare un impiego (tirocinio, apprendistato o posto di lavoro) in un altro dei Paesi coinvolti. Ma anche aiutare le aziende a trovare la forza lavoro di cui hanno bisogno e che non riescono a reperire nel proprio Paese.I requisiti per beneficiare dei servizi offerti per chi è in cerca di lavoro sono la nazionalità e la residenza in uno dei 30 Paesi coinvolti e l’età, compresa fra i 18 e i 35 anni. Le aziende, invece, che devono avere sede in uno dei 30 Paesi, devono offrire un contratto retribuito della durata minima di 6 mesi, full-time o part-time, che sia conforme alla legislazione nazionale.Per partecipare al progetto basta compilare il proprio cv in inglese sulla piattaforma dedicata. «È importante riempire tutti i campi previsti, perché altrimenti non possiamo validare il curriculum» spiega Debicki. Siccome in passato accadeva che molti ragazzi lasciassero alcuni campi vuoti, come il “desired occupational field”, pensando forse di non precludersi così alcuna possibilità, «da alcuni mesi è stata modificata la piattaforma» precisa Debicki «permettendo così di inserire due settori di preferenza e non più uno solo. Ma è importante che i ragazzi sappiano che queste indicazioni non li escluderanno mai da un’offerta di lavoro anche in altri settori, perché il nostro metodo di selezione si basa su una serie di filtri per parole chiave».Per questo «è fondamentale che i ragazzi, nel redigere il cv, siano il più esaustivi possibile, al contrario di quel che si raccomanda invece, solitamente, per chi si candida a un’offerta di lavoro specifica. Se un’infermiera, poniamo il caso, durante gli studi ha fatto spesso la babysitter, non deve sottovalutarlo, perché nel caso ci sia una posizione aperta in un reparto pediatrico anche questo elemento potrebbe contare. Così come consigliamo a un informatico, ad esempio, di inserire tutti i programmi che sa usare, perché potrebbero rientrare fra le parole chiave della nostra ricerca». In un secondo momento, nel caso in cui arrivi un’offerta specifica, «possiamo però contattare i ragazzi e chiedere loro di preparare un cv più specifico».Quando arriva un’offerta da un’azienda, parte subito la preselezione. «Generalmente non pubblichiamo le offerte di lavoro sul sito, ad eccezione di quelle inserite nella sezione “Hot Jobs” che sono quelle per cui non troviamo profili idonei già registrati nel nostro database o che vengono reiterate periodicamente» puntualizza Debicki «Contattiamo subito, però, i ragazzi potenzialmente adatti, anche perché ci impegniamo a dare risposta alle aziende entro cinque giorni. Per questo è fondamentale che i ragazzi ci rispondano velocemente per proseguire nella selezione».Ma quali sono i settori e le professioni più richieste al momento? «Abbiamo moltissime richieste per infermieri. Ma anche per informatici e ingegneri. Contemporaneamente, siamo alla ricerca di parrucchieri e chef e di personale da impiegare nel settore turistico e dei servizi» racconta Debicki. «Abbiamo, invece, difficoltà con le professioni autonome per cui in genere non è previsto un vero e proprio contratto di lavoro, come gli architetti o altre professioni artistiche. Questo perché al momento, ad esempio, nessuno studio di architettura si è iscritto sulla nostra piattaforma».Per tutti i ragazzi preselezionati per un impiego tramite la procedura sopra descritta, “Your first Eures Job” mette a disposizione anche una serie di aiuti finanziari, destinati a agevolare l’inserimento lavorativo in mobilità. Fra questi, un’indennità forfettaria per coprire le spese di viaggio di chi sia chiamato per un colloquio in un altro Paese - la cifra è calcolata sulla base della distanza da coprire - e un’indennità di trasferimento, con importo variabile a seconda del Paese di destinazione, per chi sia stato selezionato per un impiego e sia pronto a fare le valige. Ma anche un contributo, fino a un massimo di 1.270 euro, per la formazione linguistica, sottoforma di rimborso per i corsi effettuati. E un altro, fino a mille euro, per le spese eventualmente necessarie per il riconoscimento delle qualifiche all’estero. Infine, i giovani preselezionati con bisogni specifici (per questioni di salute, contesto socio-economico o geografico) possono beneficiare di un assegno di trasferimento supplementare, erogato sulla base del rimborso delle spese ammissibili dichiarate fino a 500 euro. Oltre agli aiuti finanziari, i servizi di YfEj prevedono anche attività di formazione di base o linguistica, attraverso seminari tematici organizzati periodicamente.Sara Grattoggi

Disoccupazione giovanile, in Italia è la più persistente: per sei su dieci va oltre l'anno

L'Italia batte un triste record mondiale: i suoi giovani disoccupati sono tra quelli che restano tali per più tempo in tutto il mondo. La notizia arriva dal Global Employment Trends for Youth 2015, il report che analizza l'andamento mondiale della disoccupazione giovanile pubblicato dall'Ilo, l'Organizzazione mondiale del lavoro. E il risultato è chiarissimo: superata da Croazia e Bulgaria, l'Italia detiene il triste primato insieme alla Grecia di 15-24enni senza un'occupazione per più di un anno consecutivo. Con una tendenza in crescita, perché se nel 2012 questa condizione riguardava circa la metà della popolazione sotto i 24 anni senza un impiego, due anni dopo la percentuale è salita al 60%. L'essere a spasso diventa una situazione cronica, senza speranza. Tanto che gli analisti dell'Ilo parlano di «una disoccupazione di lungo periodo che sta diventando un fenomento strutturale» per alcuni paesi come l'Italia e la Grecia.Per capirne la portata basta un confronto con la media Ue, i cui giovani senza lavoro sono poco meno di uno su tre, la metà rispetto all'Italia. La stessa Spagna non arriva a tanto. Sotto il tasso medio europeo si attestano per esempio Francia, Belgio, lo stesso Portogallo. C'è chi come la Germania e il Regno Unito è poco sopra il 20%, senza contare i soliti virtuosi del Nord (Finlandia, Svezia, Danimarca, Norvegia), tutti molto più in basso. Tradotto significa che in Italia non avere un lavoro a vent'anni può tradursi in uno stigma perenne. Una condizione molto pericolosa, come fa notare alla Repubblica degli Stagisti Massimiliano Mascherini, research manager all'Occupazione presso Eurofound: «Se la disoccupazione di breve periodo è quasi naturale nella transizione scuola-lavoro, è con quella di lungo periodo che si creano danni rispetto alle future prospettive occupazionali, fino al rischio di un lifelong disengagment dal mercato del lavoro». Cioè un distacco dalle prospettive professionali per tutta la vita.Quello dell'Italia è però un caso talmente circoscritto - solo la Grecia vanta percentuali analoghe - che gli esperti del rapporto minimizzano, facendo un paragone con la condizione perfino più pesante degli adulti: «Per loro i valori di disoccupazione di lungo termine sono maggiori, con una media Ue del 52% in crescita di più di dieci punti sul 2008». Tutto sommato farebbe più paura questo dato, se non fosse che gli italiani fanno ancora peggio, scalzando ogni indicatore per gli under 24. E i primati negativi per l'Italia non finiscono qui. «Grecia, Italia, Portogallo e Spagna hanno sperimentato aumenti del tasso di disoccupazione giovanile tra il 2010 e il 2014 tra i dieci e i venti punti percentuali» ricorda il report, «ben al di sopra della media Ue, che è stata di circa un punto». La quota per questi paesi si è attestata sopra il 21%, e la tendenza è stata verso la decrescita. Per tutti, tranne per l'Italia, l'unica a veder crescere il numero dei suoi disoccupati sui 32 paesi analizzati. Insomma finora a poco sembrerebbero valsi per ora gli sforzi dei vari governi che si sono succeduti negli ultimi anni, anche se a onor del vero bisogna sottolineare che gli effetti di Garanzia Giovani non possono ancora rientrare in queste rilevazioni, dato che il programma è stato lanciato a maggio del 2014 e ha cominciato a dispiegare i suoi effetti solamente a partire dalla fine del 2014. Nel frattempo però i Neet, i giovani inattivi, si sono moltiplicati. Anche qui il nostro paese è isolato: è superato solo dalla Grecia (dove comunque sono il 20% contro il nostro 22), mentre gli altri 'pigs' – Spagna, Portogallo, Irlanda – ne contano sempre di meno. È questa la categoria più a rischio secondo Mascherini: «Se andiamo a disaggregare la popolazione dei Neet, vediamo che in Italia un quarto di loro è un long-term unemployed, mentre un restante 14% è uno scoraggiato». Se si sommano però le due quantità «arriviamo a concludere che circa il 40% dei Neet italiani è a alto rischio di disengagement».Solo da una visione più complessiva, inquadrata a livello globale, arriva qualche speranza. Innanzi tutto perché – ed è questo il principale esito del rapporto – i giovani disoccupati stanno diminuendo. Se erano 76 milioni con il picco della crisi, adesso sono calati di 3 milioni. Una discesa che – a sorpresa – è iniziata ben prima degli anni di recessione: nel 2004, osservano dall'Ilo, «la disoccupazione giovanile era sopra il 40%, oggi è inferiore di cinque punti». E infatti i senza lavoro under 24 agli inizi degli anni Duemila erano ben di più che ora, a quota 78 milioni. Adesso siamo all'incirca al livello del 1998. Dunque non è vero che per i giovani sia questo il periodo più nero in assoluto. Chi, nel mondo, aveva vent'anni o giù di lì nel 2002 se la passava decisamente peggio. E c'è anche un elemento da non sottovalutare: in circa vent'anni, dai primi anni Novanta a oggi, la forza lavoro attiva si è molto contratta - dal 59 al 47%, sottolinea lo studio. «Ma il principale fattore dietro il calo è la tendenza delle nuove generazioni a proseguire negli studi» ragionano gli analisti. E questa è senz'altro una buona notizia.  Ilaria Mariotti 

I giovani devono poter esprimere il loro spirito d'iniziativa, per l'Agenzia Giovani «#lascommessaseitu»

Oltre duecento ragazzi riuniti a Roma, al Tempio di Adriano, per una due giorni organizzata dall'Agenzia nazionale per i giovani dal titolo «La scommessa sei tu» (con un hashtag, #lascommessaseitu, che ha raccolto centinaia di tweet e menzioni sui social network), con l'obiettivo di «supportare e valorizzare lo spirito d’iniziativa e auto imprenditorialità dei giovani». Giovani tra i 20 e i 30 anni soprattutto, selezionati in tutta Italia (per aderire bisognava candidarsi tramite cv), che mercoledì e giovedì hanno partecipato a caccia di spunti e informazioni per la ricerca di un lavoro, o meglio per tentare di procacciarselo, ideando progetti e trovando finanziatori. Un evento che ha fornito un'occasione per riflettere sul loro futuro interrogando i fautori delle politiche giovanili di questi anni.Tanti gli interlocutori nella maratona di interventi moderati da Gianluca Semprini, giornalista di SkyTg24, e Eleonora Voltolina, direttore della Repubblica degli Stagisti: tra loro anche il presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, l'imprenditore e consigliere del presidente del Consiglio sull’Innovazione sociale Paolo Barberis, il presidente del Coni Giovanni Malagò, il neopresidente di Unioncamere Ivan Lobello, l'amministratore delegato di Invitalia Domenico Arcuri, e poi Diego Ciulli di Google Italia, Laura Bononcini di Facebook Italia, la direttrice dell'Agenzia per la coesione territorialeMaria Ludovica Agrò e molti altri. Non sono mancati da parte dei ragazzi gli interventi e le riflessioni, propositive e talvolta anche critiche, di fronte a un sistema che spesso li fa sentire abbandonati nella pianificazione di un percorso professionale. Con Giuliano Poletti, ministro del Lavoro, intervenuto nella discussione nella prima giornata, si è entrati nel cuore delle problematiche del mondo occupazionale. A cominciare dal Jobs Act, che Poletti ha difeso rispedendo al mittente le critiche e rispondendo alla domanda sul numero effettivo di occupati generati dalla riforma: «Sappiamo che abbiamo 325mila occupati in più agosto 2015 su agosto 2014: è un più 8 per cento, che è comunque un numero importante» ha sottolineato, pur ammettendo di non sapere ancora se si tratta di «contratti precari o meno».Sta di fatto, ha ribadito Poletti, che «veniamo da vent'anni di precarizzazione del lavoro, e noi abbiamo fatto una cosa banale: rendere questi contratti meno convenienti». Con le nuove assunzioni a tempo indeterminato i giovani «possono farsi una vita, prendersi un mutuo». Per incentivare questi contratti sono serviti molti soldi: «Ma se vuoi rovesciare una cultura devi spostare almeno un milione di posti di lavoro, con 5mila non cambi lo stock». Sull'articolo 18 ha invece minimizzato: «Non è quello che mi chiedono i datori di lavoro quando li incontro: gli imprenditori vogliono essere più liberi nel momento in cui si espandono o assumono. E noi abbiamo dato regole chiare per esserlo. E non è nemmeno quello che mi chiedono i ragazzi, che sono interessati sopratutto ad avere più opportunità».Rispondendo a chi, dalla platea, chiedeva - «dopo un dottorato, un master, due stage a titolo gratuito e ancora nessun lavoro in vista» - cosa pensa di fare il governo per rimediare (tasto dolente, almeno stando al forte applauso spontaneo generato dalla domanda), Poletti ha riconosciuto che «c'è bisogno di politiche attive strutturali, come Garanzia Giovani: finora sono state attuate logiche sbagliate, di protezione dell'esistente. A cominciare dalle rendite, che invece si proteggono da sole» sbotta. Per ripartire bisogna fare invece una rivoluzione culturale. Lo ha sottolineato più volte nel suo intervento Alessandro Rosina, ordinario di Demografia alla Cattolica di Milano e curatore del Rapporto Giovani dell'Istituto Toniolo: basta con «le nuove generazioni destinatarie passive delle politiche di governo: devono comportarsi da protagoniste, costruirsi un percorso professionale e di vita già dalle superiori. Non devono porsi il problema del posto di lavoro dopo la laurea, bensì prima, optando per una determinata facoltà pensando già da subito al percorso da seguire». Sulla stessa linea anche il sottosegretario al Lavoro Luigi Bobba: «Occorre fare delle scelte a monte, di medio-lungo periodo, per evitare che si faccia la fine degli avvocati di Roma che – si dice spesso – sono più di quelli della Francia intera» e rimangono poi a spasso. Insomma non aspettarsi un lavoro che venga a cercare a casa, ma «crearselo da sé» ragionando in anticipo sulla strada da intraprendere, e sopratutto intercettando i lavori del futuro: sia quelli nati grazie alle nuove tecnologie, sia i vecchi mestieri "modernizzati" in chiave contemporanea. Un esempio? La Agrò ha ricordato che «di giuristi ci sarà sempre bisogno», anche per modernizzare quelle branche del diritto che sono più esposte alle innovazioni: «il diritto d'autore, per dirne una, che oggi ha bisogno di una profonda revisione per restare al passo con i tempi che cambiano».Il digitale è la fucina dalla quale partire, fonte com'è di nuova occupazione. Tra le professioni ancora semi-sconosciute che spuntano, per esempio, c'è quella del 'digitalizzatore'. Lo ha ricordato Ciulli di Google Italia (dove, come ovvio, «si entra solo tramite application online»): «Noi cerchiamo ragazzi che vadano in giro a parlare con le imprese, per spiegare cosa possano fare con Internet e quali vantaggi potrebbe trarne l'azienda»; una figura di cui in Italia c'è fortemente bisogno perché purtroppo ancora «quattro imprenditori su dieci ritengono inutile l'apporto del web alle proprie aziende» ha evidenziato con rammarico Poletti. Si tratta del fulcro di 'Crescere in digitale' una iniziativa che implementa Garanzia giovani, che consente agli iscritti di seguire un corso a cui può poi seguire un tirocinio di sei mesi «per affiancare le imprese nel digitale». Da parte loro gli imprenditori possono invece candidarsi per accogliere un tirocinante – sempre in ambito Garanzia giovani - «a supporto delle attività sul web».Un'idea per creare un punto di incontro tra i due mondi, giovani e datori di lavoro, e per dare concretezza a quella parola, la «corresponsabilità», più volte uscita nel corso del dibattito e tra le domande dei partecipanti: a dire che – se è vero che i ragazzi devono impegnarsi per crearsi un futuro – chi detiene il potere ha il dovere di fare la sua parte. Lo ha sintetizzato Giacomo D'Arrigo [nella foto a fianco, insieme ai quattro protagonisti del dibatttito sulle startup: da sinistra Anna Amati di ItaliaStartup, Hagaj Badash di NanaBianca, Roberto Macina per Qurami, D'Arrigo e Benedetto Linguerri di H-Farm], presidente dell'Agenzia giovani, nel suo intervento conclusivo. L'Agenzia ha come sua mission principale l'assegnazione di fondi europei (come quelli di Erasmus+) a progetti rivolti ai giovani o da loro messi in piedi: «Io sono, voglio essere corresponsabile. Noi con l'Agenzia non vogliamo limitarci a fare il nostro "compitino", che sarebbe quello di dare soldi e poi rendicontare» ha detto. «Vogliamo fare un passo in più, insieme a voi, creando un contatto con le imprese, con le istituzioni, creando la Rete per le opportunità, lavorando in partnership con le altre istituzioni, in modo da "scaricare a terra" energia moltiplicata. Abbiamo cominciato a farlo attraverso La scommessa sei tu, adesso la cosa più importante è mantenere il contatto e proseguire su questa strada».Ilaria Mariotti

L'Iefp non è un canale formativo di serie B, anzi garantisce sbocchi occupazionali migliori delle scuole superiori

«Non è un canale formativo di serie B, ma un altro tipo di scuola». Antonio Varesi, presidente dell'Isfol - ente di ricerca su formazione e politiche sociali e del lavoro - spiega così sul sito dell'istituto il sistema educativo cosiddetto Iefp: l'istruzione tecnica, per dirla in parole semplici, entrata sperimentalmente nel regime scolastico italiano nel 2003 e oggi considerata a tutti gli effetti ordinamentale. Corsi triennali o quadriennali per ristoratori, elettrauti, operatori del benessere, erogati da scuole statali così come da agenzie formative (ce ne sono centinaia in ogni regione), sia pubbliche che convenzionate. Un'alternativa alla scuola tradizionale per l'assolvimento dell'obbligo scolastico per i 14-17enni, la cui competenza è in capo alle Regioni. E che conferisce un diploma di stato equivalente a tutti gli altri, con circa mille ore annuali spalmate su percorsi sia comuni che individuali di recupero, divise tra aule e laboratori, esperienze di alternanza scuola-lavoro incluse. Il dato principale è che la Iefp ha una discreta efficacia ai fini dell'inserimento lavorativo. Uno su due, dopo tre anni, ha un lavoro. Tra i diplomati 2011 "tradizionali", a tre anni dal titolo, ne risultavano invece occupati solo quattro su dieci, secondo le statistiche di Almadiploma. Un dato cruciale, sopratutto per uno dei paesi europei con la più alta concentrazione di Neet, l'ormai famoso acronimo che definisce i giovani inattivi. A testimoniare il buon funzionamento dell'Iefp è il rapporto che l'Isfol ha pubblicato poche settimane fa.«Se all'epoca del suo avvio si contavano appena 23mila iscritti» osserva Valeria Scalmato, ricercatrice responsabile del rapporto, «oggi sono quasi 330mila». L'incremento rispetto all'anno scorso è inoltre dell'8%. L'identikit dei diplomati - 75mila - è di maschi residenti per lo più al Nord (più di sei su dieci), mentre i settori più gettonati sono la ristorazione, il benessere e l'elettrico. La metà sembrerebbe destinata a trovare lavoro quasi subito - «a tre anni dalla qualifica gli occupati sono la metà» conferma lo studio - nonostante il calo rispetto all'indagine del 2011, che evidenziava un tasso di occupazione del 59%. Le migliori performance arrivano dalle agenzie formative accreditate, i cui allievi trovano lavoro nel 55% dei casi, mentre per le scuole la percentuale si ferma sotto di più di quindici punti. E i posti sono soprattutto stabili: «più di tre su quattro hanno una posizione da dipendente, la restante parte è suddivisa equamente tra lavoro autonomo e contratti atipici» spiega il rapporto. Un punto lascia però perplessi. Per la Iefp sono stanziati annualmente 780 milioni (590 dalle Regioni, 189 dal governo), con un costo medio per studente attorno ai 4.600 euro, con oscillazioni tra i 3.900 della Toscana e gli 8mila di Bolzano. Una somma arrotondata peraltro per difetto, che non considera la parte dei costi sostenuta per conto proprio dagli istituti professionali: «strutture, personale, spese di mantenimento didattico», si legge nel report. Una cifra consistente, visto il numero ridotto di chi frequenta la Iefp: sono appena 330mila, contro l'insieme degli studenti italiani della statale che raggiunge gli 8 milioni. Soprattutto se si pensa che sulla riforma della Buona scuola è stato messo non molto di più: un miliardo per il 2015 (una volta a regime saranno tre). Una sproporzione che mette in luce come questo sia uno dei settori di punta, o almeno tra i favoriti dalle recenti politiche di governo. Che funzioni, è innegabile: ma forse anche proprio perché può contare su un ammontare di risorse che la maggior parte degli studenti italiani si sogna. Sono anche altre le note di merito della Iefp. In primis «la capacità inclusiva della filiera», specie in favore delle categorie più deboli dal punto di vista occupazionale: «Gli iscritti di nazionalità straniera sono circa il 15% del totale» riferisce il rapporto. Gli stranieri sono anche i più motivati, con voti migliori e meno bocciature, e quelli che «scelgono in maggior misura il percorso formativo in prima battuta e non a seguito di un insuccesso scolastico». L'altro dato è infatti che gli studenti italiani Iefp sono spesso soggetti «a rischio di abbandono scolastico, con una scarsa consapevolezza dei propri mezzi e con un percorso irregolare». Non a caso entrano nel triennio formativo di solito dal secondo anno. La Iefp è insomma un valido «argine al fenomeno della dispersione formativa» sostiene l'Isfol nel rapporto.Tuttavia non mancano le consuete criticità del sistema occupazionale italiano: sono molto rilevanti, per esempio, le disuguaglianze territoriali perché si lavora sempre di meno al Sud, dove la quota di diplomati Iefp immessi nel mercato è di uno su tre, contro quasi il doppio del Nord est. E a prevalere è sempre la componente maschile, assunta nel 53,4% dei casi - da rilevare una contrazione di quasi dieci punti rispetto a quattro anni fa - giustificata nell'analisi dell'Isfol con «la forte crisi registrata nell’industria e nelle costruzioni, a vocazione tipicamente maschile». Ilaria Mariotti 

Legge Controesodo, il governo a sorpresa cambia le regole: sgravi fiscali meno forti per gli expat che tornano in Italia

Uno dei motivi per cui i giovani italiani vanno all'estero è, innegabilmente, che ci sono opportunità di lavoro migliori rispetto all'Italia. Poi restano lì, e non tornano, sopratutto per una ragione altrettanto innegabile: mediamente all'estero si guadagna di più. Eppure negli ultimi quattro anni sono rientrati in Italia 7mila expat: lo hanno fatto grazie a una legge chiamata "Controesodo", una sorta di incentivo fiscale che permetteva ai laureati rimpatriati dopo una significativa esperienza di lavoro o studio fuori dall'Italia di pagare le tasse per i primi tre anni non sul totale del proprio stipendio, bensì solamente sul 30% (per gli uomini) o 20% (per le donne). La legge era stata una delle poche conquiste "bipartisan" dell'ultimo governo Berlusconi: a inizio 2015, dopo molte tribolazioni, c'era stata una proroga che estendeva la possibilità di beneficiare delle agevolazioni fino a tutto il 2017. Ma a settembre è arrivata la tegola: un decreto ha cambiato le regole del gioco, stabilendo che i "talenti di ritorno" dovranno pagare le tasse sul 70% dei propri guadagni. Cosa succede adesso a quei 7mila che erano sicuri di poter usufruire del regime di vantaggio fino alla fine del 2017? Potranno fidarsi della parola data dal governo appena qualche mese fa? In effetti, i cambiamenti introdotti hanno ritoccato in maniera migliorativa altre condizioni, ma...→ Continua a leggere su Linkiesta

Fulbright, 20 borse di studio per laureati e ricercatori italiani che vogliono specializzarsi negli Usa

Sette borse di studio per Master e PhD e undici per soggiorni di ricerca di 6-9 mesi nelle università americane. Sono alcune delle borse di studio offerte per l’anno accademico 2016-2017 a laureati e ricercatori italiani dalla Us-Italy Fulbright Commission, che ogni anno mette a disposizione complessivamente, attraverso programmi specifici, circa 70 scholarships equamente divise fra quelle rivolte a italiani che desiderano andare negli Stati Uniti e quelle destinate a americani che aspirano invece a fare un’esperienza nel nostro Paese. Non tutte le borse vengono messe a bando nello stesso periodo e, se molte sono destinate a giovani, ce ne sono altre dedicate a profili più senior. La Repubblica degli Stagisti ha selezionato quelle rivolte a laureati e ricercatori italiani per cui le candidature sono ora aperte e si chiuderanno fra dicembre e gennaio.Cominciamo dallo studio. Quattro sono i bandi pubblicati sul sito ufficiale Fulbright per i laureati italiani che desiderino fare un Master o un PhD negli Usa. Per il prossimo anno accademico, due borse di studio fino a 50mila dollari disponibili per chi voglia fare un master in Business Administration (Mba) presso università americane con il Fulbright Ethenea Program. Una borsa fino a 38.500 dollari (Fulbright Santoro) è invece riservata a master programs in International Relations e un’altra, la Fulbright-Law da 20mila dollari, a master o PhD in Law. Per tutte le altre discipline (con l’unica eccezione di quelle che prevedano attività di tipo clinico, come le specializzazioni in Medicina e Chirurgia, Odontoiatria, Psicologia e Veterinaria), sono disponibili tre borse di studio fino a 38mila dollari, valide solo per un anno accademico. Tutte le borse comprendono inoltre un contributo di 1.100 euro per le spese di viaggio tra Italia e Stati Uniti, l’assicurazione medica finanziata dallo Us Department of State e la sponsorizzazione del visto d’ingresso J-1.Per candidarsi a questi quattro programmi, compilando l’application sul sito e consegnando a mano, via posta o corriere i documenti aggiuntivi richiesti agli uffici della Commissione Fulbright (via Castelfidardo 8, 00185 Roma), c’è tempo fino all’11 dicembre. Tre i requisiti fondamentali: essere cittadini italiani, essere in possesso di un titolo di laurea triennale e/o magistrale, avere inviato la domanda di ammissione a un college statunitense. Richiesta ovviamente anche la conoscenza della lingua inglese, comprovata dalla certificazione linguistica Toefl o Ielts, con un punteggio accettato dall’università americana prescelta.Quali sono i criteri di valutazione delle domande? «Essenzialmente tre» spiega Sandro Zinani, Pr officer della Commissione Fulbright italiana «Il profilo accademico, la qualità delle tre lettere di referenza richieste e dei due saggi motivazionali: il personal statement in cui il candidato si presenta in forma narrativa e lo study project in cui spiega perché vuole frequentare quel determinato corso negli Usa. Oltre, naturalmente, al test di lingua». Per questo Zinani consiglia ai candidati «di non compilare in fretta l’application e di consultarsi con l’università statunitense prescelta, prendendo contatto con i professori». Essenziale è infatti che i candidati siano ammessi dai campus americani. «In genere una trentina di candidati passano la fase di pre-selezione sulla base dell’application inviata» spiega Zinani «e arrivano alle interviste del Comitato di selezione Fulbright», che si terranno il 16 febbraio 2016. Mentre l’esito finale sarà comunicato ai candidati fra maggio e giugno.Stesso iter diviso in due fasi, ma tempi diversi, per chi desidera candidarsi al bando Fulbright Research Scholar che per il prossimo anno accademico mette in palio 11 borse di studio dai 9 ai 12mila dollari (a seconda della durata dei soggiorni) per periodi di ricerca compresi fra i 6 e i 9 mesi in università statunitensi, destinati a assegnisti di ricerca che abbiano conseguito il dottorato da almeno due anni, ricercatori universitari a tempo determinato o indeterminato e professori associati in tutte le discipline ad eccezione delle materie cliniche di Medicina e Chirurgia, Odontoiatria e Veterinaria. Anche in questo caso sono previsti un contributo di 1.100 euro per le spese di viaggio, l’assicurazione medica e la sponsorizzazione del visto d’ingresso.I candidati qui, oltre alla cittadinanza italiana e all’ottima conoscenza dell’inglese, devono godere di un’affiliazione accademica presso un centro di ricerca o un’università italiana o europea, essere in possesso di almeno un titolo accademico rilasciato da un ateneo italiano e di una lettera di invito di da parte di un’istituzione accademica o di ricerca degli Usa. Per candidarsi a queste borse, attraverso il sito, c’è tempo fino all’8 gennaio 2016. Mentre i colloqui-interviste avranno luogo a Roma nella seconda metà del mese di marzo.Una particolare borsa di ricerca è invece quella attribuita attraverso il concorso Fulbright – Fondazione Falcone – Niaf, che offre a giovani studenti iscritti al corso di laurea magistrale o specialistica o al dottorato di ricerca in università della Sicilia l’opportunità di attuare un progetto di ricerca in Criminologia presso college americani, finalizzato al completamento della tesi di laurea o di dottorato. Possono presentare domanda i laureati in Criminologia o in Giurisprudenza, o in altre discipline a indirizzo giuridico-economico, sociologico e antropologico, il cui obiettivo di ricerca riguardi i temi della legalità e della lotta al crimine organizzato. Il progetto, sempre di durata compresa fra i 6 e i 9 mesi, potrà anche qui svolgersi nell’università prescelta dal candidato previa lettera d’invito da parte del campus stesso. E l’entità della borsa (da 9 a 12 mila dollari) dipenderà come di consueto dalla durata del soggiorno. Per candidarsi a questa borsa - con le stesse modalità descritte in precedenza - c’è tempo fino al 29 gennaio 2016.Uscirà a maggio 2016, infine, il bando per le borse di studio del Fulbright – Foreign Language Teaching Assistant Program, destinato a giovani insegnanti di inglese o a laureati che si stiano specializzando per diventare insegnanti, che vogliano fare un’esperienza di lettorato (assistendo docenti americani nell’insegnamento della lingua italiana o tenendo un proprio corso) in un college americano. Lo scorso anno le borse messe a bando furono quattro e anche per il prossimo, anticipa Zanini, «il numero sarà più o meno quello». Chi se la sente, e ha i requisiti giusti, può provarci: e sperare di poter vivere «lo “spirito Fulbright”», diventando anche un po' «ambasciatore del proprio Paese in America», come raccontava qualche tempo fa alla Repubblica degli Stagisti la veterinaria ed ex borsista Laura Cavicchioli. In bocca al lupo!Sara Grattoggi

A Roma tornano i makers. E Italia Lavoro ha deciso di premiarli

Stampano in 3D e programmano schede Arduino: sono i maker, gli artigiani digitali che stanno riscrivendo le regole dell'innovazione. I migliori a livello italiano si ritroveranno dal 16 al 18 ottobre alla Maker Faire di Roma. E per loro Italia Lavoro lancia una sfida: realizzare un prodotto che rappresenti al meglio le “Botteghe di mestiere e dell'innovazione”, iniziativa rivolta ai giovani disoccupati.Si svolgerà dunque questo fine settimana la seconda edizione della Maker Fair Roma, versione europea della manifestazione lanciata nel 2006 negli Stati Uniti dalla rivista Maker. Ospitata dall'università La Sapienza di Roma in uno spazio di oltre 15mila metri quadrati, metterà in mostra oltre 700 invenzioni presentate da più di 600 espositori, selezionati tra gli oltre 1.300 che hanno aderito alla Call for Makers: il bando, chiuso a metà giugno, ha permesso di selezionare i partecipanti. L'iniziativa è stata promossa da Asset Camera, azienda speciale della Camera di Commercio di Roma, e fortemente voluta da Massimo Banzi, ideatore della scheda di programmazione Arduino, e dal Digital Champion Riccardo Luna. Il tutto condito da un ricco programma di workshop e seminari e da un'area riservata ai più piccoli, dove bambini e bambine dai 5 anni in su potranno imparare a programmare.In una fiera dedicata all'innovazione non poteva mancare uno spazio dedicato ai droni. E infatti è stata allestita una voliera alta 22 metri che copre una superficie di 300 metri quadrati all'interno del quale i modelli ideati dai maker italiani potranno mostrare le loro capacità. Per non parlare del padiglione dedicato al cibo e all'agricoltura, dove sarà possibile stampare una crepe in 3D, bere un cocktail preparato da un robot e coltivare piante aromatiche in un orto verticale. Ma alla Maker Faire ci saranno anche i ragazzi selezionati tra gli oltre cento istituti tecnici che hanno partecipato alla Call for Schools. Sono trenta gli stand all'interno del quale questi giovani artigiani digitali potranno presentare i progetti che hanno ideato e realizzato durante l'orario scolastico. Accanto a loro università e centri di ricerca, anche loro pronti ad illustrare le loro idee per declinare l'innovazione.Protagonista di questa edizione sarà anche Italia Lavoro. Già lo scorso anno la società controllata dal ministero dell'Economia e delle Finanze aveva iniziato a sostenere il movimento Makers, presentando un manifesto in dieci punti, un documento che indicava le azioni che IL intendeva mettere in campo per sostenere l'occupazione giovanile attraverso l'artigianato digitale. In occasione della Maker Faire di quest'anno, la società controllata dal Mef ha indetto un concorso dal titolo “Una sfida per i makers”. Entro dopodomani, mercoledì 14 ottobre, gli artigiani possono inviare una loro idea per realizzare un gadget che racconti l'esperienza “Botteghe di mestiere e dell'innovazione”, un bando per l'inserimento di giovani disoccupati in azienda attraverso tirocini formativi che nella sua prima edizione ha coinvolto più di 2mila aziende riunite in 140 botteghe e ha permesso a 3.300 ragazzi e ragazze di effettuare uno stage.Il concorso mette a disposizione complessivamente 38mila euro, risorse che serviranno a finanziare la produzione dei gadget che risulteranno vincitori. La giuria terrà conto in modo particolare di quei progetti che rispetteranno i principi di autosostenibilità, prevederanno l'impiego di materiali riciclabili e di tecnologie innovative che abbraccino tutto il processo produttivo, dalla fase di progettazione a quella di commercializzazione. Un'attenzione verso il mondo makers che non si esaurisce qui: sta infatti per partire la seconda edizione di Botteghe di mestiere. Bando che questa volta prevederà dei meccanismi di premialità per quelle aggregazioni di imprese che parteciperanno garantendo attenzione al mondo dell'innovazione. Ad esempio coinvolgendo quelle realtà come i Fablab, così si chiamano le officine digitali, capaci di aggiungere know how alle aziende. E facendo così da cinghia di trasmissione dell'innovazione nel mercato del lavoro.Riccardo Saporiti 

Ancora ritardi nei pagamenti agli stagisti di Garanzia Giovani in Lazio: «Ma ora abbiamo un accordo con l'Inps» assicura l'assessore

Ritardi nei pagamenti, conguagli non pervenuti e dubbi sulle procedure di lavorazione delle pratiche. Sono alcuni dei nodi di Garanzia Giovani segnalati anche in questi ultimi mesi dai tirocinanti del Lazio, che già quest'estate avevano manifestato sotto la Regione. La Repubblica degli Stagisti ha quindi sottoposto all’assessore al Lavoro della regione Lazio le criticità e le richieste di chiarimento arrivate dai ragazzi.«Ho iniziato il mio tirocinio a aprile in un’azienda informatica a Roma» racconta ad esempio il 26enne Fabrizio «e nonostante avessi inviato tempestivamente i documenti e i dati per il pagamento, solo a fine agosto ho ricevuto l’indennità del primo bimestre. Mentre per quella del secondo sto ancora aspettando». «La situazione è caotica» prosegue Fabrizio «perché noi ragazzi non riusciamo a capire quali siano i criteri con cui la Regione inserisce o meno un tirocinante in una certa determina per il pagamento [erogato dall’Inps, ndr]: ci sono persone a cui i rimborsi di un tale bimestre vengono erogati prima, mentre altri ragazzi ancora attendono il pagamento del bimestre precedente e c’è chi non ha ancora ricevuto un euro pur avendo finito il tirocinio. Inoltre, da giugno la Regione ha aumentato i rimborsi, che sulla carta sono passati da 400 a 500 euro. Ma sia chi ha cominciato il tirocinio prima di giugno, sia chi lo ha cominciato dopo, continua a percepire solo 400 euro al mese, 800 a bimestre, e nessuno finora ha saputo dirci quando e con che modalità riceveremo il resto».Per fare il punto sulla situazione, la Repubblica degli Stagisti ha incontrato l’assessore regionale al Lavoro del Lazio, Lucia Valente [nella foto a sinistra], che a giugno – viste le tantissime segnalazioni di arretrati non pagati – aveva istituito una task force per «velocizzare il più possibile le procedure». «Effettivamente c’era un grosso problema, dovuto al boom di richieste e attivazioni di tirocini registrato in pochissimi mesi » ammette Valente. Ad oggi quelli partiti dall’inizio del programma sono 13mila: «La procedura è complessa e prevede molti controlli oltre a una precisa rendicontazione, quindi abbiamo creato una task force con dieci persone che si è occupata prima di tutto di ammortizzare i ritardi. Ora questa fase si sta chiudendo e stiamo lavorando sul flusso». «Ad oggi abbiamo maturato 14mila richieste di pagamenti dall’inizio del programma» prosegue l’assessore: ogni ragazzo nel corso del tirocinio semestrale ne deve infatti inviare tre, una per bimestre: «di queste 14mila, 10 mila erano corrette e complete e ne abbiamo saldate 9mila. Stiamo lavorando a pieno regime: stacchiamo determine per i pagamenti ogni settimana e il flusso su cui lavoriamo è di 3 mila indennità al mese».Ma quali sono i criteri con cui un ragazzo viene inserito o meno in una certa determina? «Il criterio è cronologico, in funzione dell’arrivo delle richieste di pagamento» assicura alla Repubblica degli Stagisti Silvia Stracqualursi, responsabile della task force per l’assessorato «se alcuni bimestri precedenti risultano non pagati, si vede che la documentazione inviata era errata o incompleta». Proprio questa, secondo Stracqualursi, sarebbe la ragione principale dei ritardi nei pagamenti riscontrati dai tirocinanti: «Molte pratiche nei mesi scorsi ci arrivavano incomplete: con documenti mancanti o errori nella compilazione. Sulle 14mila richieste di pagamento arrivate finora, lo erano ben 4mila». Molte volte nemmeno per colpa dei ragazzi: «Spesso i datori di lavoro, ad esempio, si dimenticano di inviarci la comunicazione obbligatoria di attivazione del tirocinio, forse perché credono non sia necessaria, in quanto non si tratta di un vero e proprio lavoro» spiega Stracqualursi alla Repubblica degli Stagisti. Anche per questo, considerando la mole e la complessità della documentazione richiesta, da luglio l’assessorato ha chiesto agli enti promotori che siano loro (e non più i tirocinanti) a compilare e inviare i moduli: «Se prima le pratiche incomplete erano circa il 30%, ora sono scese al 4%» spiega Valente.Si cercherà così di ottimizzare anche la comunicazione, un altro dei problemi segnalati dai ragazzi. Ad esempio, dopo aver terminato il tirocinio in un’azienda di Tarquinia che si occupa di riciclaggio dei materiali, senza aver ricevuto un euro in 6 mesi, il 27enne Raffaele ha scoperto solo pochi giorni fa che le sue pratiche non erano state lavorate «perché ci volevano i documenti originali e non bastavano le scansioni via email. Ma la cosa assurda è che in 6 mesi nessuno mi aveva contattato per segnalarmi il problema. E se non fossi stato io a contattare diverse volte la Regione per avere spiegazioni sui ritardi, probabilmente avrei continuato a aspettare invano». Per monitorare meglio le pratiche e gli eventuali problemi, e poterli segnalare tempestivamente ai tirocinanti o agli enti erogatori,  «da quest’estate abbiamo implementato il nostro sistema informatico “Tirocini online”» spiega Stracqualursi «in modo da avere un elenco aggiornato dell’inevaso e delle eventuali criticità legate a ciascuna pratica».La Repubblica degli Stagisti ha chiesto all’assessore Valente chiarimenti anche sui tempi e le modalità di pagamento delle indennità “aggiuntive”: i 100 euro mensili in più, previsti da giugno ma non ancora arrivati a nessun tirocinante. «La ragione per cui non abbiamo potuto pagarle subito è che la normativa antiriciclaggio che limita l’uso dei contanti impedisce di ritirare mille o più euro al mese alla Posta in un’unica soluzione». Nel Lazio infatti, secondo quanto prevede il bando Garanzia Giovani, l’indennità è rimborsata al tirocinante tramite l’Inps a mezzo di bonifico domiciliato presso Poste Italiane: «facendo pagamenti bimestrali da 500 euro al mese avremmo raggiunto i mille euro» spiega Valente. La soluzione trovata per i tirocini in corso, «dopo un accordo raggiunto con l’Inps, sarà quella di mantenere la rendicontazione bimestrale, ma di pagare i ragazzi con due distinti bonifici, uno per ciascun mese, che si potranno ritirare a un giorno di distanza» annuncia Valente alla Repubblica degli Stagisti. Già dalle prossime determine – assicura l’assessore – «si userà questo metodo».Resta però il problema dei ragazzi che hanno già terminato il tirocinio e devono ricevere un conguaglio da 600 euro. «Finora il sistema informatico dell’Inps non accettava l’integrazione dell’indennità, perché risultava che i ragazzi avessero già ricevuto pagamenti per tutti i bimestri di tirocinio effettuati. Ma, come dicevo, abbiamo raggiunto un accordo» conclude Valente «e ora il loro sistema informatico dovrà essere modificato per consentire il pagamento del conguaglio».Sara Grattoggi 

Blocco aliquota Inps e regime dei minimi illimitato: la road map del Colap per il lavoro autonomo

Ultima ruota del carro delle riforme in materia di occupazione e grande escluso dal Jobs Act: è il lavoro autonomo, uno dei comparti più dimenticati dalle politiche dei recenti governi. Proliferano così le iniziative delle associazioni di categoria a sua tutela e Colap (coordinamento libere associazioni professionali, che riunisce circa 200 sigle e più di 300mila iscritti, dai consulenti ai designer di interni) è una di queste. Con una serie di eventi che culmineranno in una presentazione a novembre (l'appuntamento è per il 23 a Roma), sta portando all'attenzione dell'esecutivo temi centrali per il settore: uno dei tavoli è per esempio al ministero della Sanità, per la regolamentazione delle professioni sanitarie. Si parte da un punto: i liberi professionisti hanno introiti sempre più risicati. «I redditi medi delle partite Iva afferenti alla Gestione separata dell'Inps si sono ridotti nel 2013 del 13,3% rispetto al 2012, passando da un lordo annuo di 18.257 a 15.837» si legge nel manifesto dell'associazione, una road map «per far ripartire l'Italia». E nonostante questi numeri, «la legge Fornero prevede l’innalzamento al 33% entro il 2018» ricorda alla Repubblica degli Stagisti Emiliana Alessandrucci, presidente del Colap. «Dalla legge di Stabilità del 2015 ci si attendeva il blocco, invece nulla». E il fatto che per quest'anno l'aliquota sia stata fermata al 27% non deve trarre in inganno perché «siamo ancora davanti a un provvedimento provvisorio. A fine anno saremo di nuovo davanti al rischio di vederla alzata». Fa riflettere questo scarto: con un'aliquota al 30%, «la partita Iva afferente alla Gestione separata avrebbe un reddito netto tra il 40% e il 50% inferiore a quello del lavoratore dipendente» è spiegato nel documento Colap. Secondo i calcoli dell'associazione, partendo da 12mila euro annui, «al freelance resterebbero 515 euro al mese, al dipendente 903». E oggi, «con un reddito lordo medio di 18.640 euro, il netto mensile è di euro 723, mentre con lo stesso reddito il lavoratore dipendente ottiene 1283 euro netti mensili». C'è però l'altra faccia della medaglia. Spiega Luca Caratti, esperto della Fondazione consulenti del lavoro, che le trattenute destinate all'Inps di un dipendente sono in realtà anche più elevate, solo che «Il 9,1% della retribuzione è a carico del lavoratore, mentre il datore paga ogni mese circa il 28%». Insomma, circa il 37% di quanto guadagnato dal dipendente finisce nel suo fondo pensione (ma una parte va anche a fondo disoccupazione, assegni nuclei familiari e altro). Il rischio concreto di un abbassamento dell'aliquota per i freelance è quindi di ricevere un domani un trattamento pensionistico ancora più scarso perché «l'autonomo è l'unico artefice del suo futuro pensionistico». E viste le «note resistenze agli aumenti dei compensi» sarebbe impensabile intervenire sulla rivalsa del 4% nei confronti del cliente a cui ha diritto l'autonomo.  La soluzione, propongono dal Colap, è la «divisione della Gestione separata tra professionisti a partita Iva e lavoratori parasubordinati, e il blocco dell’aliquota al 27% in via definitiva, con una riduzione per i giovani fino a 29 anni del 50% della contribuzione per fascia di reddito fino a 30mila euro». E per Caratti un'idea per poter contare su una pensione dignitosa sarebbe «consentire al lavoratore di scegliere un'altra gestione previdenziale, oltre l'Inps». Per smussare il maggiore onere contributivo, «dare poi la possibilità di dedurre le quote integrative dal reddito».  Oltre allo snodo previdenziale, al centro di tante proteste anche da parte di altre associazioni, c'è il capitolo regime dei minimi, di recente riformato. «Oggi ci troviamo davanti a due sistemi, tanto per semplificare!» osserva la Alessandrucci: «Il regime prorogato, quindi 30mila euro di fatturato e 5% di imposta mista per cinque anni, e quello dei 15mila euro di con tasso di redditività al 78% e imposta mista del 15%, senza limiti temporali». Quello che il Colap propone è invece «un regime sotto la soglia dei 30mila euro con imposta mista al 10%, senza limiti anagrafici o temporali e una decontribuzione per i primi tre anni al 50%».  La battaglia dell'associazione include anche le start up, per cui si chiede «una defiscalizzazione indiscriminata per i primi tre anni», e incentivi per la creazione di nuove imprese nelle categorie rappresentate dal Colap. «In Italia manca la cultura della professione come opportunità di occupazione, fattore di contribuzione al Pil, strumento per lo sviluppo del Paese» rilancia la Alessandrucci. Materie su cui il Colap ha aperto un tavolo al ministero dello Sviluppo economico: «Stiamo verificando insieme gli spazi per il microcredito, il finanziamento alle start up professionali e i tutoraggi». C'è poi la richiesta di «semplificazione dei centri per l’impiego, per garantire un più efficace orientamento al lavoro, in particolare per i giovani». Servono «maggiori sinergie tra associazioni, cpi e università per promuovere le professioni come opportunità occupazionali, creando punti di consulenza organizzativa e finanziaria presso cpi o privati accreditati. Oggi c’è una totale assenza di raccordo» chiosa la Alessandrucci. Le speranze di arrivare a queste misure di sostegno ci sono: «Voci di corridoio ci dicono che il governo vuole intervenire sul lavoro autonomo in maniera più strutturata». Come testimoniato dalla Repubblica degli Stagisti, l'orientamento sarebbe quello di intervenire ad esempio sulle partite Iva, stilando una lista di mestieri compatibili con tale inquadramento. Ipotesi che non piace alla Alessandrucci: «Non è questa la nostra esigenza: troppo facile archiviare il problema con un elenco, c'è già per questo la legge 4/2013 che aiuta a definire chi sono i professionisti e la legge Fornero con i suoi strumenti di verifica e controllo per stanare le false partite Iva».  Senza contare che la scadenza per ogni tipo di intervento non sembrerebbe la legge di Stabilità. «Questa intenzione ci crea qualche sospetto» dichiara la numero uno del Colap, «si rischia di rimandare ancora, lasciando i professionisti in un limbo di incertezze, costi, instabilità e futuro sempre più a rischio». Ilaria Mariotti

Se l'università al colloquio non conta più: in Inghilterra Deloitte passa ai curriculum "ciechi". E in Italia?

Dimmi da che università vieni e ti dirò che chance hai. Per lungo tempo, nel mondo del lavoro anglosassone, è stato così. Ma ora qualcosa in Gran Bretagna potrebbe cambiare: Deloitte UK, una delle principali aziende al mondo nel campo dei servizi di consulenza e revisione, ha annunciato qualche giorno fa la “rivoluzione dei curriculum ciechi”, come ha titolato il Corriere della Sera: le prossime assunzioni avverranno con curriculum in cui non saranno indicati il college o la scuola frequentati dai candidati. Questo per evitare che i selezionatori vengano influenzati troppo dalla nomea dell’università nella valutazione dei singoli e affinché privilegino altri aspetti, a cominciare dalla determinazione. Con il “contextualised recruitment”, i selezionatori avranno, infatti, a disposizione anche informazioni sul background economico e su eventuali situazioni personali particolari, così da poter valutare meglio il percorso e i risultati raggiunti a livello accademico dai candidati. Con l’obiettivo di assumere figure con caratteristiche (anche socio-economiche) diverse e di favorire la mobilità sociale, puntando tutto sul merito.Questo nel Regno Unito. Ma si tratta di una tendenza che potrebbe fare breccia anche nel nostro Paese? La Repubblica degli Stagisti lo ha chiesto direttamente a Deloitte Italia, e la risposta è no. Quantomeno per ora, da noi non è prevista l’introduzione di un nuovo protocollo “blind”, analogo a quello inglese. Anche se l’ufficio stampa assicura che «Deloitte orienta la sua ricerca di talenti a profili che possano vantare un percorso universitario di comprovato livello, con alte votazioni, in qualsiasi ateneo italiano». L'indicazione dell'università di provenienza dunque continuerà ad essere presente nei cv che verranno valutati dall'ufficio Risorse umane di Deloitte Italia: «Il merito è importante per noi: nel processo di selezione contano molto, oltre alla formazione, le caratteristiche e le attitudini personali. Il candidato ideale deve essere pronto a raccogliere le sfide dell’innovazione, a investire sulla propria crescita professionale, a rapportarsi con i nostri clienti in un’epoca di grandi trasformazioni».«In Italia non mi risulta ci siano, per ora, casi simili a quello di Deloitte UK» spiega alla Repubblica degli Stagisti Francesco Ferrante [nella foto a sinistra], professore di Economia politica alla Luiss di Roma e all’università di Cassino e curatore delle indagini del consorzio interuniversitario AlmaLaurea. Che aggiunge: «Da quanto emerge dalle nostre indagini, le imprese italiane non danno un peso significativo nell’attività di reclutamento all’università di provenienza dei candidati. Preferiscono affidarsi ad altri elementi: le conoscenze che il candidato ha del settore in cui andrà ad operare, le eventuali esperienze di lavoro pregresse, la conoscenza delle lingue e il possesso delle soft skills. Ad esempio, la capacità di adattarsi, di prendere decisioni e di affrontare i problemi con atteggiamento proattivo».Un’analisi condivisa anche da Roberto Torrini [nella foto a destra], economista del lavoro e direttore dell’Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca: «Negli ultimi anni, molta letteratura ha dimostrato come le variabili non osservabili – come la motivazione o delle skills particolari – contino di più rispetto ai titoli che nel passato. E che i datori di lavoro italiani non tengano particolarmente conto, nella selezione, dell’università frequentata dai candidati. Questo anche perché in Italia la formazione data dalle università è molto più omogenea rispetto a quella dei Paesi anglosassoni».Nonostante ciò, l'impressione che si possa essere discriminati nelle selezioni di lavoro a seconda dell'ateneo dove si è studiato, e che una laurea alla Bocconi o al Politecnico di Torino valga più di una laurea all'università di di Macerata o del Piemonte orientale, è molto radicata nei giovani italiani. A fronte di questo, però, c'è un fenomeno per così dire “uguale e contrario": solitamente chi proviene da atenei meno blasonati può contare però su una manica larga al momento del voto di laurea: e un voto alto diventa un vantaggio nelle selezioni per il pubblico impiego. Perché se gli atenei prestigiosi possono pesare nelle selezioni del personale nel campo privato, nel pubblico invece chi riesce a ottenere un 110 e lode in un'università meno selettiva passa davanti, di diritto, a chi ha studiato in un'università meno incline a erogare voti alti, e dove magari lo stesso studente non avrebbe ottenuto un punteggio così elevato.Su questa linea di pensiero, l’estate scorsa un emendamento al disegno di legge di riforma della Pubblica amministrazione (subito ritirato, sull’onda delle polemiche e della levata di scudi di rettori, studenti e sindacati) aveva ipotizzato almeno per i concorsi pubblici il “superamento del mero voto minimo di laurea quale requisito per l’accesso ai concorsi e possibilità di valutarlo in rapporto a fattori inerenti all’istituzione che lo ha assegnato e al voto medio di classi omogenee di studenti”. L’ipotesi era, cioè, quella di “pesare” il voto di laurea a seconda dell’ateneo in cui era stato conseguito. Portando, di fatto, a attribuire un valore diverso alle varie università e ai titoli da loro rilasciati (più basso se le medie di un ateneo erano molto alte e viceversa). Una proposta di segno opposto rispetto ai “cv ciechi”. I cui «forti limiti» erano stati posti in luce anche da AlmaLaurea perché «posto che si ritenga opportuno intervenire, anche se appaiono esservi differenze nei metri di giudizio tra diverse realtà universitarie, sarebbe molto complicato sul piano metodologico procedere alla pesatura dei voti» sostiene Ferrante: «Qualunque soluzione darebbe luogo a una valanga di ricorsi con elevata probabilità di successo».La senatrice Francesca Puglisi [nella foto a sinistra],  responsabile Scuola, università e ricerca del Partitodemocratico, nega però che l’obiettivo dell’emendamento presentato dal dem Marco Meloni fosse quello di arrivare a una “graduatoria” delle università: «Il testo dell’emendamento era stato modificato rispetto alla formulazione originaria, che voleva solo eliminare la discriminazione del voto minimo di laurea per accedere a alcuni concorsi. E, se non si può negare che esistano differenze fra le nostre università, queste non sono forse così marcate come nel Regno Unito, ognuna fa didattica e ricerca. I nostri sistemi sono diversi e non raffrontabili. Quello che dobbiamo cercare di fare adesso è sostenere la qualità dei nostri atenei continuando su una strada di rigorosa valutazione, ma allo stesso tempo eliminando quei vincoli che restringono le maglie dell’autonomia».Sara Grattoggi