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JPO Programme, 40 posti per giovani italiani nella cooperazione internazionale: lo stipendio è più di 40mila euro all'anno

Ritorna anche quest’anno il programma Giovani Funzionari delle Organizzazioni Internazionali, noto anche come programma JPO, promosso dalla Direzione generale per la Cooperazione allo sviluppo del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e l’Agenzia italiana per la Cooperazione allo sviluppo e curato dal dipartimento degli Affari economici e sociali delle Nazioni Unite (UN/DESA).  Il JPO offre a giovani italiani l’opportunità di svolgere un’esperienza formativa e professionale nelle organizzazioni internazionali per un periodo di due anni, consentendo a chi è interessato alla carriera internazionale di compiere esperienze utili per un eventuale lavoro futuro nelle stesse organizzazioni o in ambito internazionale. Termine ultimo per fare domanda il 10 dicembre 2019, esclusivamente online attraverso il sito www.undesa.it. Si parla mediamente di 40 posti disponibili, in analogia con gli anni precedenti, con retribuzione corrispondente al livello P2 dei funzionari delle Nazioni Unite, pari a 47mila dollari annui, circa 42mila euro, ai quali va aggiunto al quale deve essere aggiunto un adeguamento che varia da paese a paese a seconda del costo della vita locale. Il contratto comprende, oltre al salario, l'assicurazione medica, i contributi pensionistici e altre indennità. Requisiti necessari per l’invio della candidatura sono: data di nascita non precedente al 1 gennaio 1989 (1 gennaio 1988 per i laureati in medicina; 1 gennaio 1986 per i laureati in medicina che abbiano conseguito un diploma di specializzazione in area sanitaria); nazionalità italiana; ottima conoscenza della lingua inglese e italiana; laurea specialistica/magistrale o magistrale a ciclo unico, laurea triennale accompagnata da un master universitario. Gli organizzatori del programma fanno sapere che verranno prese in considerazione in fase di valutazione prevalentemente la conoscenza di altre lingue ufficiali delle Nazioni Unite o lingue parlate nei paesi in via di sviluppo, il possesso di ulteriori titoli accademici o corsi di formazione rilevanti, un’esperienza professionale, della durata di almeno un anno e il possesso di alcune capacità e competenze quali orientamento al cliente, lavoro di squadra, comunicazione, responsabilità, pianificazione e organizzazione del lavoro. Ma cosa consiglia e come considera questa esperienza chi l’ha vissuta o la vive sul campo? Lucia Vinti, 28enne di Perugia, ha una laurea in Economia e Gestione delle Imprese all'università Roma Tre e parecchi tirocini alle spalle. Da Roma, dopo un’esperienza nella consulenza, ha poi conosciuto il mondo delle istituzioni europee: prima un tirocinio nell’ufficio del vicedirettore generale della Commisione Europea e poi un altro, di 12 mesi, a Francoforte alla Banca Centrale Europea – che poi si è trasformato in un contratto di lavoro. A ottobre del 2018 la decisione di lasciare la Bce e partecipare al programma JPO: «Al Segretariato Onu il dipartimento di Management copre le stesse funzioni, ma su scala più larga – e con l'aggiunta della componente politico diplomatica, che è quella su cui sono più impegnata nella mia posizione attuale. Il Programma JPO permette a giovani laureati di entrare come funzionario nelle organizzazioni internazionali, con un contratto di lavoro di due o tre anni. Anche se il contratto non garantisce di per sè l’assunzione a pieno titolo alla fine del terzo anno, sicuramente ne aumenta esponenzialmente le possibilità». La prospettiva di un contratto di piu di 12 mesi e la possibilità di assunzione post-programma sono state per Lucia Vinti motivazioni forti abbastanza a convincerla ad inviare la domanda: «L'opportunità di lavorare in un Paese lontano e mettermi alla prova in un ambiente di lavoro del tutto nuovo a quello a cui ero stata abituata fino a quel momento è stata solo la ciliegina sulla torta. Al momento dell'invio della domanda non si può sapere per quale posizione, quale organizzazione o per quale duty station il tuo profilo verrà associato. Anche se in fase di candidatura non è possibilie indicare nessuna meta preferita, io speravo New York...» . E così è stato: «Alla fine sono stata selezionata per una posizione proprio a New York, al Segretariato delle Nazioni Unite. Lavoro nell'ufficio del sotto-segretario generale per il Management, a capo dei dipartimenti di Finanza e budget, risorse umane e sistemi informativi dell'Onu. Oltre a seguire qualche programma specifico relativo alle politiche del dipartimento di Management, come per esempio l'avanzamento dei programmi per l'eliminazione di molestie sessuali nel luogo di lavoro, o il Climate Action Plan per il Segretariato Onu, mi occupo di preparare note e documenti informativi per gli incontri del Sotto-Segretario Generale con Diplomatici o alti funzionari ONU. Mi sono trasferita da sola, a 27 anni, a New York. Qualche giorno di adattamento e poi è stato amore folle per la città». Vinti oggi vive in un appartamento a Manhattan, «una soluzione comoda, da sola a 10 minuti a piedi dall'ufficio», il famoso "Palazzo di vetro" «e a 15 da Central Park. Altri colleghi hanno preferito vivere a Brooklyn, che significa tempi di trasporto più lunghi in cambio di una vita più a portata d'uomo. In entrambi i casi i prezzi degli affitti sono folli, e per questo noi JPO riceviamo una rental allowance dall'ONU che copre circa un terzo del costo dell'affitto. Con gli altri ragazzi del programma siamo un gruppo molto unito: ci siamo conosciuti prima di partire per New York durante un training di due settimane a Torino, allo UN Staff College. Ognuno di noi lavora in uffici diversi, ma dopo il lavoro e soprattutto nei weekend, ci troviamo per vivere a pieno la città. D'altra parte, cerco di capire le contraddizioni di questa straordinaria metropoli, i suoi punti di forza economici e gli effetti non lineari che producono, ma questa è un'altra storia». Lucia Vinti ha qualche consiglio per quanto riguarda il procedimento di selezione dei candidati: «I colloqui per le Nazioni Unite sono normalmente “Competency based”. Questo significa che più che la conoscenza di fatti o dati, che si suppone il candidato abbia acquisito con le esperienze di lavoro pregresse, l’interesse dei selezionatori risiede piuttosto sulle capacità e attitudine dei candidati» spiega: «Normalmente le competenze oggetto della selezione sono elencate nei “Terms of Reference” della posizione e descritte dettagliattamente nella sezione “Careers” sito delle Nazioni Unite. Io ho affrontato la selezione con massima serenità: consapevole che la probabilità di essere presa era bassa, ma comunque sicura delle mie capacità e del valore delle esperienze lavorative passate».I dati confermano la concorrenza agguerrita: lo scorso anno, edizione 2018/2019, sono pervenute 3.064 candidature valide di cui 2.845 da cittadini italiani e 219 da cittadini provenienti da paesi in via di sviluppo e prioritari per la cooperazione italiana. «l livello della selezione è molto alto, inutile presentarsi per quello che non si è» conferma Vinti: «Dall'altra parte del tavolo ci sono selezionatori che sanno esattamente quello che cercano nel candidato ideale e spesso la differenza tra la persona scelta e il primo dei non selezionati è minima. Il mio consiglio per chi intende partecipare al programma è di costruire un curriculum più ricco possibile, lanciarsi in nuove esperienze e affrontare la selezione con la certezza del proprio valore». E dopo il JPO? «Mi piacerebbe rimanere nel sistema delle Nazioni Unite» confida Lucia Vinti: «magari lasciare New York e provare qualcosa di nuovo. Ginevra? Bangkok? Nairobi? Vedremo!» Dagli Stati Uniti al Kenya con Stefano Consiglio, 31 anni, una laurea magistrale in giurisprudenza e un master in diritto internazionale e tutela dei diritti umani. «Ho avuto l’onore e l’onere di essere il primo JPO dell’International Development Law Organization, IDLO. Essere il primo JPO di un’organizzazione mette una certa pressione, in quanto la tua performance fungerà da riferimento per tutti i successivi JPO. Questo primato, tuttavia, mi ha permesso di espandere gradatamente le mie funzioni, non limitandomi ai termini del contratto».Consiglio ha iniziato a lavorare per l’IDLO in Kenya a gennaio di quest'anno,  contribuendo al rafforzamento dello stato di diritto tramite progetti mirati ad avanzare l’accesso alla giustizia, la tutela dei diritti delle donne, la protezione delle risorse naturali e la facilitazione dei processi di giustizia tradizionale: «Questo lavoro ha rappresentato per me l’occasione perfetta per coniugare la mia formazione giuridica con la grande passione per lo sviluppo e l’esperienza sul campo che ho maturato lavorando per l’IFAD in Africa orientale. Il mio compito come JPO è quello di contribuire sia alla fase di ideazione e sviluppo dei progetti sia alla loro messa in opera. Svolgevo compiti molto simili quando lavoravo per l’IFAD; tuttavia, il particolare mandato dell’IDLO, l’unica organizzazione internazionale interamente dedicata a promuovere lo stato di diritto, ha trasformato radicalmente il mio lavoro». Dopo nove mesi di attività come project management per l’ufficio dell’IDLO in Kenya, il “portfolio” di Stefano Consiglio si è espanso  a tutto il continente africano: «Attualmente supporto gli uffici locali dell’IDLO in Kenya, Uganda, Liberia, Somalia e Mali». Per lui «il programma JPO rappresenta un’opportunità unica per radicare la propria presenza all’interno di un’organizzazione internazionale. Diventare staff non è una cosa semplice; i giovani che hanno una passione per lo sviluppo devono spesso affrontare lunghi periodi di precarietà, con contratti da sei o al massimo undici mesi. Questi contratti non solo rendono difficile la progettazione a medio-lungo termine, ma hanno anche un impatto negativo sulla creazione di quel senso di apparenza che tutti cerchiamo nell’ambiente di lavoro. Il programma JPO fornisce a tutti i candidati un contratto stabile di due anni, con rinnovo basato sul rendimento dopo il primo anno». Un altro aspetto positivo che Consiglio individua nel programma JPO è la particolare attenzione dedicata alla formazione: «Ci viene continuamente ripetuto che “non si dovrebbe mai smettere di studiare”, tuttavia sono poche le organizzazioni che investono significative risorse nella formazione del proprio personale. Il programma JPO mette a disposizione di ciascun partecipante un budget di 3mila dollari annui da spendere in formazione!». Senza dimenticare l'importanza del networking: «Diventare JPO significa anche entrare in una cerchia ristretta di persone che, tramite il superamento di un difficile processo di selezione, hanno dimostrato la propria preparazione e competenza. Questo gruppo di persone rappresenta un network particolarmente utile, sia per confrontarsi in itinere, sia da alimentare una volta che il programma JPO sarà giunto al termine». Anche per questo, il programma JPO è estremamente competitivo: ogni anno migliaia di persone inviano la candidatura e solamente poche decine vengono selezionate. Come fare allora per riuscire ad aggiudicarsi uno dei posti disponibili? «Per questo prima di fare l’application è importante aver lavorato nel settore di riferimento, preferibilmente tramite esperienze sul campo» risponde Stefano Consiglio: «Ricordo di aver effettuato il colloquio per la posizione da JPO mentre ero in missione in Ruanda. Questo ha rappresentato un grande vantaggio, in quanto ho potuto rispondere alle domande della commissione usando esempi specifici di attività svolte pochi giorni prima, mentre monitoravo l’andamento di un progetto finanziato dall’IFAD. Questo non vuol dire che non mi fossi preparato per il colloquio; tuttavia una preparazione solamente teorica non è sufficiente per passare il processo di selezione». Qualche consiglio? «Per la preparazione al colloquio ho trovato particolarmente utile scrivere una lista di potenziali domande, seguendo lo schema del colloquio basato sulla competenza, competency-based interview. Per ciascuna domanda ho fornito una breve descrizione del contesto, un’analisi dettagliata dell’azione da me intrapresa, un riepilogo dei risultati ottenuti e di ciò che ho imparato. Un altro elemento fondamentale in qualunque processo di selezione è l’entusiasmo. Tutti noi lavoriamo per avere una fonte di reddito, perché il lavoro è lo sbocco naturale del processo di formazione. Riflettere sui motivi che ci hanno spinto a intraprendere una carriera nello sviluppo, quale contributo vogliamo portare alla società, sono elementi chiave per trasmettere tutto il proprio entusiasmo durante il processo di selezione». Chiara Del Priore

L'Erasmus per giovani imprenditori compie dieci anni: a partire più di tutti sono (ancora una volta) gli italiani

Esiste un programma Erasmus parallelo, che non ha niente a che fare con quello tradizionale basato sullo scambio tra studenti di tutta Europa: si chiama 'Erasmus for young Entrepreneurs (Eye)' ed è rivolto a imprenditori nascenti che vogliano «imparare i segreti del mestiere da professionisti già affermati di piccole o medie imprese di un altro paese». Chi ospita si trova invece a «considerare la propria attività sotto nuovi punti di vista, a collaborare con partner stranieri e informarsi su nuovi mercati».Quest'anno si celebra il decennale del programma, segnando il primato della partecipazione degli italiani. Un record non nuovo per quanto riguarda i bandi internazionali, dove il nostro Paese si colloca quasi sempre ai primi posti per numero di candidature, complice la crisi economica. Finora «gli italiani che si sono registrati come 'new entrepreneurs' e partiti alla ricerca di opportunità all'estero dal 2009 a oggi sono stati oltre 2mila – su un totale di circa 10mila, di cui 3.500 solo negli ultimi tre anni» sottolinea Gonzalez Vera dell'Eurosportello Veneto,  una delle organizzazioni locali a cui rivolgersi per fare domanda. Dietro di noi ci sono gli spagnoli, con 1.800 partecipanti. E l'Italia è tra le prime anche come paese di destinazione per gli imprenditori esteri, collocandosi al terzo posto nelle scelte.Silvia Fiorio, avvocata 40enne di Verona, è stata tra le prime a partecipare, insieme al marito 38enne Marco Crema: «Era il 2010, una delle primissime edizioni, ne siamo venuti a conoscenza per sentito dire» racconta alla Repubblica degli Stagisti: «Mi ero laureata nel 2004 e quando sono partita ero una libera professionista, ma per le regole del programma ero considerata un'imprenditrice». La scelta cade su Bruxelles, «dove già avevo lavorato per qualche tempo». Tanto che lo studio che l'ha accolta lo ha trovato da sé: «Avevo già una mia rete di contatti, e sono finita in un ufficio che si occupava di fondi europei per l'ambiente». Marco, che nel frattempo aveva aperto uno studio per conto suo, è stato invece spedito a Madeira, «una piccola isola di pertinenza portoghese, nel mezzo dell'oceano, in uno studio internazionale».Quei mesi in Belgio e in Portogallo hanno dato i loro frutti, perché al rientro i due hanno aperto un'attività insieme, lo Studio legale Crema, che si occupa di diritto internazionale. Ed è spuntato anche qualche contatto in più: «Formammo un gruppo con altri professionisti per seguire un cliente specifico». Dell'esperienza Silvia ricorda anche le criticità: «Difficile che ti facessero lavorare sulle loro pratiche, e così è complicato creare qualcosa per il futuro se sei solo un libero professionista e non un'azienda strutturata». E poi all'epoca «il progetto era ancora in fase embrionale».Ostacoli che però scongiurano anche il rischio che il soggiorno nell'azienda estera si trasformi in una sorta di stage-sfruttamento: «Non entri nella vita della società e quella dei colleghi, sei parte dell'organico per un periodo di tempo portando lì le tue competenze, ma sei un visitatore esterno che sta a guardare». A differenziare il tutto da un tirocinio vero e proprio anche un altro dettaglio: il soggiorno di Silvia è stato spezzettato, perché la durata massima di sei mesi del progetto può essere spalmata nell'arco di un anno. Per gli spostamenti e le spese del soggiorno all'estero si è supportati a livello economico da un grant variabile a seconda dei Paesi di destinazione. Per chi viene in Italia la borsa ammonta ad esempio a 900 euro mensili.La particolarità del progetto è la sua bilateralità, perché si può sia partire alla volta di un'azienda estera sia accreditarsi come azienda ospitante. Nel primo caso ci si deve qualificare come nuovo imprenditore, quindi un soggetto che ha costuito un'impresa da meno di tre anni o «che ha un solido progetto imprenditoriale» da dimostrare nella candidatura presentando un business plan; nel secondo caso ci si presenta come imprenditore già titolare di una piccola impresa o membro di un consiglio di amministrazione.Azienda host è dal 2010 Audes Group di Alessandro Bozzoli, 42enne di Padova. Operativa nel settore dell’abbigliamento, ha finora ospitato sette nuovi imprenditori in Eye provenienti da Bulgaria, Lituania, Ungheria, Serbia, Belgio e Slovacchia, tutti tra i 20 e i 30 anni e selezionati in base a interessi affini al suo business. Chi ospita non gode di nessuna particolare agevolazione: «Ma trovo interessante ricevere giovani imprenditori provenienti da tutta Europa!» spiega Alessandro. Il motivo è duplice: per loro, che «possono vedere dal di dentro il meccanismo di funzionamento di un'azienda e hanno l'opportunità di imparare il mestiere».E per l'azienda, perché «avere una persona che proviene dall'estero è sempre un'occasione di scambio», anche «per il solo fatto che i miei 35 dipendenti abbiano la possibilità di parlare nel quotidiano un'altra lingua». Bozzoli ha al momento in sede una ragazza della Repubblica Ceca che vorebbe lanciare nel suo Paese una linea di costumi da bagno. «Viene coinvolta in progetti reali che potrebbero riguardare la sua azienda in futuro, come per esempio la campagna vendite». Beneficenza non è, specifica, «ma una forma di restituzione, perché a me da ragazzo sarebbe piaciuto avere questo tipo di opportunità».Scopo dell'operazione, spiega il bando per selezionare le organizzazioni intermediarie che gestiscono gli scambi, è infatti «rafforzare l'imprenditorialità, sviluppare una mentalità internazionale e la competitività delle pmi europee e favorire potenziali startup». Tanto che «la linea di finanziamento è diversa da quella di Erasmus+» fa sapere Gonzalez Vera. «I soldi provengono dagli investimenti per l'innovazione delle pmi», e rientrano nel mega fondo Horizon 2020 da 80 miliardi per il periodo 2014 – 2020, che riunisce tutti i finanziamenti a favore della ricerca e dell'innovazione. Per Eye 2019, sono stati stanziati per l'Italia 5 milioni e 581mila euro.Per partecipare a Eye non ci sono limiti di età, ma basta essere residente in uno dei Paesi aderenti al progetto (oltre a quelli Ue anche gli Stati Uniti e Singapore) e qualificarsi come 'new entrepreneur' oppure host. La selezione avverrà tramite «i centri di contatto locale» spiega il sito del programma, «soggetti selezionati dalla Commissione europea», ad esempio una Camera di commercio, «che valuteranno la candidatura e aiuteranno nella ricerca di un partner».Ilaria Mariotti

Tirocini in Lazio, va a regime la piattaforma digitale di monitoraggio: “una base informativa importante”

Dopo soli due anni la Regione Lazio ha aggiornato la normativa in materia di tirocini extracurriculari. La precedente risaliva all'agosto 2017: «La nuova delibera chiarisce alcuni argomenti già adottati» spiega Claudio Di Berardino, assessore regionale al lavoro e alla formazione «che tuttavia avevano mostrato alcune criticità attuative e interpretative da parte dei soggetti promotori e ospitanti». Il riferimento è alla delibera della Giunta regionale n° 576 approvata lo scorso 2 agosto. Tra le novità più rilevanti, la Regione Lazio ha aggiornato il sistema regionale per la gestione delle comunicazioni di tirocinio, con un applicativo informatico, denominato Tol – che sta per “Tirocini on line” – che favorisce l’iter amministravo per l’avvio di ogni tirocinio extra-curriculare. Ad esso accedono, tramite credenziali rilasciate dall’amministrazione, tutti i soggetti promotori previsti dalla disciplina regionale. Tali soggetti hanno infatti il compito di inserire e verificare tutti i dati del tirocinio: l’anagrafica del destinatario e le informazioni circa la sua condizione attuale sul mercato del lavoro; l’anagrafica  dell’azienda e dei tutor coinvolti; gli obiettivi formativi del tirocinio e le figure professionali di riferimento;  gli elementi organizzativi del tirocinio riguardanti la durata, la sede di svolgimento, l’indennità e le assicurazioni obbligatorie.«Il Tol è diventato un fondamentale strumento di monitoraggio statistico dei tirocini attivati sul territorio, consentendo all’amministrazione di disporre di una base informativa importante, utile per orientare gli interventi della Regione stessa nell’ambito delle politiche attive del lavoro» commenta Di Berardino: «Ad esempio per valutare l’andamento dei tirocini finanziati con il Fondo sociale europeo e con Garanzia Giovani nonché per pianificare ulteriori attività di rafforzamento».«Non possiamo che dare un giudizio positivo della normativa, in particolare riguardo l’applicativo informatico, che ci mette in condizione di avere il controllo in tempo reale sull’andamento dei tirocini» riflette Rosita Pelecca, membro della segreteria regionale Cisl con delega al mercato del lavoro: «dal numero di tirocini attivati e interrotti alla loro durata, dall’incidenza dei settori al numero di tirocini trasformati in rapporti di lavoro».E ancora, il testo rimarca che l’indennità è erogata in misura proporzionale all’effettiva partecipazione al tirocinio, su base mensile, qualora l’impegno in termini di orario previsto dal progetto formativo individuale sia inferiore, ma comunque uguale − ed è questa la novità del 2019 − o superiore al 50% rispetto a quello previsto per i lavoratori subordinati dal contratto collettivo di riferimento.Nel caso di tirocini in favore di lavoratori sospesi, cioè in cassa integrazione guadagni oppure in mobilità, e comunque percettori di forme di sostegno al reddito, l’indennità di tirocinio è corrisposta fino a concorrenza con l’indennità minima di 800 euro per il periodo coincidente con quello di fruizione del sostegno. Ciò che nella precedente delibera era previsto come facoltà, con la nuova delibera del 2019 viene prescritto come obbligo.Tra le integrazioni vi è anche l’aggiunta, tra i potenziali destinatari dello strumento del tirocinio, dei soggetti minori che abbiano assolto all’obbligo di istruzione e siano iscritti al successivo anno del secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e di formazione. In questi casi il periodo di formazione on the job ha una durata minima di un mese e una durata massima di tre mesi e può essere promosso solo da un centro per l’impiego. Viene poi puntualizzato che vi rientrano non solo coloro che svolgono attività scolastica ma anche i minorenni inseriti in percorsi di qualificazione professionale come i corsi triennali. La durata minima dei tirocini rivolti a studenti nella stagione estiva è passata da 14 giorni a un mese, mentre la durata massima resta di tre mesi. La Regione ha chiarito inoltre che tra i soggetti promotori figurano i soggetti autorizzati alla intermediazione dell’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, purché abbiano una sede operativa presente sul territorio della Regione Lazio.La Regione Lazio al momento del più recente adeguamento alle linee guida nazionali è stata un esempio virtuoso, in quanto ha deciso di innalzare il rimborso minimo per il tirocinante dai 300 euro indicati dalla Conferenza Stato-Regioni a ben 800 euro. Un segnale importante che non sembra aver dissuaso molte aziende dall’idea di ospitare tirocinanti. Se, infatti, tra il 2016 e il 2017 il numero di tirocini extracurriculari era rimasto praticamente invariato (39.750 a fronte 39.715), nel 2018 ha registrato una variazione negativa, è vero, ma pari solamente al 12 per cento, scendendo a 34.876. Un dato non certo negativo, se si considera che la Regione Lazio ha adottato l'indennità minima più alta d'Italia!«La flessione è sicuramente dovuta al “deterrente” degli 800 euro» commenta Pelecca «per il quale ci siamo battuti e che oggi funge da scrematura a monte per chi vuole sfruttare il lavoro dei tirocinanti, affinché il tirocinio sia utilizzato solo al fine di un reale inserimento lavorativo della persona».Diversa invece la visione della Regione: l’assessore Di Berardino attribuisce la flessione non tanto alla indennità mensile obbligatoria troppo alta bensì a una combinazione di fattori, quali «l’esistenza di misure formative alternative al tirocinio come il contratto di apprendistato per il quale si osserva un continuo incremento negli ultimi anni; il divieto di reiterazione dei tirocini promossi nell’ambito del programma Garanzia Giovani o comunque presso la medesima azienda; il divieto di attivazione del tirocinio in favore di destinatari che hanno conseguito una qualifica professionale e/o iscritti a un albo professionale; e la crescente sensibilizzazione degli istituti di vigilanza del lavoro sul tema dei tirocini, che consente di evitare gli abusi e il rischio di sostituire opportunisticamente  con il tirocinio con i rapporti di lavoro». Si vedrà allora quando saranno disponibili i dati del 2019 se la tendenza sarà confermata o meno.Rossella Nocca

Fuck up nights, a Milano il format che ribalta gli stereotipi su successo e fallimento

Storie di successo da manuale? Già sentite. Capitani senza paura che conoscono tutte le risposte giuste? Niente di più noioso. Sono tornate a Milano le Fuck Up Nights, format messicano nato per smontare il mito che la strada verso il successo possa essere dritta e dare fiducia a tutti quelli che hanno un sogno – imprenditoriale, artistico, di qualsiasi tipo – nel cassetto ma sono frenati dalla paura di rischiare. Della serie: cosa succede se poi non ce la faccio? Se faccio una cazzata (“fuck up” in inglese vuol dire appunto questo), cosa penseranno di me? Diventerò un fallito? Ma quale fallito. Nessuno può essere talmente bravo e fortunato da schivare tutte le buche, gli incidenti di percorso. Non ha senso arrendersi alle prime difficoltà, né tantomeno bloccarsi ancor prima di partire Ne sa qualcosa Riccarda Zezza, che dalla sua esperienza di manager mobbizzata dopo la nascita della prima figlia e poi di nuovo dopo la nascita del secondo, secondo la triste convinzione che se una professionista diventa mamma d'un tratto tutte le sue competenze e la produttività scompariranno, ha tratto la voglia per diventare imprenditrice e fondare una startup. L’ha chiamata “Maternity as a master”: la maternità è un master. L’idea è semplice, racconta Zezza al Vodafone Theatre di Lorenteggio durante la tappa lombarda del tour – a ingresso gratuito! – che tocca tutte le principali città del globo. «Tutte le abilità necessarie per tirar su un pargolo valgono quanto un paio di semestri accademici». E possono tornare utili, anzi, utilissime in azienda. Il famoso multitasking, innanzitutto; ma anche la capacità di prendersi cura di un altro essere vivente interpretando le esternazioni preverbali, le crisi di pianto. La capacità di darsi delle priorità.  “Talenti” direbbe qualcuno – un'espressione forse abusata – che sembrano mancare a molte imprese, al punto che Zezza insegna alle neomamme come sfruttare questa sorta di anno sabbatico rappresentato dalla nascita di un figlio. Anche perché in Italia una donna su quattro non rientra al lavoro dopo il parto.Maam ha appena chiuso un aumento di capitale da un milione e mezzo di euro; dà lavoro a venti persone e guarda all’estero. Dove sta il fallimento, quindi? «All’inizio non sapevo certo come creare e gestire una startup” spiega la manager, che nel 2016 è stata nominata anche Ashoka Fellow per il valore del suo modello di imprenditoria sociale innovativa: «Ma si impara solo sbagliando. Errare significa andare in giro, ed è il metodo più efficace per apprendere». E lei ha imparato in fretta. Ad esempio, a guadagnare il controllo della società, per impegnarla in un progetto di crescita. O come scegliere il partner finanziario giusto. “Il problema degli errori è solo fare in modo che non siano irreversibili” chiosa, ripensando ai passi falsi compiuti. La storia di Andrea Visconti, secondo ospite della Fuck Up Night milanese, è molto diversa. Dopo aver fondato Sinba,  pionieristica startup dei pagamenti tramite cellulare presto inserita tra le più promettenti del mondo dell’innovazione europeo, e aver ricevuto recensioni ed elogi, dopo essere apparso in televisione e sui giornali, tutto sfuma sul più bello. Per spiegare l’accaduto al figlio di due anni lo startupper torinese si inventa una storia animata, e posta il video su internet.Risultato? Il filmato diventa virale e la vita riprende a scorrere, con nuove opportunità professionali nell’ambito dello storytelling. Perché il “physique du rôle” del narratore c’è. La resilienza anche. «Il fallimento è come la pioggia nel giorno del tuo matrimonio» racconta Visconti: «Il bel tempo è ciò che sogni, ma non sempre la vita va come immagini. Allora che si fa? Meglio ballare con tua moglie sotto la pioggia, perché quello resta il giorno più bello della tua vita» suggerisce, romantico. Poi torna serio: «Spesso gli esiti delle nostre azioni dipendono da fattori esterni, che sfuggono al nostro controllo. Se leghiamo al risultato non siamo sulla strada giusta. Falliscono i progetti, non le persone» ricorda alla platea. Anche Paolo Franceschini, professione comico, esperienze a Zelig e Colorado – un po’ l’Olimpo di quel genere che in inglese si chiama stand up comedy, e che da noi definiamo cabaret – racconta un percorso simile. Sempre in procinto di arrivare in cima... ma sempre all’ultima curva, la consacrazione sfugge di mano. Il classico milanese imbruttito direbbe che “non convertiva” abbastanza, nonostante avesse (perlomeno) la fortuna di mantenersi facendo il lavoro che amava. L’insoddisfazione è dietro l’angolo. Persino la promessa sposa cambia idea a un mese dal matrimonio. Quello è il momento della svolta. Una robusta dose di autocritica. E poi la bicicletta, per superare le rimuginazioni. E, pedalata dopo pedalata, Paolo, nato nella pianeggiante Ferrara, decide di scalare a trentacinque anni suonati alcuni dei passi più impegnativi del mondo proprio in sella alla sua due ruote.«Salite ce ne sono state tante, discese anche» confessa al pubblico, composto prevalentemente da giovani adulti. «Consigli? Innanzitutto, domandarsi se stiamo seguendo la nostra strada, o quella immaginata da qualcun altro. Io stavo facendo questo errore, e infatti non arrivano mai». Poi qualcosa è cambiato. «Da tempo portavo in giro i miei spettacoli durante i miei viaggi in bici. Un giorno decido di metterne in scena uno a quasi seimila metri sull’Himalaya. Ci penso, e mi viene in mente che potrei aver stabilito un piccolo record. Ma non ne sono sicuro. Così chiedo agli specialisti del settore».Oggi, cinque anni dopo, Franceschini può mostrare orgoglioso una targa col proprio nome di fianco allo stemma della Guinness: è suo il record dello “spettacolo comico più alto del mondo”, entrato a buon diritto nel famoso annuario. Ma, primati a parte, oggi è soprattutto diventato un uomo sereno, soddisfatto nel costruirsi giorno per giorno una carriera su misura, anche se al di fuori del circuito mainstream. Morale della favola? Semplice. «Chi prova molte volte rischia di cadere, è vero. Ma ha anche l'occasione di rialzarsi spesso».La prossima Fuck Up Night è prevista a Milano per lunedì 9 dicembre al Talent Garden Calabiana,  in via Arcivescovo Calabiana. I biglietti (gratuiti) si trovano come di consueto su Eventbrite.Antonio Piemontese

Una carriera nell’Arma dei Carabinieri: ecco il bando per 626 allievi marescialli

Rinnovi all’interno delle forze dell’ordine: il decreto pubblicato a settembre prevede dodicimila nuove assunzioni e concorsi che riguardano Guardia di Finanza, Polizia, Polizia Penitenziaria, Carabinieri e Vigili del Fuoco. La prossima scadenza è il 10 novembre per partecipare al concorso per 626 allievi marescialli. Il bando non è aperto solo ai militari già appartenenti all’Arma dei Carabinieri, ma anche ai civili che devono, però, avere dei requisiti particolari: avere tra i 17 e i 26 anni, essere in possesso di un diploma di secondo grado, non essere mai stati obiettori di coscienza. L’età sale a massimo 28 anni per coloro che hanno già prestato servizio militare per una durata non inferiore alla ferma obbligatoria. Per i già appartenenti all’Arma, invece, basterà non aver superato il 30mo anno di età. Il concorso, è bene ricordarlo, non dà diritto subito a un posto di lavoro, ma consente l’accesso al decimo corso triennale che terminerà nel 2023 per allievi marescialli del ruolo ispettori dell’Arma dei Carabinieri.La domanda di partecipazione deve essere compilata esclusivamente online sul sito ufficiale dell’Arma dei Carabinieri, nell’area Concorsi. Prima di farlo, però, bisogna dotarsi delle credenziali SPID, il sistema pubblico di identità digitale, o avere una smart card di tipo conforme agli standard della Carta Nazionale dei Servizi. Per chi fosse sprovvisto di entrambi, l’opzione più semplice è richiedere le credenziali SPID che consentono l’accesso a tutti i servizi online della Pubblica amministrazione attraverso il sito attivato dall’Agenzia per l’Italia digitale. Una volta ottenute le credenziali è necessario anche dotarsi di una casella di posta certificata su cui saranno inviate le comunicazioni riguardanti il concorso. A questo punto basterà autenticarsi sul sito, compilare tutti i campi presenti e allegare una foto formato tessera.Se tutto è stato inviato correttamente, il sistema manderà una ricevuta all’indirizzo di posta elettronica indicato che dovrà essere conservata ed esibita alla presentazione della prima prova del concorso. Che ha un iter piuttosto lungo visto che è composto da ben sette fasi. Si comincia con la prova preliminare, un questionario a risposta multipla su argomenti di cultura generale, che dovrebbe svolgersi a partire dal 18 novembre 2019 dalle 10 del mattino presso il Centro Nazionale di selezione e reclutamento dell’Arma dei Carabinieri a Roma. Sul sito dei Carabinieri e del ministero della Difesa verrà comunicata ufficialmente la data della prova. I primi 2.800 candidati in classifica verranno a questo punto convocati per le prove di efficienza fisica per cui dovranno produrre tutta una serie di certificati medici, per le donne anche un test di gravidanza effettuato entro i cinque giorni precedenti la prova. Se si riceve un giudizio di idoneità si passa alla fase seguente che è quella degli accertamenti psico-fisici per l’idoneità al servizio militare come Maresciallo del ruolo Ispettori dell’Arma dei Carabinieri. I candidati saranno sottoposti a una visita medica generale e a tutta una serie di accertamenti specialistici, tra cui per le donne una visita ginecologica. Tutti quelli che otterranno il giudizio di idoneità agli accertamenti pisco fisici dovranno passare una prova scritta che si svolgerà il 26 febbraio 2020 a partire dalle 9.30, un tema svolto su argomenti estratti a sorte. Superato anche questo scoglio, restano ancora tre fasi. Si comincia con gli accertamenti attitudinali a partire dal 20 aprile 2020 e se giudicati idonei si è ammessi alla prova orale che comincerà due giorni dopo e consiste in un’interrogazione su argomenti tratti da tre tesi estratte a sorte: una riguardante la storia contemporanea e dell’arma dei carabinieri, una la geografia e una elementi di diritto costituzionale. Si chiude con la prova di lingua straniera.A questo punto i candidati ammessi al 10mo corso Allievi Marescialli cominceranno le lezioni nell’ottobre 2020 presso la Scuola Marescialli e Brigadieri dell’Arma dei Carabinieri di Firenze, all’interno della Caserma Felice Maritano, che ha una capacità per circa 2mila allievi. Qui frequentano un corso su impostazione universitaria di tre anni al termine del quale ottengono la nomina a Maresciallo. Contemporaneamente saranno iscritti a spese dell’amministrazione al corso di laurea di primo livello in Scienze giuridiche della sicurezza presso l’Università degli studi di Firenze, che sono tenuti a frequentare.Vinto il concorso, si procede all’incorporamento, ovvero al trasferimento in caserma degli allievi, disciplinato da un vero e proprio vademecum in cui si consiglia anche il numero di capi da portarsi dietro. Durante tutto il periodo della scuola, infatti, si vivrà condividendo le camerate all’interno della caserma, dove è presente anche un presidio sanitario e un servizio di assistenza spirituale.Il bando del precedente concorso per 536 futuri marescialli è stato pubblicato nel dicembre 2018 e superate tutte le fasi di selezione i nuovi allievi hanno cominciato il corso triennale proprio pochi giorni fa: il 28 ottobre. Cominciata la carriera nel corpo dei Carabinieri, con gli anni si avranno gli avanzamenti per anzianità: dopo due anni nel grado di Maresciallo si consegue quello di Maresciallo Ordinario per poi diventare Maresciallo Capo dopo sette anni. A quel punto dopo otto anni si passa a Marescialli Aiutanti, ma volendo si possono accorciare gli anni a quattro facendo degli esami. Infine, dopo otto anni in questo ruolo si consegue di diritto, se in possesso di determinati requisiti, la qualifica di Luogotenente.Di solito, attraverso il concorso pubblico viene reclutato il 70 per cento dell’organico annuale del ruolo ispettori. Una volta acquisito il titolo, oltre a svolgere compiti di carattere militare, i Marescialli del ruolo ispettori svolgono anche funzioni di sicurezza pubblica e di polizia giudiziaria e possono essere preposti al Comando di Stazione Carabinieri.Decidere di intraprendere questa carriera significa avere subito un’indipendenza economica, visto che durante i primi due anni di corso si riceve uno stipendio di 940 euro al mese e dal terzo di 1.650 euro, con incrementi in base al grado. A cui si aggiungono gli straordinari per i giorni feriali, i notturni e i festivi e una retribuzione aggiuntiva finanziata con il Fondo Efficienza Servizi Istituzionali di solito erogata nel periodo estivo che in parte sostituisce la quattordicesima di cui sono sprovvisti. Al termine del corso, il Maresciallo prenderà uno stipendio lordo di 1.850 euro a cui si aggiunge ogni mese un’indennità pensionabile di circa 750 euro introdotta nel 1984 in sostituzione dell’indennità mensile per servizio d’istituto e dell’assegno funzionale di funzione. Insomma gli introiti economici sono buoni, a questi si aggiungono gli scatti di carriera e un lavoro che continua a suscitare un discreto fascino nella collettività: tanti buoni motivi per tentare anche questa strada.  Marianna Lepore

Via dall'Italia, 128mila nuovi “expat” in un anno: il problema è che difficilmente torneranno

Scappano da un'Italia che li priva di opportunità. Il problema tuttavia non sono gli expat, perché «la mobilità in sé non è un male» si legge nell'ultimo Rapporto sugli Italiani nel mondo della Fondazione Migrantes. La questione è invece «la possibilità di scegliere di tornare» spiega la curatrice del Rapporto Delfina Licata, sociologa 42enne, alla presentazione del volume. Una strada che chi emigra non considera quasi mai. Ed è comprensibile, dal momento che altri Paesi «più lungimiranti», scrivono i ricercatori, «attirano a sé capacità e competenze, investono su di loro e le rendono fruttuose al meglio, trasformandole in protagoniste dei processi di crescita». Le migrazioni nostrane mancano al contrario di quella «circolarità» che si produce «nel continuo e proficuo scambio tra realtà nazionali tutte parimenti attraenti». Si parte insomma, e non si pensa di fare ritorno. Così il «vuoto sociale» aumenta e si stabilizza. Gli italiani espatriati nell'ultimo anno superano di nuovo quota 128mila, il che significa «che la mobilità è diventata strutturale» prosegue Licata. Si perdono persone «nel pieno della vitalità, che arricchiscono i Paesi di approdo invece che quello di partenza». Non a caso l'età dell'expat medio scende: il 40,6% ha tra i 18 e i 34 anni, mentre i giovani adulti tra i 35 e i 49 si fermano a 24,3%. Se ne va «chi ha deciso di mettere a frutto le capacità e le competenze acquisite fuori dai confini nazionali». E sceglie come destinazione Paesi percepiti come meritocratici, in cui si spera di compiere il salto: il Regno Unito nel 16% dei casi, la Germania (14) e la Francia (10).  L'altro dato è che a essere interessati dalle partenze sono non solo i single, ma anche «molti nuclei familiari giovani»: gli under 18 rappresentano un quinto del totale degli expat. E il peso di chi ha meno di dieci anni, in questa fascia che comprende solo i minorenni, è del 60%. La motivazione è che «è probabilmente più semplice decidere per un drastico cambiamento di vita quando i figli non hanno ancora raggiunto l'età scolare o frequentano i primi anni della scuola». Un elemento che si collega anche al tasso di natalità ai minimi storici e che continua a caratterizzare «il pieno inverno demografico che vive l'Italia, a cui si uniscono la bassa crescita economica e la formazione e l'istruzione inadeguate, nonostante un lieve aumento dei dati sull'occupazione». C'è poi un altro fenomeno migratorio che si svolge dentro i confini nazionali e riguarda il Meridione e il suo progressivo impoverimento. Nel dopoguerra «i flussi verso il settentrione erano costituiti prevalentemente da manodopera proveniente dalle aree rurali», ricorda lo studio, «mentre nell'ultimo decennio il 70% di chi è partito possedeva un'istruzione medio alta». Senza le sue risorse più qualificate, «il Mezzogiorno ha ridotto le proprie possibilità di sviluppo alimentando i differenziali economici con il Centro Nord», insieme a una parallela perdita economica stimata in tre miliardi di euro. Sono i siciliani a emigrare di più (il 14% degli expat), seguiti dai campani (9%) a parimerito con i lombardi (una strana vicinanza in classifica spiegata dal fatto che per i lombardi ha poco senso espatriare in altre regioni italiane, perché meno ricche della propria). È finita insomma l'era dello «stereotipo della donna meridionale prolifica» sottolinea un altro relatore della conferenza, Giuseppe Provenzano, ministro per il Sud, membro della direzione nazionale del Pd. Siamo invece passati a quello «della coppia meridionale senza figli perché senza reddito e impossibilitata a progettare». Per Provenzano «il diritto al futuro è la vera emergenza democratica del Paese».  L'altra faccia della medaglia dei barconi in arrivo quello della mobilità nostrana e che dovrebbe ricordarci che «siamo un popolo migratorio» come ha sottolineato David Sassoli, ex giornalista televisivo e oggi presidente del Parlamento europeo, intervenuto all'incontro con un videomessaggio. Il Paese dà segnali di sempre maggiore intolleranza verso gli stranieri che da noi approdano, mentre invece «dovremmo essere più lucidi perché non siamo solo un paese di arrrivo ma anche di partenza». Un'insofferenza peraltro infondata perché gli immigrati non sono così tanti come si tende a credere, anzi «sono in fase di stagnazione e il ricambio è dato solo dalle nuove nascite» ha evidenziato Licata. «Spesso poi sono le seconde generazioni a scegliere di partire e andare altrove per un progetto di vita migliore: non c'è più attrazione per l'Italia».L'estero, invece che una salvezza, dovrebbe essere «una scelta e non una necessità» conclude Licata, e «la globalizzazione dovrebbe garantire radici che non si spezzano». Sarà difficile – se non impossibile – finché le condizioni da noi resteranno immutate, «con ben cinque milioni di persone in povertà assoluta» ricorda il rapporto. E altri studi non fanno che confermare che le acque in cui navigano gli italiani non sono affatto buone. «Lo spostamento oltre confine serve a garantire uno status di classe media che si teme non possa essere sostenuto» fa presente il presidente delle Acli Roberto Rossini, citando uno studio condotto dalle sue associazioni. Qui da noi «l'avanzamento nella piramide sociale è prossimo allo zero» e inoltre si sperimenta «una “sovraeducazione”, con un titolo di studio nettamente superiore a quello necessario per essere assunti». All'estero si trovano «contratti stabili, facilità a essere reinseriti in nuovi lavori, donne con figli che raggiungono apici di occupazione al 66%» continua Rossini. Non serve chiedersi dunque perché solo il 15% degli intervistati in quello stesso studio dichiari di «desiderare un rientro in Italia». Ilaria Mariotti 

Oltre 5mila ex stagisti in enti pubblici calabresi in attesa di uno sbocco

Trovare una soluzione per i tanti tirocinanti calabresi al momento fermi in attesa di nuovi provvedimenti: all'appello di Gianluca Gallo, consigliere regionale e presidente del gruppo della Casa delle Libertà nel Consiglio regionale della Calabria, si contrappone un “muro di gomma”, almeno finora. Non si parla di un territorio facile sotto il profilo occupazionale: gli ultimi dati Istat, infatti, raccontano di una regione con il tasso di disoccupazione più alto in Italia: il 21,6 per cento, il triplo della media nazionale.  Il problema è trasversale e coinvolge tanto i giovani quanto gli adulti: negli ultimi anni si è cercato di trovare spesso soluzioni temporanee con l’attivazione di vari progetti di tirocinio. Quello che ha coinvolto più lavoratori riguardava un accordo siglato nel dicembre 2016 «tra Regione e sindacati in ordine al riutilizzo di risorse finanziarie per tirocini semestrali in favore di lavoratori già percettori dell’indennità di mobilità in deroga», spiega Gallo alla Repubblica degli Stagisti. «I tirocini per oltre 5mila persone sono partiti nel giugno 2017, impiegando risorse all’interno di Comuni e Province». Enti locali già segnati dalla precarietà e nei quali «nell’ottica della promozione delle politiche attive del lavoro, era stato proposto di intraprendere un percorso di qualificazione con la prospettiva di un accompagnamento nel mondo del lavoro». Solo sulla carta, però, perché una volta usate le risorse disponibili ed esauriti i bandi «ci si ritrova con un bagaglio di competenze da non poter spendere. Una situazione assurda» rimarca Gallo, perché «la Regione ha investito somme ingenti per formare personale che oggi lascia a spasso senza curarsi che in Comuni e Province molti servizi essenziali erano garantiti proprio da questi lavoratori».I destinatari sono ex percettori di mobilità in deroga che avevano acquisito questo “status” entro il 2014 e che hanno potuto presentare domanda. In “palio” una opportunità tirocinio con un rimborso spese mensile di 800 euro: non pochissimi, considerando che si sarebbe trattato di un'attività part-time. Gli aspiranti tirocinanti dovevano, quindi, essere disoccupati e non essere stati avviati ad altre iniziative di politiche attive per il lavoro come i tirocini presso gli uffici giudiziari, quelli del comparto Mibac e Miur. I progetti sarebbero dovuti durare sei mesi, con un monte ore massimo di venti ore settimanali. Poi nel febbraio 2018, dopo verifiche di risparmio per il fatto che i tirocini effettivamente attivati erano stati un numero inferiore al previsto, è stata consentita una proroga di altri sei mesi «in coerenza con le previsioni delle manifestazioni di interesse approvate che autorizzavano tirocini della durata massima di dodici mesi». Il tirocinio non è, però, partito subito. Soltanto a fine luglio 2018 è stato approvato definitivamente l'impegno di spesa e gli elenchi dei destinatari. Stabilendo, peraltro, che il periodo di tirocinio finanziato «sia ridotto da 12 a sei mesi, salvo la possibilità di stabilire proroghe a seguito di ulteriori stanziamenti di risorse». E si stabilisce che al tirocinante verrà corrisposta un'indennità di 500 euro lordi mensili.   Dunque, nel dicembre 2016 la Regione Calabria firma un accordo con le organizzazioni sindacali per spostare alle politiche attive del lavoro alcune risorse destinate a quelle passive. Così fondi residui per l’ex mobilità in deroga confluiscono sui tirocini negli enti locali destinati a chi aveva già percepito l’indennità della mobilità in deroga. Si aspetta l’ok del ministero e alla fine solo sei mesi dopo, nel giugno 2017, viene stilata la graduatoria e partono i tirocini. Ognuno con tempistiche diverse, visto che ogni ente pubblico doveva valutare le domande e far partire gli stage. Tra gennaio e febbraio 2018 tutti gli stage si sono conclusi, peraltro con forti ritardi nei pagamenti delle indennità; il Presidente della Regione Oliverio, visto il risparmio del budget inizialmente stanziato, aveva annunciato una proroga del tirocinio. Ma questa proroga non era partita immediatamente: l'attesa si è protratta per qualche mese. Il via libera è arrivato gli ultimi giorni del mese di luglio 2018, per uno stage di sei mesi e un’indennità mensile ridotta a 500 euro lordi. A questo punto a partire dal mese di settembre dello scorso anno, anche qui con tempistiche diverse da città a città –  basti pensare che gli stagisti assegnati al comune di Cosenza solo in questi giorni stanno terminando il loro stage – sono ripartiti i nuovi tirocini. Che, alcuni prima alcuni dopo, al termine dei sei mesi si sono conclusi. Risultato: a partire da marzo di quest’anno i partecipanti sono rimasti in balia delle decisioni politiche, senza uno stage e senza un inserimento lavorativo.Il tirocinio era stato pensato come ponte tra la precarietà della mobilità in deroga e le prospettive che si sarebbero verificate al termine del periodo formativo. Ma, come spesso capita in questi casi, un unico grande bacino aveva accomunato persone tra di loro diversissime, con l'unico comune denominatore di essere ex percettori di mobilità in deroga. La platea destinataria coinvolge i trentenni, nati a partire dagli anni Ottanta, ma anche 40enni, 50enni e, pare, perfino qualche ultra 60enne. C'è chi ha solo un diploma, chi è perito elettrotecnico, chi in tasca ha una laurea, a volte perfino un master. Per tutti l'unica offerta è un tirocinio che, ad oggi, non ha prodotto nulla. «In extremis la giunta regionale si è attivata per cercare di far partire i tirocini di inclusione sociale, che sarebbero una soluzione provvisoria, ma finirebbero per peggiorare lo stato di precarietà sconfessando il senso stesso dei tirocini: formazione per avvio al lavoro», ricorda Gallo.Infatti a inizio agosto di quest'anno la giunta ha approvato una variazione di bilancio di 28 milioni di euro per proseguire percorsi di politiche attive attraverso tirocini per soggetti inseriti nel bacino dei percettori di mobilità in deroga. Una variazione che aveva fatto dichiarare al presidente della Regione Mario Oliverio di aver trovato «risorse finanziarie per la copertura di ulteriori 12 mesi per i tirocini formativi di quasi cinquemila persone che stanno svolgendo un’esperienza interessante nei Comuni calabresi. Sarebbe necessaria una programmazione di investimenti da parte del Governo nazionale per creare nelle regioni del Sud e in Calabria opportunità di lavoro al fine di consentire che progetti di inclusione sociale messi in atto nei mesi scorsi trovino sbocchi occupazionali stabili».C’è un punto però da chiarire: la proroga promessa da Oliverio non sarebbe a norma. La legge, infatti, come più volte ricordato dalla Repubblica degli Stagisti, prevede che i tirocini non possano durare più di 12 mesi, proroghe comprese, a meno che non siano attivati in favore di disabili o altre categorie particolarmente svantaggiate. Se quindi un ente decide di prorogare uno stage non destinato ad invalidi oltre i 12 mesi, di fatto va contro la legge.Nel frattempo il bando non è stato ancora pubblicato e in ogni caso, sottolinea Gallo, aumenterebbe solo nuovi rivoli di precarietà senza prevedere alcuna luce al fondo del cammino. D’altro canto la proposta di prevedere il tirocinio come titolo preferenziale o punteggio aggiuntivo nei concorsi ha ricevuto solo silenzio da parte della Regione.Non ci sono però solo i 5mila tirocinanti impiegati negli enti locali: in Calabria ci sono numeri da record anche per gli stagisti Miur e Mibac. La Regione, infatti, aveva deciso di adottare lo strumento dei tirocini per rispondere in maniera strutturata alle urgenze poste dalla crisi occupazionale e costruire delle concrete opportunità di lavoro. Che come da sempre la Repubblica degli Stagisti ripete, è difficile  che queste concrete possibilità possano esserci all’interno di enti pubblici, dove si può entrare solo tramite concorso e dove un eventuale stage potrebbe al massimo, in seguito a provvedimenti normativi ad hoc, valere un punto sul totale post selezione.Ad oggi anche gli stagisti del comparto Mibac e Miur, entrambi impiegati dopo intese raggiunte tra la Regione e i due ministeri, si trovano a spasso. Nel primo caso si parla di circa 600 tirocinanti reclutati con un bando del maggio 2016 per un tirocinio part-time di 12 mesi presso gli uffici periferici calabresi del Mibac. Il bando era destinato ai lavoratori percettori di ammortizzatori sociali in deroga e prevedeva un impegno massimo di 20 ore settimanali per 5-6 giornate lavorative, con un’indennità mensile lorda di 400 euro per i diplomati e 600 per i laureati. «In realtà questi stage sono cominciati due anni dopo, nel marzo 2018; alla fine, anche qui tutti fermi» riassume Gallo. Non solo: viste le competenze concorrenti tra ministero e Regione, si assiste a un rimpallo continuo senza esiti: «Avevo suggerito la costituzione di un tavolo di confronto e nonostante la proposta abbia ricevuto voto favorevole di maggioranza e minoranza in Consiglio regionale, stiamo ancora aspettando».Infine ci sono altre 600 persone, lavoratori espulsi dai processi produttivi e percettori di ammortizzatori sociali in deroga o disoccupati, che rispondendo a un bando del 2016 sono stati “prestate” per dieci mesi agli istituti scolastici calabresi firmatari di apposita convenzione. I tirocinanti selezionati dovevano svolgere massimo venti ore settimanali su 5 o 6 giornate lavorative ed era riconosciuta un’indennità mensile lorda di 500 euro per chi fosse in possesso della sola licenza media e di 600 euro per chi aveva la laurea o il diploma universitario. Anche in questo caso il destino è sospeso in attesa di risposte da parte degli enti. «La giunta regionale ha alzato un muro di gomma. Decidendo di non rispondere a richieste arrivate con voto unanime anche dal Consiglio regionale: mozioni, ordini del giorno, appelli. Tutto cestinato», spiega Gallo.Nel frattempo i tirocinanti restano nel limbo, in attesa di un’eventuale proroga. E sullo sfondo resta l’uso distorto dei tirocini: usati negli ultimi anni per coprire vuoti di organico anche in enti pubblici, con miraggi di punteggi aggiuntivi o eventuali inserimenti, o come ammortizzatori sociali impropri, perdono la loro funzione iniziale. Quella di insegnare un mestiere sul campo e consentire, alla fine, di iniziare un vero e proprio lavoro.Marianna Lepore

Da studenti a insegnanti per un giorno: i ragazzi insegnano la tecnologia agli over 60

In un’epoca in cui il digitale è sempre più presente nelle vite di ognuno, sono ancora in tanti a non avere grande dimestichezza con internet e soprattutto con lo smartphone, diventato per molti il primario mezzo con cui navigare in rete. Così il Comune di Milano ha deciso di andare incontro ad alcuni over 60. Lo ha fatto aderendo alla “Code Week”, iniziativa promossa dalla Commissione europea per la diffusione dell’alfabetizzazione digitale attraverso un laboratorio che anticipa l’edizione 2020 di #StemintheCity, in collaborazione con Business Integration Partners, multinazionale di consulenza, e Fondazione Mondo Digitale. L’evento si è svolto giovedì 17 nella Sala del Consiglio di Palazzo Marino, a Milano, ha visto coinvolti sessanta cittadini milanesi over 60 che guidati da altrettanti ragazzi e ragazze delle scuole secondarie di secondo grado hanno scoperto come utilizzare al meglio il proprio smartphone. I giovani formati dalla Fondazione Mondo Digitale provenivano da tre scuole, mentre gli over 60 hanno potuto iscriversi rispondendo a degli annunci e newsletter diffusi dal Comune di Milano. «Durante il workshop sono state insegnate conoscenze basilari sull’uso dello smartphone, come per esempio l’impostazione della suoneria, l’utilizzo della rubrica o le informazioni sull’uso di internet dal cellulare», spiega alla Repubblica degli Stagisti Camilla Castaldo di BIP – Business integration partners, società di consulenza tra le principali in Europa che aderisce all’RdS network, e rispetta la Carta dei diritti dello stagista garantendo 800 euro di rimborso mensile, che sale a mille per i fuori sede, e il 90 per cento di assunti nel 2018 al termine dello stage, tutti con contratto a tempo indeterminato.L’appuntamento del Comune di Milano è stata una sorta di dimostrazione, ma questo progetto Fondazione Mondo Digitale - organizzazione non profit con l’obiettivo di promuovere la condivisione della conoscenza, l’inclusione e l’innovazione sociale, in particolare per le categorie a rischio esclusione come gli anziani, appunto, gli immigrati o i giovani disoccupati. - già lo fa in tutta Italia in collaborazione con CNA pensionati.«Abbiamo questo modello di apprendimento intergenerazionale che applichiamo dal 2003 ed è stato inventato dal nostro direttore scientifico, Alfonso Molina che è anche Ashoka Fellow», spiega Mirta Michilli, direttrice generale della Fondazione. «È un programma con cui i ragazzi allenano le competenze per la vitia, le life skills, e insegnano agli anziani a navigare in internet, usare la posta elettronica, il computer, il cellulare. Il nostro progetto va avanti da tanti anni in diverse scuole italiane e i ragazzi che vi hanno partecipato sono stati invitati dall’assessore Roberta Cocco a fare una lezione a questi anziani invitati al Comune durante la settimana della European Code Week».Inizialmente i giovani hanno insegnato ai loro studenti particolari come usare lo smartphone, poi in un secondo momento si è passati alle informazioni per la ricerca sul web, la creazione di un indirizzo di posta elettronica, l’invio di una mail, l’iscrizione al portale del Comune per richiedere certificati online. Infine i social: da Facebook a Instagram. «I giovani sono sempre entusiasti di poter insegnare a qualcuno visto che normalmente si trovano nel ruolo opposto. E anche loro fanno fatica, come gli anziani, perché con questo progetto esercitano la pazienza: una virtù molto importante, visto che capita di dover spiegare a un anziano dieci volte come configurare il wifi. Perciò spesso si crea un rapporto personale tra l’anziano e il ragazzo», spiega Michilli. «Normalmente i corsi durano 30 ore all’interno dell’alternanza scuola lavoro».Un concetto, quello della vicinanza tra le due generazioni che sottolinea anche Maura Satta Flores, responsabile comunicazione e relazioni esterne di Bip. «Viviamo in un periodo in cui le competenze digitali sono indispensabili, ma è altrettanto indispensabile non perdere di vista la componente umana», spiega Flores, «La scelta di sostenere questo ambizioso progetto, voluto e supportato dall’assessorato alla traformazione digitale e servizi civici del Comune di Milano, rappresenta per noi la corretta strada verso la valorizzazione della diversity, finalmente vissuta come una delle grandi opportunità offerte dai nostri tempi».I giovani presenti sono stati molto attivi nella partecipazione, coinvolti dalla scuola e dall’assessore Roberta Cocco. Un’iniziativa molto importante che vuole eliminare il gap tra le diverse generazioni. «Come Bip siamo molto attenti a progetti di responsabilità sociale e questo ne è un esempio», aggiunge Castaldo: «questo progetto che per noi è un importante passo avanti verso la diversity generazionale». Un appuntamento che ha una grande importanza anche in funzione dello SPID, il sistema pubblico di identità digitale.«Il linguaggio digitale aumenta spesso la distanza tra generazioni, ma ci sono occasioni in cui questa lontananza si può ridurre», ha dichiarato Beppe Sala, sindaco di Milano, passato a salutare giovani e meno giovani a Palazzo Marino. «I ragazzi formati da Fondazione Mondo Digitale hanno saputo spiegare con pazienza e allegria come fare operazioni che per loro richiedono pochi secondi. La collaborazione e il dialogo tra generazioni che ho visto instaurarsi quando sono passato a salutarli mi ha colpito».Ora l’appuntamento si sposta al 2020 per la prossima edizione di #StemintheCity, l’iniziativa del Comune di Milano per promuovere le materie STEM e diffondere una nuova cultura digitale. E continua con il lavoro della Fondazione Mondo Digitale che porta l’innovazione e la tecnologia nella società. «Lo facciamo da oltre venti anni» ricorda Michilli, «ed è diventato sempre più importante perché lo sviluppo tecnologico è sempre più veloce e c’è il rischio che gran parte della popolazione ne rimanga fuori. Perciò iniziative come questa del Comune di Milano sono molto importanti». Marianna Lepore

Al via Maker Faire 2019, fiera dell'innovazione in cui «si impara, ci si diverte e si fanno affari»

Roma e innovazione, accoppiata inconsueta per la Città Eterna, eppure «questa città sa essere altro dalla solita narrazione su turismo e buon clima, suoi asset più tradizionali» afferma Barbara Marcotulli di Innova Camera, azienda della Camera di Commercio di Roma per l'innovazione. Lo scenario è la conferenza di apertura della settima edizione di Maker Faire, fiera sulla creatività e le nuove tecnologie che apre i battenti questo fine settimana lasciando presagire un'affluenza da record se i numeri dello scorso anno verranno confermati: 105mila presenze registrate nel 2018, tanto da trasformarla nel principale evento al di fuori degli Stati Uniti dove la community delle Maker Faire ha visto la luce. E proprio a Roma ha sede per esempio Translated, startup dedicata alle traduzioni fondata da Marco Trombetti, che oggi ha tra i propri clienti anche Google e Amazon. Funziona perché, spiega Trombetti, «tradurre costa meno che generare contenuto, anche se il mondo si sta allenando per produrre macchine che lo creino». Tanto che «non so bene su quale dei due aspetti lavorare, e questo dilemma si applica a diversi campi dell'industria». Il difficile per un 'maker' è infatti stare al passo con un mondo in continua e rapidissima evoluzione come quello dell'intelligenza artificiale. E permanere sul mercato con le proprie – a volte rivoluzionarie - idee. Già agli inizi del movimento culturale dei makers, nato nel 2005 su iniziativa della rivista dedicata all'hi-tech Make fondata da Dale Dougherty nella Bay Area di San Francisco, era chiaro come «la combinazione tra ingegno e tecnologie quali Arduino e stampanti 3D», come si legge sul sito della rivista, «abbia portato l'innovazione verso la manifattura, l'ingegneria, l'industria del design e l'istruzione». Un gruppo di inventori insomma, che non si ferma al proprio genio, ma che da freak (o più correttamente geek) comincia a diventare imprenditore e a lanciare start up. E infatti alla Maker Faire, organizzata dalla Camera di Commercio di Roma, «business, education e consumer si mescolano e creano una magica alchimia: si impara, ci si diverte e si fanno affari».Il senso più profondo di Maker Faire è «far incontrare le persone di tutte le nazionalità e scambiarsi idee» spiega dal palco della convention di lancio del mega evento nel distretto 'culturale' romano, di fronte al museo Maxxi, il cofondatore Massimo Banzi. A Maker Faire si possono vedere «esempi positivi di persone che poi da lì fanno nascere carriere». Un modello che punta a ispirare, perché quello a cui si ambisce «è per esempio che una bambina visiti la fiera e tornando a casa dica di voler diventare una scienziata, e magari trovare la cura per il cancro». Cambiare il mondo in meglio, insomma, ma anche monetizzare le proprie idee. Gli esempi non mancano. Uno su tutti quello di Niccolò Gallarati, 37enne fondadore di GaraGeeks insieme al socio Davide Viganò. La Repubblica degli Stagisti lo intervistò nel lontano 2015, agli albori: oggi la startup è ben posizionata sul mercato, con il primo prodotto, una ricarica per cellulare alimentata a energia solare. Anche loro sono passati per Maker Faire: «Conoscevo la manifestazione dalla stampa statunitense» racconta Gallarati: «Visitai l'edizione del 2014 e ne rimasi folgorato: finalmente la cultura dei makers celebrata anche in Italia». Così inviarono «in extremis il nostro neonato progetto, ancora allo stadio prototipale, e fummo selezionati per il nostro stand». Fu «una sfida anche a livello logistico: trasportavamo da Varese a Roma due stazioni di ricarica a energia solare alte tre metri e pesanti cento kg l'una». I frutti non si vedono sul momento, «ma il feedback avuto da centinaia di visitatori ci ha permesso di rifinire quello che allora era un prototipo, in un prodotto oggi installato in 20 città italiane». Il che «non si è tradotto in vendite, ma ci ha aiutato a ottenere articoli sulla stampa, indispensabili per far conoscere una nuova idea». E poi c'è tutto il discorso del fare network: «Ho conosciuto persone geniali come Alessandro Ranellucci (informatico oggi nel team del governo per la Trasformazione digitale, ndr) e Cory Doctorow (autore e attivista per il Creative Commons, ndr), ma anche stretto importanti amicizie. Questo è probabilmente il più grande risultato». Tante altre, alla conferenza, le storie di innovatori di successo. Tra gli speaker Sara Krugman, designer e consulente in ambito sanitario, la cui professione è nata da un problema di salute, il diabete, contro cui combatte da bambina. E ancora Brenda Mboya, esperta di robotica impegnata in un’iniziativa per consentire ai bambini africani di approcciarsi all’intelligenza artificiale. E poi Antonio Bicchi, professore di Robotica dell'università di Pisa, e Alejandro Miguel San Martìn, ingegnere della Nasa.Fino a domenica 20 ottobre la fiera di Roma ospiterà gli stand dei 600 progetti selezionati, oltre a workshop, seminari, laboratori. «Preparatevi a un pubblico eterogeneo: molti curiosi con tante domande, tra i quali però potrebbe nascondersi un imprenditore o un potenziale cliente con cui potrebbe nascere un seguito» avverte il fondatore di GaraGeeks. Il consiglio è di «tenere traccia di tutti i contatti interessanti con i quali scambiare i biglietti da visita, per poi fare il follow-up a fiera terminata». Con un occhio sempre vigile ai social, per cui «traete vantaggio delle persone che si fermeranno per strappare un like alla vostra pagina Facebook: i social rimangono un economico mezzo di comunicazione per mantenere un contatto». L'importante è in fin dei conti tenere allenata la curiosità: questo il messaggio di Luca Parmitano che dalla Stazione spaziale internazionale ha salutato la platea della conferenza. «Io imparo ogni giorno cose nuove con esperimenti scientifici per comprendere meglio il nostro ambiente e noi stessi». Non bisogna «mai smettere di fare domande, che sono più importanti delle risposte» ha ricordato, perché «il compito di noi adulti è proprio di educare i giovani alla scoperta».  Ilaria Mariotti

I giovani vogliono più stage alle superiori, e non sognano più il posto fisso: “Roba da genitori"

Il posto fisso? Un residuo del passato. A sognarlo restano i genitori: ai figli, decisamente più pragmatici, basta uno stipendio alto per rinunciare senza troppi pensieri al tempo indeterminato. Non sorprendono i risultati del sondaggio promosso da Nestlè in collaborazione con Camera di Commercio di Milano, Monza e Lodi e presentato l'altroieri in occasione della Settimana della Formazione Professionale.La rilevazione è stata effettuata da Toluna su un campione di ottocento giovani di tutta Italia agli ultimi anni delle superiori, provenienti sopratutto da licei, ma anche da istituti tecnici e istituti professionali. Intervistati anche duecento genitori e cento docenti. Il quadro emerso fotografa gli attori coinvolti nel delicato passaggio che dalle aule degli istituti superiori conduce alle aziende o agli atenei. Un bilancio senz'altro positivo dal punto di vista della qualità percepita della formazione: tutti sono concordi nel ritenerla di buon livello, seppur con percentuali leggermente differenti – a fronte di un 78% di professori, infatti, ascoltando la campana dei genitori si scende a 71% e l'entusiasmo degli studenti si ferma a 69%.Le cose cambiano se si parla della distanza scuola-lavoro. Solo il 55% degli studenti ritiene che le superiori preparino realmente alla vita d'impresa, e anche in questo caso genitori (49%) e insegnanti (54%) confermano. Eppure quasi due teenager su tre (il 62%) hanno effettuato periodi di alternanza scuola-lavoro – vecchia denominazione di quelli che oggi sono stati ribattezzati PTCO, Percorsi per le Competente Trasversali per l'Orientamento: un dato non altissimo ma in netto miglioramento rispetto a qualche anno fa, quando ad uscire dalle aule era una sparuta minoranza. Ma se si guarda alle mansioni svolte, si scopre che il 26% è stato impiegato in compiti decisamente semplici come inserire dati nei terminali, mentre il 24% ha eseguito attività di back office – le classiche fotocopie, o la messa in ordine di archivi. Insomma, portare i ragazzi in azienda non basta: bisogna sapere quali compiti affidare loro. E che gli adolescenti siano pronti. I casi reali aiutano a comprendere. «Nella nostra esperienza c'è una differenza tra  gli adolescenti che provengono dalla formazione tecnica e chi viene da studi liceali» afferma Giacomo Piantoni, direttore Risorse Umane del Gruppo Nestlè in Italia: «Quando i primi si recano negli stabilimenti produttivi lo scambio con i capireparto è facile. Sulla base del piano predisposto in precedenza, i responsabili assegnano questa o quella mansione in cui possono rendersi utili. Con chi viene dai licei, invece, abbiamo dovuto cambiare più volte schema: probabilmente incide anche il fatto che per loro il mondo del lavoro è ancora lontano» riflette il manager: «In questo caso si sono dimostrate più utili le spiegazioni sul funzionamento generale di un'azienda». La distanza tra sistema formativo e imprenditoria spiegata in parole semplici. Attraverso il programma Nestlè Needs Youth, ricorda Piantoni, sono stati assunti più di 1.600 giovani under 30 dal 2014, mentre sono più di 6mila quelli che hanno vissuto un'esperienza in azienda. Gli adulti di domani chiedono più stage curriculari (34%) e lavori occasionali in aziende e attività commerciali (32%), mentre i genitori suggeriscono uno spettro più ampio di attività che comprenda anche incontri in aula con professionisti ed esperti di risorse umane e formazione.  Nel mercato del lavoro le imprese, mostrano i dati, richiedono soprattutto flessibilità, lavoro di gruppo, problem solving: abilità trasversali che a scuola raramente si imparano, e che pochi gli insegnanti sono pronti a trasmettere. Il salto generazionale, in questi casi, si paga caro.  Dunque per far sì che alternanza scuola-lavoro e stage non diventino semplici attestati privi di valore è fondamentale anche il ruolo dei docenti – che però, a propria volta, devono essere formati per essere in grado di formare adeguatamente. Altrimenti tutto il peso dell'onere della formazione ricade sui tutor aziendali, e non tutte le aziende hanno le spalle abbastanza grosse per far fronte a questo tipo di responsabilità. «Se grandi multinazionali dotate di uffici HR possono trovarsi in difficoltà, che dire delle piccole aziende del territorio, che spesso hanno meno di dieci dipendenti?» si chiede infatti Paola Amodeo, responsabile dell'Alternanza Scuola Lavoro per la Camera di Commercio di Milano, Monza e Lodi.  Che ha provato a metterci una pezza con un programma di formazione gratuita rivolto a quattrocento docenti. I titoli dei corsi rispecchiano l'approccio innovativo: tra gli altri, "Da professore a coach" (supportato da Nestlè), "Consapevolezza e sviluppo del potenziale", "Progettare con il business model canvas","Curriculum vitae e nuove tecniche di selezione".I percorsi durano dalle tre alle dodici ore e si svolgono presso la sede di Formaper a Milano (iscrizioni online su questo form, info qui). C'è anche un supporto economico ala realizzazione di questi percorsi, attraverso incentivi alle micro, piccole e medie imprese del territorio che dal primo gennaio 2019 hanno accolto o accoglieranno studenti. Ci sono 130mila euro a disposizione: il contributo viene proporzionato al numero di studenti ospitati e va da un minimo di 500 euro per un solo studente a un massimo di  2.500 euro per cinque studenti. Le domande, se approvate dall'istruttoria, vengono accolte secondo  l'ordine cronologico di arrivo.Sono 10mila le imprese lombarde che accolgono gli studenti, con 54mila percorsi di alternanza offerti: la parte del leone la fanno proprio le province di Milano, Monza e Lodi, che da sole rappresentano con un quarto delle aziende (2.500) i tre quarti  delle opportunità di alternanza messe a disposizione dei ragazzi (per la precisione, 40mila).Una scuola superiore in grado di fornire le basi giuste per affrontare la ricerca di un impiego è essenziale per rendere fluido il passaggio nel mondo degli adulti ed evitare che i neodiplomati vadano a ingrossare le fila dei demoralizzati. Del resto, la fiducia dei ragazzi intervistati nel mondo lavorativo è italiano è scarsa – anche per questo, probabilmente, uno su cinque vede per sé un futuro all'estero: in pole position Stati Uniti e Gran Bretagna.Antonio Piemontese