I “laureati-imprenditori” sono solo il 7 per cento del totale, ma le loro aziende sono le più vitali

Ilaria Mariotti

Ilaria Mariotti

Scritto il 01 Gen 2020 in Notizie

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La quota dei laureati che finora si è cimentata come imprenditrice è del solo 7,1 per cento per un totale di 205mila laureati. È quanto emerge da uno studio, il primo sull'argomento, presentato qualche settimana fa a Roma e realizzato da Almalaurea in collaborazione con Unioncamere. Obiettivo era indagare sull'imprenditorialità dei laureati italiani. E incrociando i dati relativi al tessuto imprenditoriale nostrano e quelli dei circa 2 milioni e 900mila laureati tra il 2004 e il 2018, le imprese fondate da laureati sono risultate essere 236mila, di cui la quasi totalità, il 96 per cento, microimprese con un fatturato inferiore ai due milioni di euro l'anno. 

«Le imprese fondate da laureati rappresentano il 3,9 per cento del totale delle imprese presenti in Italia a settembre 2019» 
recita il comunicato. Se è vero quindi che, come sottolinea Ivano Dionigi, presidente di AlmaLaurea, «è confortante sapere che i nostri laureati hanno un significativo spirito imprenditoriale», i laureati imprenditori sono mosche bianche rispetto alla platea complessiva. «Sembrerebbe quasi che la laurea disincentivi l'imprenditorialità» fa notare nel suo intervento Alberto De Toni, presidente della fondazione che riunisce i rettori italiani, la Crui.

Succede «perché i laureati vogliono capitalizzare l'investimento: hanno fatto studi costosi e lunghi» e vorrebbero da subito trovare una sistemazione. 
«Chi non ha studiato rischia meno perché ha possibilità inferiori di trovare impieghi dequalificati». Non a caso i laureati fanno impresa più tardi (oltre la metà «ha conseguito il titolo negli ultimi dieci anni, il 41,5 per cento da più di dieci anni» evidenzia lo studio), «perché preferiscono entrare in grandi gruppi aziendali per perseguire opportunità di carriera». Una volta lì «si stabiliscono nei settori più tecnici, vedono poco il mercato e non si accorgono del gap tra domanda e offerta, che è quello che fa scaturire l'idea per un'impresa».

Altra nota dolente, che ribadisce la staticità dell'ascensore sociale italiano, il dato sulle famiglie di origine dei laureati imprenditori. Rivela lo studio che «l’11,5 per cento ha un padre imprenditore
», quando «la quota scende al 4,7 per cento nella popolazione generale dei laureati». C'è poi un 39 per cento con un padre libero professionista, mentre i genitori impiegati e operai rappresentano in questo gruppo di laureati rispettivamente il 21 e il 13 per cento, contro il 29 il 19 dei laureati in generale. «Anche in questo campo, come in quello dell'orientamento, il contesto socio-economico della famiglia esercita un ruolo decisivo» rimarca Dionigi.

La buona notizia è però che le imprese fondate da lavoratori hanno il vento in poppa. Chi decide di fondare un'impresa, se ha la laurea, ha più successo e riesce a affermarsi nel lungo termine sul mercato.
 «Delle 9821 nate nel 2009» si legge nel comunicato, «dopo dieci anni è ancora attivo il 54,8 per cento, ovvero circa 5400 imprese». A livello complessivo nazionale va invece peggio, «perché delle 312mila attività lanciate nel 2009 ne resiste meno della metà, il 40,6 per cento». Ed è un peccato quindi, considerando i loro brillanti risultati, che i laurati imprenditori costituiscano una così ristretta cerchia.

La prova del nove che le aziende dei laureati godano di maggiore salute la dà anche il loro tasso di crescita, ovvero «il rapporto tra il saldo fra iscrizioni e cessazioni, per ogni anno di osservazione, e lo stock delle imprese di laureati» specifica lo studio. Un dato anche questo positivo perché la percentuale di crescita delle aziende in mano a chi possiede studi accademici risulta in aumento negli ultimi dieci anni, «passando dal 2,2 per cento del 2009 al 3,7». A livello nazionale invece diminuisce dall’1,2 allo 0,5. «Le imprese create dai laureati sono più vitali» è il commento di Marina Timoteo, direttore del consorzio Almalaurea. E lo dimostra anche la particolarità che «assumano forme giuridiche più complesse». Il report illustra infatti anche come tra le imprese fondate da laureati «la percentuale di società di capitale è cresciuta del 65 per cento, il doppio rispetto al livello nazionale».

In più, prosegue Timoteo, «queste imprese contribuiscono a creare opportunità di lavoro anche nelle aree del territorio italiano in difficoltà»: il numero maggiore di imprese a firma di un laureato si trova infatti al Sud (sono oltre quattro su dieci), mentre il 37 per cento è localizzato nel Nord e il 21 al Centro. Una ripartizione disomogenera rispetto al resto delle aziende nazionali, insediate al Settentrione per il 45 per cento. «Laurearsi in definitiva conviene» conclude Timoteo, «perché si hanno più chances di fare impresa e farla durare».

L'auspicio di Dionigi è che «la cultura imprenditoriale sia incentivata attraverso attività di orientamento e promozione di competenze che ne facilitino la diffusione». E l'università, fa eco Tiziana Pascucci del comitato scientifico di Almalaurea, «ha un disperato bisogno di queste informazioni per regolare le proprie strategie e i fondi a disposizione se l'obiettivo che abbiamo è un mondo del lavoro più attivo». Niente di più necessario per la congiuntura economica attuale del Paese.

Va detto però che «alcune tra le aziende più grandi al mondo sono state fondate da non laureati» rilancia Giuseppe Tripoli, segretario generale di Unioncamere. Quindi non solo in chi studia va riposta la speranza che sviluppi spirito imprenditoriale, ma anzi «la nostra esigenza è che tutto il sistema produttivo sia di successo perché ha un effetto moltiplicatore e fa sì che non si brucino risorse». Creare un'azienda «richiede elementi che non si esauriscono nelle conoscenza universitaria» ed è su questo che le Camere di commercio devono dare il proprio contributo ponendo le condizioni affinché nascano imprese, e durino nel tempo.

Ilaria Mariotti  

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