Categoria: Editoriali

Abolire gli stage extracurriculari: perché sarebbe giusto in teoria, perché in pratica oggi è impossibile

Lo stage si sovrappone, anzi spesso si sostituisce, al lavoro; è propedeutico perché "insegna un mestiere" ma a volte anche cannibale, quando un posto di lavoro viene occupato utilizzando uno stagista. Alcuni economisti e giuslavoristi si rendono conto di questo e inseriscono nelle loro proposte di riforma del mercato del lavoro - come ha fatto di recente Francesco Giubileo nel suo articolo «Contratto unico, solo così può funzionare» pubblicato qualche giorno fa su Linkiesta, che commentava le prime linee della bozza di Jobs Act che il Partito democratico sta per presentare - una regolamentazione più stringente dell'utilizzo dello strumento dello stage. Per esempio, vietandolo al di là di una certa soglia. Tale soglia può essere anagrafica (niente stage per persone di oltre un tot di anni - un po' quel che accade con il contratto di apprendistato, che può essere attivato solo su persone che non abbiano ancora compiuto trent'anni). Oppure la soglia può essere correlata all'ultimo percorso di studi, prevedendo che si possano attivare tirocini solo in favore di persone che abbiano concluso da meno di x mesi (12, 18, 24...) l'ultimo ciclo di istruzione.Stabilita però la soglia "equa" di un provvedimento del genere, bisogna conoscerne i probabili risultati. Anche sulla scorta dei tentativi compiuti in passato e miseramente falliti. Uno su tutti, l'articolo 11 del decreto legge 138/2011. Quell'articolo disponeva che i tirocini extracurriculari potessero essere «promossi unicamente a favore di neodiplomati o neolaureati entro e non oltre dodici mesi dal conseguimento dei relativo titolo di studio». Creò un tale caos, con una mole tanto enorme di proteste e lamentele, che dopo poche settimane - settimane! - il ministero del Lavoro, allora guidato da Maurizio Sacconi, dovette correre ai ripari con una penosa retromarcia, inventandosi attraverso una circolare una tipologia fino a quel momento inesistente di tirocini, e cioè quelli "di inserimento". Chi volesse ripercorrere quella vicenda può ritrovare tutti gli articoli che dedicammo ad essa qui. Riprendiamo il ragionamento. Il primo risultato, più evidente, che un paletto più rigido sull'attivazione di stage produrrebbe è positivo. Chiusa la possibilità di inquadrare chiunque, anche un plurilaureato, anche qualcuno con anni di esperienza di lavoro alle spalle, con uno stage (oggi è possibile, per esempio, farlo in quasi tutte le Regioni italiane attraverso la formula appunto del "tirocinio di inserimento", per il quale basta che la persona sia iscritta al centro per l'impiego e si dichiari disoccupata), il datore di lavoro interessato a un determinato candidato non avrebbe altra strada se non quella di assumerlo. Con un contratto vero. Ciò ovviamente andrebbe a tutto vantaggio della persona che cerca lavoro, che in questa situazione "scamperebbe" uno stage e otterrebbe invece un contratto con tutti i crismi, la retribuzione, la contribuzione e tutto il resto.Eppure vi sono almeno due effetti collaterali che possono verificarsi e vanificare l'effetto positivo del "blocco". Il primo è il rischio di un aumento del lavoro nero. Poiché il costo del lavoro è particolarmente alto in Italia, assumere con tutti i crismi potrebbe essere considerato troppo costoso: e dunque al candidato potrebbe essere proposto un lavoro in nero. Con tutte le conseguenze nefaste del caso, a cominciare dal mancato versamento dei contributi e dalla totale mancanza di protezione in caso di incidenti sul lavoro, malattia o maternità. Il secondo effetto collaterale è che, pubblicato un annuncio, al momento di vagliare le candidature un'azienda (o un ente) scarti sistematicamente tutti i candidati il cui cv li ponesse al di fuori, per ragioni anagrafiche o altro, dalla possibilità di essere inquadrati come stagisti. Se la legge cioè introducesse il divieto di fare stage oltre i trent'anni, si rischierebbe che tutti i cv degli over 30 venissero cestinati a prescindere, in una logica di utilizzo dello strumento dello stage posto come interesse primario e superiore anche alla scelta del profilo effettivamente i migliore per la posizione da coprire.Su questo secondo effetto collaterale, o meglio sul terrore che esso possa verificarsi, si innesta l'ultima tassello che completa il quadro della situazione. E cioè il fatto che siano i giovani stessi - o quantomeno la maggior parte di essi, specialmente quelli che io definisco giovani "anzianotti" e cioè tra i 25 e i 35 anni - a osteggiare l'ipotesi dell'istituzione di una soglia. La maggior parte di chi oggi cerca lavoro è infatti disponibile ad accettare qualsiasi condizione pur di riuscire a mettere un piede dentro, e di conseguenza non tollera l'ipotesi che, ponendo una soglia, alcuni possano essere avvantaggiati (nella fattispecie: i più giovani, quelli diplomati o laureati da meno tempo) e altri danneggiati. Anche perché ad essere danneggiati - vale a dire a non poter più candidarsi agli annunci di stage - sarebbero, come è intuibile, quelli già in difficoltà: cioè coloro che magari cercano un lavoro da più tempo, o ne hanno perso uno e devono ricollocarsi.Su questo, in particolare, si deve riflettere per capire appieno la situazione italiana. Vale la pena ricordare che gli stage in Italia si suddividono in due tipologie. Vi sono quelli «curriculari», svolti cioè all'interno di un percorso formativo (un corso di laurea universitario, nella maggior parte dei casi), e quelli «extracurriculari». Ovviamente nessuno propone di abolire la prima tipologia, che anzi è strategica per poter aggiungere la pratica alla teoria e dunque ottimizzare il proprio percorso di studi andando a imparare come si applicano, nel mondo del lavoro, le nozioni imparate sui libri.Tutto il dibattito relativo all'abolizione degli stage, o - nella sua forma più moderata e ragionevole - dell'imposizione di una soglia, si gioca sugli stage «extracurriculari», cioè quelli svolti una volta completato il percorso di studi. Questa tipologia è di competenza regionale, e proprio negli ultimi mesi ha visto il fiorire di tutta una serie di leggi regionali (una diversa, sic, per ogni Regione) che le hanno regolamentate alla luce degli accordi presi attraverso le linee guida concordate in sede di Conferenza Stato-Regioni esattamente un anno fa. A grandi linee si può affermare che secondo tutte le normative regionali attualmente vigenti in materia, oggi chiunque può fare uno stage. Dal primo al 365esimo giorno dal momento della fine della sua formazione potrà fare «stage extracurriculari di formazione e orientamento», dal 366esimo giorno in poi potrà fare «stage extracurriculari di inserimento/reinserimento lavorativo». Solo il nome cambia. L'unica differenza di rilievo è che per la seconda tipologia vi è un requisito in più, cioè essere iscritti al centro per l'impiego come «disoccupati» o «inoccupati»: requisito comunque semplicissimo da ottemperare.Porre una soglia significherebbe scegliere di agire sugli stage extracurriculari, in maniera drastica e cioè abolendoli - e lasciando in essere solo quelli curriculari - oppure in maniera soft e cioè ponendo una soglia, che come si diceva prima potrebbe essere quella dei primi 12, o 18, o 24 mesi dalla conclusione dell'ultimo ciclo di istruzione compiuto.Personalmente, penso che sarebbe giusta questa seconda strada, per stringere le maglie e impedire l'abuso - ormai endemico - dello strumento dello stage. Ma penso anche che non sia questo il momento giusto per farlo. Siamo in crisi dal 2009. Cinque anni in cui si sono persi posti di lavoro, in cui la disoccupazione è aumentata a vista d'occhio, in cui si sono ingrossate le fila degli scoraggiati che non studiano e non cercano lavoro e specularmente di coloro che decidono di andare a cercare fortuna all'estero, non tanto per libera scelta quanto per totale assenza di prospettive a casa propria. Cinque anni in cui tanti giovani si sono scontrati con un muro di gomma, in cui hanno avuto accesso a poche opportunità di ingresso nel mercato del lavoro e quasi tutte al ribasso, attraverso stage o contratti precari e sopratutto di breve durata. Questo ha prodotto, specialmente per chi ha concluso i suoi studi tra il 2007 e il 2011-2012, una situazione di oggettivo svantaggio: una intera generazione, oggi intorno ai trent'anni, che si è trovata alle soglie del mercato del lavoro nel momento più sfortunato degli ultimi decenni.Scegliere di vietare gli stage per chi si sia diplomato o laureato da oltre un tot scaricherebbe un peso insostenibile sulle loro spalle. La loro situazione, già difficile per il fatto di avere più anni dei candidati con i quali si trovano a competere nei colloqui di lavoro (ai selezionatori di solito piace scegliere, tra due candidati equivalenti, quello più giovane), e per il fatto che con il passare del tempo le competenze si "usurano" e invecchiano, diventerebbe pressoché senza uscita, o quantomeno così verrebbe da loro percepita. Perché di fatto si troverebbero ad essere esclusi, per legge, dalla stragrande maggioranza delle offerte per profili "junior", quelle attraverso cui la maggior parte delle imprese assume le new entry.Dunque pensare di porre un limite all'utilizzo degli stage è giusto, ma non è assolutamente questo il momento di farlo. Attendiamo di uscire finalmente da questa dolorosa crisi. Attendiamo che i dati sulla disoccupazione scendano, tenendo d'occhio sopratutto la fascia 25-34enni. Attendiamo anche che le nuove leggi regionali sugli stage extracurriculari producano gli effetti attesi (che attenzione, non si potranno cominciare a vedere e analizzare prima del 2015). Attendiamo tutto questo, tenendo nel frattempo gli occhi bene aperti sull'utilizzo di questo strumento e agendo con controlli a monte e ispezioni a valle per verificare che non si perpetrino abusi. E poi, quando l'Italia sarà di nuovo un paese normale, potremo permetterci di introdurre una soglia che renda normale e saggia anche la "tempistica" degli stage.Nel frattempo comunque ci sono tante cose che si possono fare. Per esempio serve subito, in tema di stage curriculari, una nuova regolamentazione che colmi la vacatio legis: in questo senso va il nostro appello al ministro Maria Chiara Carrozza. Essenziale sarebbe infatti introdurre un compenso minimo anche per questa tipologia di tirocini, in modo che non diventino i concorrenti sleali, più convenienti e dunque più allettanti, di quelli extracurrulari. E altrettanto urgente, e di immediata fattibilità, potrebbe essere un accordo in sede di Conferenza Stato-Regioni per apportare una miglioria alle nuove leggi regionali, vietando completamente gli stage per mansioni di basso profilo - o riducendone in maniera drastica la durata massima. Così da evitare casi inaccettabili come gli stage per camerieri, lavapiatti, benzinai, commessi, o addirittura braccianti agricoli.C'è già tanto da fare per arginare le falle più macroscopiche. Evitiamo tagli eccessivi, che rischierebbero di portare - per come stanno oggi le cose - per i giovani (specie quelli anzianotti) uno svantaggio peggiore del beneficio ottenuto.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Riforma del lavoro, inutile senza quella degli stage- Abolire gli stage post formazione: buona idea ministro Fornero, ma a queste condizioni- «Abolite gli stage extracurriculari nelle farmacie, rubano posti di lavoro»: l'appello del Movimento nazionale liberi farmacistiE anche:- Per rifare l'Italia bisogna partire dal lavoro e dalle retribuzioni dei giovani

Il numero non conta: ecco i tre veri indicatori per capire quali sono i "buoni stage"

Quando si parla di stage spesso si fa l'errore di considerarne l'aspetto numerico come una caratteristica di per sé positiva. Si dice «abbiamo fatto / ospitato / promosso / incentivato tanti stage» con orgoglio e quasi con vanto, come se fosse di per sé una nota di merito. In questo errore cadono anche molto spesso i politici e gli amministratori locali, quando per sottolineare il proprio impegno sul fronte dell'occupazione giovanile rimarcano il numero degli stage attivati dalle strutture da loro amministrate, magari attraverso programmi o fondi specifici. Il messaggio che si vuol far passare è che tanti stage siano immediatamente uguali a tante opportunità, e che le opportunità siano sempre una buona cosa. Il fatto che il numero degli stage attivati aumenti in un dato territorio o settore produttivo è dunque visto, nella maggior parte dei casi, come un dato "oggettivamente" positivo, da sbandierare come se fosse di per sé una prova di una buona amministrazione e gestione della sempre più problematica fase di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro.Invece, purtroppo, il numero degli stage da solo non vale nulla.  Non prova il fatto di avere messo in atto buone politiche, non prova il fatto di aver aperto ai giovani buone opportunità. Anzi.Gli stage non vanno giudicati in base al numero, bensì alla qualità. Con la Repubblica degli Stagisti da molti anni sosteniamo che senza un'attenzione forte verso la qualità, gli stage cresceranno (o, in tempo di crisi, non diminuiranno) di numero solo perché convenienti per le aziende, molto più vantaggiosi a livello economico e giuslavoristico rispetto ai contratti di lavoro. Ma continueranno a nascondere in molti casi sfruttamento, lavoro mascherato da stage, scarsa formazione. Continueranno ad essere per i giovani un "passaggio obbligato" spesso compiuto dovendo accettare condizioni-capestro e quasi sempre senza la minima prospettiva di arricchimento formativo e inserimento lavorativo.I fattori fondamentali per giudicare la qualità di uno stage, non solo secondo la Repubblica degli Stagisti ma anche secondo autorevoli addetti ai lavori, sono tre. Il primo è una buona qualità del percorso formativo, che sia prima di tutto attinente con il percorso di istruzione pregresso del tirocinante e calibrato - per durata e per mansioni - al ruolo professionale che egli va ad apprendere attraverso il tirocinio. A questa qualità sono legate indissolubilmente la presenza e competenza del tutor del soggetto ospitante, e su questa qualità deve vegliare il tutor del soggetto promotore. Senza formazione lo stage è vuoto, una scatola dai colori sgargianti che nasconde una trappola.Il secondo fattore importante è il compenso. Riconoscere attraverso una indennità il valore del tempo e dell'impegno dello stagista è il minimo per costruire un rapporto basato sul rispetto. Negare l'apporto anche economico che lo stagista, pur in formazione, porta all'ufficio pubblico o all'azienda privata che lo ospita è meschino: ed è giusto che questo apporto vada quantificato in termini economici. Su questo aspetto sono stati fatti notevoli passi avanti negli ultimi mesi: grazie al recepimento da parte delle Regioni delle linee guida concordate proprio un anno fa in sede di Conferenza Stato-Regioni, ora tutti coloro che fanno uno stage di tipologia extracurriculare (cioè al di fuori di un percorso di studi) hanno diritto a ricevere una indennità mensile, che ciascuna Regione ha fissato con proprio provvedimento, e che oscillano tra i 300 e i 600 euro minimi mensili. Restano però fuori da questa garanzia tutti gli studenti che svolgono stage curriculari: per questo la Repubblica degli Stagisti chiede da mesi che il ministero dell'Istruzione si muova per colmare la vacatio legis e per emettere un decreto che regolamenti i tirocini curriculari, prevedendo anche per questi un rimborso spese minimo. Altrimenti il rischio è che tutti i soggetti ospitanti che vogliono fare i furbi e continuare ad avere stagisti senza pagarli un euro "migrino" verso quelli curriculari, più vantaggiosi perché privi di una regolamentazione tutelante e di un obbligo di rimborso.Terzo fattore di qualità, l'effettiva e concreta prospettiva di inserimento lavorativo. Vile e ipocrita è chi dice che lo stage non ha una finalità di ingresso nel mondo del lavoro. Ce l'ha eccome; specialmente in questo disgraziato momento storico, in cui in Italia (e in tutta Europa) i giovani cercano spasmodicamente di rompere il muro di gomma della disoccupazione e riuscire a trovare un posto e uno stipendio. Spesso accettando di "cominciare" attraverso uno stage. Concreta prospettiva di inserimento ovviamente non vuol dire dare "garanzia" allo stagista che verrà assunto al termine dell'esperienza formativa. Vi sono mille fattori ignoti, al momento dell'attivazione dello stage, che impediscono che questa promessa possa essere formulata: anzi, i giovani devono sempre guardarsi bene dai millantatori, da chi promette troppo, perché solitamente sono proprio quelli che non mantengono, e che usano la carota sventolata davanti al naso per attirare i creduloni, farli sgobbare in stage per sei mesi o magari addirittura di più, e poi mandarli via e sostituirli con un nuovo stagista. Dunque, premesso che non fare promesse di assunzione è un atteggiamento che denota serietà, bisogna però dire altrettanto chiaramente che mantenere opaca la reale prospettiva occupazionale di uno stage è altrettanto scorretto. I dati raccolti a livello nazionale da Unioncamere, attraverso la sezione dell'indagine annuale Excelsior dedicata ai tirocini formativi, dimostrano che purtroppo la percentuale di assunzione media dopo lo stage in Italia è sotto al 10%. Un altro dato emerso dal rapporto McKinsey "Education to Employment" 2013, chiarisce che da noi chi fa uno stage ha solamente il 6% di probabilità in più di trovare lavoro rispetto a chi non lo fa. Il tirocinio dunque, per come è concepito e utilizzato oggi in Italia, è fortemente deficitario rispetto a questo terzo fattore, che invece è percepito come importantissimo dai giovani italiani.A questo punto è facile capire perché l'aspetto numerico degli stage, in questo quadro, sia irrilevante. Avere tanti stage, un numero in continuo aumento (come è accaduto negli anni tra il 2006 e il 2009) oppure in equilibrio (negli ultimi anni infatti il numero complessivo paradossalmente si è mantenuto stabile, a fronte del crollo del numero di contratti di lavoro), non vuol dire certamente dare tante opportunità ai giovani.Se questi tanti stage, infatti, non rispettano i tre fattori qualitativi - se sono cioè privi di contenuto formativo, o privi di una dignitosa indennità economica, o privi di potenziale sbocco lavorativo, o addirittura tutte queste cose insieme - si capisce bene che aumentarne il numero non favorisce i giovani, anzi, li danneggia. Vengono loro offerti cioè tanti stage, ma di qualità scarsa o pessima.La scelta deve essere invece improntata alla qualità, e su questo dovrebbero lavorare i politici e gli amministratori che davvero vogliono imprimere un giusto indirizzo alla loro azione sul tema dell'occupazione giovanile. Vantarsi che nella propria Regione siano stati attivati tanti stage è, in una parola, stupido. Perché se in quei tanti stage poi si annidano, come è successo e succede e come la Repubblica degli Stagisti periodicamente denuncia, tirocini come benzinai, braccianti agricoli, lavapiatti, commessi, «pulitori» cioè domestici, e se attraverso l'attivazione di questi stage fittizi si diminuiscono invece i posti di lavoro offerti sul mercato con regolari contratti, allora ci troviamo di fronte a un vero e proprio boomerang.Invece di vantarsi del numero di stage attivati, politici e amministratori dovrebbero sforzarsi di lavorare sulla qualità di questi stage e sopratutto sugli sbocchi lavorativi che essi sono e saranno in grado di assicurare. Meglio insomma meno stage, ma di migliore qualità e uno sbocco lavorativo più alto. Non è una politica facile da portare avanti, ma è l'unica seria nell'interesse dei giovani.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Stage truffa, il "tirocinante" fa le pulizie in una villa all'Olgiata e a pagare il compenso è la Regione Lazio- La Regione Sardegna promuove stage-vergogna: 10 milioni di euro per tirocini di 6 mesi come inservienti, operai, camerieri. E perfino braccianti agricoli- Il Natale risveglia la voglia di stagisti in profumerie e saloni di bellezza. Tirocini «sospetti» anche in tabaccherie e fast food- La Cgil scende in campo per stanare gli sfruttatori di stagisti con la campagna «Non + Stage Truffa»

Altro che contributi, agli stage serve una norma sui curriculari

Timeo Danaos et dona ferentes. Questa massima, reminiscenza degli anni del liceo, insegna a diffidare dei regali: in età adulta si scopre di poterla applicare spesso alla sfera professionale. Perché non è raro che dietro un apparente supporto si celi un tentativo di sabotaggio. È quel che mi è venuto in mente leggendo ieri sul Sole 24 Ore "Tirocini senza previdenza" del giuslavorista Michele Tiraboschi e della funzionaria Inps Luisa Tadini, sua dottoranda all’università di Bergamo. Tiraboschi è un professore brillante e attivo; è stato il consigliere e in pratica l'ideologo di tutte le decisioni in materia di lavoro prese da Maurizio Sacconi quando era ministro, ed è oggi anche il coordinatore del comitato scientifico dell'Adapt, l'associazione fondata da Marco Biagi - di cui Tiraboschi era un allievo - pochi anni prima di essere assassinato per promuovere studi e ricerche nell'ambito delle relazioni industriali e di lavoro.  Il fulcro dell’articolo apparso ieri sul Sole è che gli stage non danno diritto a contributi previdenziali. Si tratta di una non-notizia: non essendo contratti di lavoro, fin da quando esistono ("formalizzati" dal Pacchetto Treu) essi non hanno mai dato diritto né a contribuzione né a retribuzione. Ma nel corso dell'articolo viene citata come «novità più problematica» la (parziale) riforma degli stage avviata dalla riforma Fornero, facendo balenare l'idea che che agli stagisti potrebbero essere concessi anche i contributi, per migliorare un po' le «fragili prospettive previdenziali» dei giovani. Un lettore distratto potrebbe dire: «Gli autori vogliono introdurre una tutela aggiuntiva per gli stagisti, sarebbe giusto valorizzare gli anni di stage a livello di contributi previdenziali».Non è così: anzi direi che è l'esatto opposto. Innanzitutto il tentativo sembra piuttosto mirato a sollevare nelle aziende un moto di indignazione: «Ma come, anche i contributi adesso, già che ci costringono a dare la congrua indennità, eppure gli stagisti non sono lavoratori!». Poi si tenta di creare un nesso logico consequenziale che in realtà non esiste, tra questa (inconsistente) ipotesi di contribuzione sullo stage e la norma (questa sì esistente, appena introdotta) sull'indennità a favore degli stagisti. Attenzione: indennità, non retribuzione. Sono cose ben diverse e gli autori lo sanno. Ciò non li scoraggia dal fare un altro paragone azzardato, quello tra stage con rimborso e tra lavoro occasionale retribuito attraverso voucher.La sensazione è che il fine ultimo di Tiraboschi sia, ancora una volta, quello di mettere in dubbio la correttezza di questa innovazione normativa. Il professore è sempre stato contro gli stage con compenso: già nel 2009 dichiarava alla Repubblica degli Stagisti di sognare una regolamentazione che rendesse tutti gli stage obbligatoriamente gratuiti. Per onestà intellettuale bisogna specificare che nell'ideale di Tiraboschi gli stage dovrebbero essere solo curriculari, di pura formazione, senza intento di inserimento lavorativo, riservati agli studenti. Per dovere di cronaca occorre però aggiungere anche che nei cinque anni in cui è stato consigliere del ministro Sacconi per i temi del lavoro avrebbe potuto fare lui questa riforma, vietando per legge gli stage extracurriculari. O quantomeno perorarla mettendo le Regioni intorno a un tavolo e avanzando questa proposta. E invece non l'ha fatto.Il tentativo nell'ultimo paragrafo dell’articolo viene esplicitamente dichiarato: il professore e la dottoranda invitano a «riflettere sulla portata della "congrua indennità" riconosciuta al tirocinante», lasciando intendere poche righe dopo che essa avrà come conseguenza la contrazione dei contratti di apprendistato.Invece l'introduzione dell'obbligo di corrispondere un minimo di indennità ai tirocinanti è sacrosanta. Non comporterà un peggioramento dell'utilizzo dei contratti di apprendistato semplicemente perché questo utilizzo è già pessimo da dieci anni. Lo stage è un concorrente sleale dell'apprendistato? Certo, noi sulla Repubblica degli Stagisti lo affermiamo da anni. Con la riforma lo sarà di più? Non vi è alcun dato oggettivo che lo possa lasciar supporre. Anzi. La congrua indennità riduce il gap di convenienza. Tra pagare uno stagista zero e un apprendista mille, il 90% delle aziende sceglierà ad occhi chiusi la prima opzione. Ma tra pagarlo 400-500 euro come stagista (senza poter pretendere nulla da lui in termini di prestazioni, costanza, straordinari etc) e pagarlo mille come apprendista, istituendo un rapporto di lavoro che comporta anche per l'azienda  dei diritti, la scelta non è più così scontata. Attraverso l'articolo si instilla nel lettore il dubbio che la «congrua indennità» per i tirocini extracurriculari istituita in questi mesi sia controproducente. Quando invece è una conquista importantissima, che premia i giovani, valorizza il tempo che dedicano allo stage, e permette anche ai meno abbienti di potervi accedere (gli stage gratuiti hanno infatti il difetto di essere classisti, accessibili solo a chi ha famiglie abbienti). E che responsabilizza le aziende incentivandole a investire sui propri tirocinanti.Su una cosa concordo con Tiraboschi e Tadini: le nuove leggi regionali contrarranno un po' il numero dei tirocini extracurriculari e alcuni soggetti ospitanti "migreranno" verso quelli curriculari, pescando da università e scuole professionali. Ma chi migrerà? Con tutta probabilità quelli più tirchi, interessati a non dover sottostare ai criteri di qualità fissati dalle Regioni e a non dover erogare ai propri stagisti l’indennità minima (peraltro modestissima, tra 300 e 600 euro). Come si ferma il rischio di migrazione? Facendo al più presto una normativa ugualmente rigorosa per gli stage curriculari, attualmente in vacatio legis, istituendo - questo è l'auspicio della Repubblica degli Stagisti - anche per questa tipologia una indennità (magari un po' più bassa) per tutti i percorsi di durata superiore alle 150-200 ore. Il ministero dell'Istruzione dovrà agire il più in fretta possibile: questa è la vera emergenza. Parlare di contributi per gli stagisti appare invece come un'arma di distrazione di massa, che crea confusione e purtroppo anche false aspettative in qualche giovane.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Vietare il rimborso spese per lo stage. Lo propone Michele Tiraboschi: ecco perchè- Subito una legge statale sui tirocini curriculari: appello al ministro Carrozza- Toscana, l'assessore: «Se con le nuove leggi i tirocini diminuiscono non è un male: scompaiono quelli truffa»

Contro la disoccupazione non servono più stage, ma stage più efficaci e centri per l'impiego efficienti

Il ministro del Lavoro è preoccupato per i dati sulla disoccupazione, specialmente quella giovanile, che continuano a salire. E dunque prega le imprese di mettersi una mano sul cuore e aiutare i giovani italiani a uscire dallo stallo, come – dice – gesto di "responsabilità sociale" nei confronti del Paese. Ma come, in concreto? Giovannini chiede alle aziende una cosa precisa: di accogliere più stagisti. Fa anche un numero: 100mila stage. La notizia è stata riportata in un trafiletto sul Corriere della Sera di ieri, che dava conto anche della reazione a caldo delle imprese: «Chiediamo che per noi non ci siano nè oneri economici né burocratici: non ce li potremmo permettere».Ci sono alcuni aspetti che forse non sono ben chiari al ministro. È bene dunque passarli in rassegna, in modo che il quadro sia più nitido.Di stage, in Italia, se ne fanno già fin troppi. Oltre 300mila all'anno solo nelle imprese private – li censisce Unioncamere con l'indagine Excelsior. A questi vanno aggiunti gli stage negli enti pubblici (un numero ignoto, che secondo le stime della Repubblica degli Stagisti sta tra i 150mila e i 200mila all'anno) e quelli nelle associazioni non profit (anche qui il numero è ignoto, stimabile intorno ai 60mila all'anno). Dunque l'Italia ha già mezzo milione di stagisti all'anno.La seconda questione, strettissimamente legata all'appello di Giovannini, è la seguente: è lo stage uno strumento utile ai fini dell'occupazione giovanile? Serve cioè per trovare lavoro? Una prima risposta è che ogni stage arricchisce il curriculum di chi lo fa. Dunque, indirettamente, contribuisce a rendere più forte la candidatura qualora quella persona risponda a un annuncio di lavoro o vada a un colloquio. Ma direttamente, concretamente, lo stage è un canale privilegiato per l'accesso al lavoro? No. Vediamo perché.Escludiamo pure i tirocini svolti negli enti pubblici, dando per scontato che non siano in alcun modo finalizzati all'inserimento professionale. In queste realtà si entra tramite concorso e dunque stage o non stage bisogna aspettare che esca il bando, presentarsi e classificarsi: lo stage non ha rilevanza. Escludiamo anche gli stage nelle associazioni non profit, che si reggono perlopiù sui volontari e che agli stagisti raramente possono offrire un posto al termine dell'esperienza formativa. Dati certi anche qui non ce ne sono, ma prendiamo per buono che pure in questo caso i giovani che intraprendono esperienze di stage in queste realtà siano consapevoli della impossibilità di ottenere un inserimento lavorativo attraverso questa modalità.Resta la fetta più rilevante, sia a livello numerico sia a livello di occupabilità. Quei 300mila e passa tirocini svolti nelle imprese private. Quanto spesso si trasformano in un contratto di lavoro? La risposta è desolante. Nel 9,1% dei casi. Il dato è tratto sempre dall'indagine Unioncamere, praticamente l'unica rilevazione affidabile in materia. E non bisogna dimenticare che in questo 9,1% è compresa qualsiasi tipologia contrattuale, dunque anche assunzioni brevi, e/o con contratti atipici.Dunque, ministro. Capita che in Italia vengano già attivati più di mezzo milione di stage all'anno, di cui oltre 300mila in imprese private. E che queste imprese siano in grado di assicurare agli stagisti uno sbocco lavorativo in meno del 10% dei casi.Che senso ha, in una situazione come questa, auspicare che il numero degli stage addirittura aumenti? Se le aziende già riescono ad assumere così poco con 300mila stagisti all'anno, che succederebbe se ne accogliessero 400mila? Non è difficile prevedere che la percentuale di assunzione al termine dello stage precipiterebbe ulteriormente. Insomma, un boomerang.Un altro aspetto preoccupante delle dichiarazioni del ministro è che esse sono state fatte in una circostanza particolare: una riunione delle rappresentanze datoriali per discutere di Youth Guarantee, scrive il Corriere della Sera. La Youth Guarantee è quel progetto europeo che mira ad assicurare ai giovani senza lavoro una opportunità di qualità. Per realizzare questa iniziativa all'Italia dovrebbero arrivare tra i 400 e i 600 milioni di euro, da utilizzare nel biennio 2014-2015.È del tutto evidente che il tema principale rispetto alla Youth Guarantee è: come utilizzare questi soldi? Acquisisce un retrogusto sinistro, letta in quest'ottica, la frase delle imprese «Chiediamo che per noi non ci siano oneri economici». Perché se il governo seguisse questa richiesta, dovrebbe far fronte lui (cioè noi, la collettività) alla spesa per il compenso dei giovani in tirocinio. In soldoni, volendo garantire anche solo 400 euro al mese per 6 mesi a questi 100mila stagisti invocati da Giovannini, il costo sarebbe esorbitante: 240 milioni di euro se ne andrebbero solo per coprire tale spesa. È davvero questo il modo più efficace per spendere i denari erogati dalla Ue per la Youth Guarantee? Decisamente no. I numerosi punti critici dei programmi di stage pagati dallo Stato sono già emersi negli anni scorsi in tutta la loro evidenza – perché già molte, e variegate sul territorio, sono state le esperienze di questo tipo. Lo Stato paga, offre uno stagista gratuitamente a un'impresa, che si giova dei suoi servigi senza essere minimamente responsabilizzata né attraverso un cofinanziamento dell'indennità né attraverso un vincolo all'assunzione almeno di una piccola percentuale di tirocinanti. Risultato facilmente prevedibile: al termine dell'esperienza di stage, venendo a mancare la convenienza di poter avere in ufficio un giovane senza doverlo contrattualizzare né pagare, l'azienda saluta e ringrazia e il giovane se ne torna a casa con un pugno di mosche in mano.Ministro Giovannini, non si lasci tirare in questo gioco. Destinare i fondi della Youth Guarantee per un maxi-reclutamento di stagisti pagati dallo Stato non servirà a niente. Le aziende non li assumeranno, dopo. I giovani si ritroveranno, dopo 6 mesi, nella maggior parte dei casi ancora disoccupati: e lo Stato ci avrà perso centinaia di milioni di euro.Di stage ce ne sono già troppi. Invece che puntare sulla quantità bisogna rischiare e scommettere sulla qualità, definire un perimetro nuovo e preciso per l'utilizzo di questo strumento, incentivarne la funzione non solo di formazione ma anche e sopratutto di inserimento lavorativo, ed assicurarsi che i giovani possano svolgere queste esperienze in condizioni dignitose – anche dal punto di vista della remunerazione – per non dover restare per anni a ricasco sulle famiglie d'origine.I soldi della Youth Guarantee non vanno dunque buttati per finanziare l'ennesimo programma di stage perorato dallo Stato. Vanno usati in maniera nuova, innovativa, rivoluzionaria. Non per ricreare il solito schema fallimentare e dal sapore assistenzialistico, ma per dare una spinta propulsiva all'efficienza e all'efficacia dei centri per l'impiego, perché è lì che il nostro Paese ha il suo tallone d'Achille. Come? Il dibattito è aperto. Ci sono tanti Paesi, anche vicini al nostro, a cui guardare per prendere ispirazione, da cui imparare a implementare politiche per l'impiego veramente attive. Quel che ci vuole però, sopratutto, è la volontà politica di cambiare il sistema.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Youth Guarantee anche in Italia: garantiamo il futuro dei giovani- Restituire l’Imu o restituire un futuro ai giovani? Rosina, Garnero e Voltolina sostengono la Youth GuaranteeE anche:- Lo Youth Forum: «Gli stage gratuiti e senza prospettive ci sono in tutta Europa, e spesso sono sacrifici inutili» - Confindustria e sindacati, perché nell'accordo sull'occupazione giovanile mancano i punti principali?

Stage per Neet, 140mila motivi perché il ministero del lavoro si vergogni del flop

È accettabile che il ministero del Lavoro italiano non si renda conto della situazione di disperazione dei giovani italiani senza lavoro? È accettabile che accada il macello che si è verificato nella settimana che si è appena conclusa, con l'apertura di un bando (peraltro pieno di criticità) che mette "in palio" 3mila tirocini pagati 500 euro al mese (con soldi pubblici, tanto per citare una criticità), e il ministero che attiva le candidature attraverso il suo sito Cliclavoro senza predisporre il server in modo che sia in grado di sopportare l'impennata di visite? È accettabile che i vertici del ministero non si siano resi conto che questo particolare tecnico era importantissimo e che andava "messo in sicurezza", dimostrando purtroppo la pessima abitudine, molto diffusa nelle alte sfere delle istituzioni pubbliche italiane, di sottovalutare gli aspetti tecnici e la funzionalità informatica dei progetti? Ma sopratutto è accettabile che questi vertici – a macello avvenuto, con un sito "in palla" per giorni, messo ko da oltre 60mila visite al giorno al posto delle solite 8mila – si giustifichino dicendo che non si aspettavano tante richieste di candidatura tutte in una volta?No. Non è accettabile. Il ministero è tenuto a conoscere i numeri, a conoscere la realtà del Paese, e a unire questi due aspetti predisponendo azioni adeguate. Tanto più se chi ne sta a capo, il ministro, è stato per anni alla guida dell'Istat. E invece con il disastro avvenuto all'avvio del bando "Amva Giovani laureati Neet" il ministero ha dimostrato la sua inadeguatezza.In Calabria i giovani tra i 24 e i 35 anni sono 314mila. In Puglia quasi 630mila. In Campania poco meno di 920mila, in Sicilia 775mila. Sommati fanno oltre 2 milioni e mezzo. Calcolando una media, per queste quattro regioni, intorno al 16% di laureati in quella fascia di età, significa un sottogruppo di quasi 420mila giovani laureati calabresi, pugliesi, siciliani e campani.  Secondo l'Istat nel Mezzogiorno per i 25-34enni laureati è del 33,5% il tasso di inattività (i «Neet», per essere tali, non devono essere disoccupati bensì «inattivi» - e per la cronaca sta drammaticamente al 23,7% il tasso di disoccupazione per lo stesso territorio e la stessa categoria anagrafica e di titolo di studio).Dati che fanno venire da piangere, e fan capire quanta fame ci sia nei giovani di queste Regioni di opportunità di lavoro, foss'anche solo uno stage che per sei mesi permetta di portare a casa qualche centinaio di euro e di sentirsi meno frustrati. Ma dati che possono anche portare a numeri: 140mila. Basta infatti una veloce operazione, calcolando il 33,5% di 420mila, di per scoprire che tanti sono – almeno – i potenziali beneficiari del progetto Neet.Era ovvio che tra questi 140mila decine di migliaia, informati della data di avvio della raccolta di candidature da tante testate giornalistiche – prima fra tutte la nostra – e siti internet, organizzazioni giovanili, sindacati, sarebbero stati pronti davanti al computer, il primo giorno, per iscriversi al progetto e sperare di finire tra i 3mila prescelti. Era ovvio, prevedibile, era scritto nei numeri. Si poteva respirare in ogni sito, blog, forum che tratti di lavoro e che raccolga le storie di chi, specie tra coloro che hanno investito nella propria formazione, non si rassegna a non trovare lavoro o a dover scappare al Nord o all'estero per trovarne uno decente. Come può rispondere il ministero «c'è stato un effetto annuncio che ha provocato un escalation di cui non siamo stati consapevoli»? Non era consapevole, il ministero, che su decine di migliaia di giovani del Sud laureati e costretti a girarsi i pollici dalla penuria di opportunità lavorative, ve ne sarebbero stati moltissimi che si sarebbero letteralmente buttati sull'occasione dei tirocini da 500 euro? Come può rispondere il ministero «tanto è vero che per le aziende non è successo», raccontando che quando – qualche giorno prima – era stata aperta la fase di registrazione delle aziende che desideravano candidarsi ad ospitare stagisti le richieste arrivate erano state solo «5mila», e  «diluite nel tempo», senza «clicday» vale a dire senza affrettarsi a cliccare «tutte insieme» nei primi giorni di apertura del bando?Ma... stiamo scherzando? Comparare la sete delle aziende di partecipare a un progetto per il quale potranno ospitare qualche stagista gratis (vantaggioso, certo, ma non vitale) con la sete dei giovani laureati del Sud di trovare una via di fuga dalla disoccupazione e dallo stallo? Il paragone è del tutto fuori luogo, grottesco, e sproporzionate sono le unità di misura, per cui averle considerate omogenee è davvero un errore imperdonabile.E poco importa dire ai giovani, adesso, che c'è tempo per candidarsi, che non bisogna preoccuparsi, che gli stage non verranno approvati e attivati secondo una graduatoria basata sull'ordine di arrivo delle candidature degli aspiranti tirocinanti. Perché è anche una questione di rispetto: rispetto che è mancato per le decine di migliaia di laureati senza lavoro che nei giorni scorsi hanno passato ore davanti al computer, nel vano tentativo di caricare il proprio cv e sperare di ottenere uno di questi stage, nell'ansia di perdere l'occasione, di venire battuti sul tempo da qualcun altro.A Grazia Strano, direttore generale del settore mercato del lavoro del Ministero, va l'"onore delle armi": anziché trincerarsi dietro il solito silenzio ministeriale ha accettato in poche ore di farsi intervistare dalla Repubblica degli Stagisti. Ha parlato per oltre un quarto d'ora con la nostra giornalista, rispondendo a tutte le domande – compresa quella più spinosa, e cioè chi avesse fatto le stime di accesso clamorosamente sbagliate, prendendosene personalmente la responsabilità.Ma quel che è successo va ben oltre. Dimostra, ancora una volta, una spaccatura non più accettabile tra istituzioni e Paese reale. Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Tirocini per laureati, Cliclavoro in down per i troppi accessi: non si parte proprio col piede giusto...- Blocco delle candidature al bando di stage per Neet, il ministero: «Troppi accessi, non ce lo aspettavamo»E anche:- Progetto Neet: per 3mila giovani del Sud sei mesi di tirocinio pagati dallo Stato. Ma servono davvero?- Progetto Neet, caos su Cliclavoro: ma il ministero rassicura gli aspiranti stagisti

Esperienze di lavoro prima dei 25 anni: giusto ministro, ma ci vuole una nuova legge sugli stage curriculari

Qualche giorno fa il ministro dell'Istruzione Maria Chiara Carrozza ha parlato di raccordo tra formazione e lavoro. Lo ha fatto al Forum Ambrosetti, in un intervento a porte chiuse, da cui è filtrata però questa dichiarazione: «Non voglio più che gli studenti italiani arrivino a 25 anni senza aver mai lavorato un solo giorno nella loro vita». Una frase importante, che merita una «scannerizzazione».  Primo: parliamo di lavoro in senso stretto o lavoro in senso lato? Se parliamo di lavoro in senso stretto, significa che il ministro stava pensando ai piccoli lavoretti che si possono fare durante gli studi. Quelli che in effetti molti giovani fanno per mantenersi, o per arrotondare, o per rendersi un po' indipendenti. Si può fare il barista la sera, o il promoter nel fine settimana. Si può fare il dogsitter, portare le pizze a domicilio, si possono fare traduzioni se si padroneggia bene una lingua, oppure dare ripetizione ai ragazzini un po' somari, oppure programmare siti internet. Sono appunto «lavoretti»: di solito autogestiti, spesso scarsamente codificati (leggi: in nero), e sopratutto - nella stragrande maggioranza dei casi - per nulla attinenti con gli studi del giovane. Si tratta di modi informali  con l'obiettivo non tanto di entrare nel mondo del lavoro, quanto di guadagnare qualcosina. Il che è di per sé molto importante: i primi soldi guadagnati autonomamente sono una tappa cruciale nella transizione alla vita adulta. Sapere, nello spenderli, esattamente quanto sono costati in termini di tempo, energia, lavoro, conferisce a quei soldi un valore totalmente diverso rispetto alla stessa somma fino a quel momento elargita da mamma e papà a mò di paghetta.Dunque, se il ministro si rivolgeva ai ventenni incitandoli a questo tipo di lavoro, lavoro in senso stretto, tu fai qualcosa per il quale guadagni un po' di denaro, intendeva lanciare un invito ad anticipare l'emancipazione economica. Ragazzi, muovetevi e guadagnatevi qualche soldo anche da soli, che lavorare è istruttivo.Ma più probabilmente il ministro Carrozza parlava di lavoro in senso lato. Riferendosi cioè alle esperienze "on the job" che possono essere svolte dagli studenti durante gli studi, rubando un po' di tempo alle aule universitarie e ai libri. Percorsi formativi che vengono definiti "stage" o "tirocini" e che permettono ai giovani di farsi le ossa. Qui partiamo da un presupposto totalmente diverso. E cioè che i giovani non debbano «lavorare», ma «imparare lavorando», cioè mettere in pratica ciò che fino a quel momento hanno studiato sui libri, applicandolo all'interno di una vera realtà lavorativa che prende il nome tecnico di «soggetto ospitante» e che può essere un'azienda privata, un ufficio pubblico, un'associazione non profit, ma anche un negozio, un albergo, una carrozzeria, uno studio professionale… e così via.Il secondo step di questo presupposto è che i giovani, dato che non lavorano in senso stretto bensì imparano "on the job", non debbano essere né contrattualizzati né pagati. Il tirocinio viene dunque formalizzato non attraverso un contratto di lavoro, bensì attraverso una semplice convenzione di stage, con un "progetto formativo" allegato dove vengono elencate le mansioni che lo stagista andrà ad apprendere e tutti gli aspetti tecnici dello stage, a cominciare dalla durata e dal luogo di svolgimento. Non essendovi contratto, non vi è ovviamente retribuzione né contribuzione: a volte è prevista una piccola somma mensile a titolo di rimborso spese forfettario, che non va assolutamente confusa con uno stipendio e che si può tutt'al più definire "indennità di partecipazione".Ora, se quando il ministro Carrozza ha pronunciato la frase in questione, «Non voglio più che gli studenti italiani arrivino a 25 anni senza aver mai lavorato un solo giorno nella loro vita», si riferiva non a un «lavoro» ma più genericamente a una «esperienza di lavoro», è chiaro che volesse intendere gli stage. E date le sue competenze e gli altri elementi della frase - gli «studenti italiani» e il riferimento anagrafico ai «25 anni» - è altrettanto chiaro che volesse parlare di ragazzi impegnati in esperienze di stage durante il periodo di studio. Di giovanissimi che fanno gli ultimi anni di scuole superiori (dunque 17-18enni) e di giovani che frequentano l'università (tra i 19 e i 24 anni, più o meno). Il contatto con il mondo produttivo, a scuola e all'università, si costruisce quando queste agenzie formative creano un raccordo con il "fuori", specialmente con sul proprio territorio, e organizzano in favore dei propri studenti delle esperienze protette di lavoro, limitate nel tempo per non ostacolare l'apprendimento in classe o in aula. Tirocini, appunto.Quando queste esperienze sono svolte nell'ambito di un istituto superiore si parla di "alternanza scuola-lavoro"; passando all'università la terminologia cambia, ed entrano in campo i "tirocini curriculari". Curriculari deriva da «curriculum studiorum»: il riferimento è al piano di studi che ogni studente deve seguire e ai cfu, i crediti formativi universitari, che deve accumulare per potersi laureare. Pressoché ogni attività universitaria è quantificata in cfu: gli esami, le tesine, la partecipazione ai corsi. E talvolta anche i tirocini: vi sono alcuni corsi di laurea infatti che obbligatoriamente prevedono che gli studenti debbano farne uno, o più d'uno, per poter ottenere il titolo.A dirla tutta, spesso gli stessi corsi di laurea prevedono una scappatoia, permettendo a quegli studenti che non avessero la possibilità o la voglia di svolgere il tirocinio richiesto di ottenere lo stesso numero di cfu in un altro modo, per esempio sostenendo un esame aggiuntivo.In questi ultimi anni, poi, il significato di "tirocinio curriculare" si è modificato, fino ad arrivare a una "istituzionalizzazione" ad opera sostanzialmente delle Regioni e della Corte costituzionale, che sulla differenza tra curriculare ed extracurriculare hanno poggiato le une la battaglia, l'altra la decisione finale in merito alla competenza normativa in materia di stage. Col risultato - folle secondo la Repubblica degli Stagisti e molti altri, ma al momento immodificabile - che le Regioni hanno visto sancire la potestà normativa in materia di tirocini extracurriculari, e hanno cominciato a sfornare ciascuna la sua legge regionale (per fortuna, con le linee guida della Conferenza Stato - Regioni a fungere da amalgamatore).Ma i curriculari? Per quelli la potestà normativa resta allo Stato. E per la cronaca al momento c'è un buco nero: una vacatio legis gravissima, che riguarda un numero impressionante - e non ben definito, anche perché per questo tipo di stage il Ministero del Lavoro qualche anno fa attraverso una circolare ha pensato bene di eliminare l'obbligo di comunicazione al centro per l'impiego, vigente invece per gli extracurriculari - di giovani ogni anno. Studenti di scuole superiori (pochi), studenti universitari (moltissimi e in continuo aumento, come emerge anche dalle ultime indagini di Almalaurea), studenti di master e corsi di formazione (che talvolta hanno un numero di ore di stage addirittura superiore al numero di ore di lezione in aula). Qualcosa come 200mila stage curriculari ogni anno, 21mila solo dalle università milanesi nell'anno 2010.Insomma, quando il ministro Carrozza dice di volere che gli studenti italiani arrivino a 25 anni con qualche esperienza di lavoro nel curriculum, sta dicendo loro di fare (anche) qualche stage. Il che va bene: ma allora il suo ministero deve al più presto mettersi al lavoro ed elaborare una nuova regolamentazione per i tirocini curriculari, che metta i giovani e le aziende in condizione di potersi incontrare e "testare", e che contemporaneamente prevenga l'abuso di questo strumento.Anche perché i tirocini curriculari in questo momento, con la vacatio legis, sono più appetibili che mai. E man mano che le leggi regionali sugli extracurriculari entreranno in vigore in tutte le Regioni, con il loro portato di diritti a favore degli stagisti (a cominciare dal rimborso spese minimo obbligatorio), lo diventeranno sempre di più. I tirocini curriculari insomma rischiano di diventare i tirocini di serie B, così come i contratti atipici sono diventati i contratti di serie B del mercato del lavoro. Urge una virata per evitare questa deriva, per assicurare alle centinaia di migliaia di studenti italiani la possibilità di fare esperienze di lavoro prima dei fatidici 25 anni in condizioni di decenza.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche- Subito una legge statale sui tirocini curriculari: appello al ministro Carrozza- Diritto allo studio e ricambio generazionale dei docenti, gli obiettivi della neoministro all'Istruzione → su Articolo 36 - Tirocini, la Regione Lombardia scopre le carte: normiamo anche i curriculariE anche:- Tirocini, tempo scaduto. Ma metà delle Regioni italiane non ha legiferato

Giornalismo d'inchiesta e minacce di querela, tra intimidazioni e diritto di cronaca

«L'articolo incriminato è del tutto privo di portata diffamatoria. Inoltre il contenuto complessivo del testo, per veridicità della notizia, rilevanza pubblica e rispetto di limiti di continenza, appare immune da rilievi sul piano della illiceità penale (cfr memoria difensiva nell'interesse della indagata Voltolina Eleonora, che qui si intende integralmente richiamata e pienamente si condivide)».     Ci sono nel mondo due tipi di giornalisti. Quelli che trattano argomenti neutri, scrivendo cose più o meno importanti, ma senza conflitto. I loro articoli possono piacere o a volte non piacere, in qualche caso far storcere il naso, ma non feriscono e non scatenano sentimenti di rappresaglia. Sono articoli che raccontano fatti di cronaca, o di costume, o di spettacolo, o di sport, o di ogni altro argomento dello scibile umano «notiziabile».C'è chi fa questo tipo di giornalismo meglio e chi peggio, come in tutti i mestieri: in ogni caso, esso è essenziale per informare, approfondire, divertire. Dirò di più: spesso è proprio grazie a questi articoli che si vende un giornale, o che una trasmissione ottiene il top di share.Poi ci sono i giornalisti che fanno le inchieste. E le inchieste, da quelle grandi stile Report a quelle piccole dei giornali di provincia, hanno un obiettivo: far emergere una situazione critica. Anche qui ovviamente c'è chi fa questo mestiere bene e chi lo fa meno bene: c'è chi spinge sull'acceleratore del patetismo e chi invece si limita a lasciar parlare i fatti; c'è il giornalista che si vuole mettere in mostra, ed essere la primadonna della sua inchiesta, e quello che invece sta dietro e lascia la parola ai testimoni e il commento agli esperti. In ogni caso di solito chi è - o appare - responsabile della situazione critica non è contento che l'inchiesta venga pubblicata, o vada in onda. Al giornalista scrupoloso sta il dovere di offrire a tutte le parti la possibilità di spiegare le proprie posizioni e punti di vista: spesso però questa offerta viene rifiutata, e allora si pubblica quello che c'è. Capita che dopo la pubblicazione, talvolta molto dopo, talaltra addirittura prima, la controparte metta in atto delle azioni per dissuadere la testata dal proseguire questa o quella inchiesta, minacciando azioni legali e richieste di risarcimento come una spada di Damocle. Dunque chi fa le inchieste deve non solo trovare le notizie, verificarle dieci volte più degli altri, e dieci volte più degli altri fare attenzione al rigoroso rispetto dei limiti di pertinenza, continenza e interesse generale nella costruzione del suo lavoro. Deve anche continuamente difendersi da minacce esplicite e implicite.Quando ho cominciato a fare la giornalista, ho avuto ben chiaro che la mia via sarebbe stata quella più accidentata. Che avrei dato fastidio e che avrei subito pressioni.Non è un giudizio di merito, una classifica di giornalisti più o meno bravi, più o meno utili. Ci vogliono in un sistema mediatico - e allargando lo sguardo: in un paese democratico - gli uni e gli altri: per soddisfare le esigenze di tutti i lettori, dare la notizia del ritorno di Kakà al Milan con tutti i retroscena e i commenti dei notabili del calcio, e dare però anche quella dei rifiuti tossici seppelliti in Campania o del concorso truccato attraverso cui un ospedale ha nominato primario un incapace, però raccomandato. Un giornalista è sempre un giornalista, deve svolgere il suo lavoro secondo il codice deontologico sia che intervisti George Clooney sia che raccolga la testimonianza di un immigrato clandestino messo a lavorare in nero in qualche campagna. Ma obiettivamente, purtroppo, chi fa giornalismo d'inchiesta si espone di più. E qui, attenzione, mi limito a parlare delle forme di pressione per bloccare il lavoro di un giornalista che si collocano nel perimetro della legalità; e tralascio, perché sarebbe un argomento troppo lungo e importante per poterlo riassumere in poche parole, il caso di minacce illegali, intimidazioni, agguati cui tanti giornalisti sono sottoposti, specialmente tra quelli che scrivono di criminalità organizzata. Mi concentro quindi solo su quelle azioni che stanno nel grande insieme delle «minacce di querela» e che, se approdano in un'aula di tribunale, tecnicamente vengono definite «liti temerarie».Ricordo bene la prima trafila di minacce che scaturì da un articolo, pubblicato nella sezione «Help» della Repubblica degli Stagisti. Ricordo il cuore in gola ricevendo le telefonate ed email di minaccia, la consapevolezza di aver toccato un nervo scoperto ma la determinazione a non recedere. Ricordo le rassicurazioni ai collaboratori. Ricordo l'ansia della prima lettera di minaccia di querela per diffamazione a mezzo stampa vergata da un avvocato, step 2 del climax delle pressioni, con una richiesta di risarcimento a quattro zeri se non avessimo immediatamente cancellato dal sito gli articoli sgraditi: richiesta rimandata al mittente, affidandoci a un studio legale esperto che ancora ci segue in queste vicende. Oggi la scorza è più dura, e una telefonata minatoria o una lettera mellifluamente minacciosa di un avvocato scivolano addosso con più facilità: ma beninteso, non sono mai piacevoli da ricevere.È però utile sapere che la particolarità delle minacce di querela è che... Raramente si trasformano in querela. La maggior parte delle volte, per fortuna non solo dei giornalisti ma anche dei tribunali oberati di lavoro, le minacce restano minacce. Svelandosi per quello che sono: semplici tentativi "o la va o la spacca" di non far uscire una notizia sgradita. Perché per portare un caso in tribunale bisogna avere qualche prova concreta: che appunto la stragrande maggioranza delle volte manca a chi accusa. Le minacce assumono quindi una doppia essenza quasi paradossale; da una parte sono pesanti e ancor più odiose, in quanto concretamente - come ha sostenuto recentemente anche l'associazione Articolo21 - sono degli atti intimidatori per impedire a un professionista di portare a termine il suo lavoro. Ma dall'altra sono anche leggere, quasi evanescenti: perché lasciano il tempo che trovano, secondo il detto dei cani che abbaiano molto ma che poi non mordono.Qualche minaccia, però, diventa realtà. Questo accade di solito in due casi - a volte sovrapposti, a volte no. Il primo è quello di una controparte potente. Una persona abbiente, un'azienda con un ufficio legale pagato in pianta stabile. Qui il meccanismo é semplice: la causa parte perché la controparte non ha problemi di denaro, e può sostenere le spese legali di una controversia, anche se con possibilità minime di successo. Il secondo caso è quello che ci siano, in effetti, elementi diffamatori nel prodotto giornalistico contestato; elementi evidenti e rilevanti, che permettono a chi si sente diffamato di avere la ragionevole aspettativa di vedersi riconosciuta in tribunale la ragione, magari anche con un risarcimento economico.Facendo questo lavoro si scopre presto che si tratta di una piramide rovesciata, o meglio, di un imbuto. Per 1000 minacce arrivano 100 lettere di avvocati, per 100 lettere di avvocati arrivano 10 querele. E poi le querele possono prendere due strade: essere archiviate, il che vuol dire che il pm e poi il giudice chiamati a valutare la consistenza delle contestazioni si convincono senza ombra di dubbio che non c'è ragione di procedere contro la testata; oppure possono arrivare al rinvio a giudizio. In questo secondo caso, col rinvio - quando il giornalista da «indagato» diventa «imputato» del reato di diffamazione - comincia il vero e proprio processo, in cui ognuno porta le sue prove. Il giornalista e l'editore ovviamente vengono chiamati a giustificare la correttezza del loro lavoro, e poi il giudice decide, emettendo la sua sentenza di condanna o di assoluzione.Quel che è successo a me finora, in sette anni di professione, è di aver ricevuto decine di intimidazioni, minacce, richieste di non pubblicazione o di cancellazione. Solo una volta ho dovuto accondiscendere a cancellare un'inchiesta già pubblicata, e detto per inciso: non perché avessimo torto, tutto quel che era riportato negli articoli contestati corrispondeva a verità; semplicemente, purtroppo, non avevamo più la documentazione, le «pezze d'appoggio» come si dice in gergo, perché erano passati anni dalla messa online e avventatamente non le avevamo mantenute nel nostro archivio. Lezione che ci é servita, perché oggi non gettiamo via nemmeno più un singolo appunto.Tutte le altre richieste pervenute in questi sette anni alla redazione della Repubblica degli Stagisti, ora allargata con la nascita di Articolo36 e di NextHR, sono state sempre sistematicamente rimandate al mittente, con la consapevolezza di essere in grado, in caso di querela, di difendere fino all'ultimo il nostro operato giornalistico di fronte ai giudici.Delle decine di minacce ricevute, una sola si è tramutata in reale querela. Per evitare di rinfocolare la polemica, evito qui di fare riferimento esplicito all'articolo "incriminato", e mi limito ad essere contenta, molto contenta di quelle tre righe che accompagnano la richiesta di archiviazione scritta dal pm e accolta dal giudice, e che ho riportato in testa a questo articolo. Quelle tre righe sono un balsamo per tutte le ore passate a vivisezionare gli articoli per controllare l'appropriatezza di ogni parola e la fondatezza di ogni affermazione, scrivere memorie difensive, fare riunioni con gli avvocati. Ma attenzione. Avere ottenuto ragione, per la nostra testata giornalistica, ha avuto un costo. Un costo umano: resistere alle pressioni, mantenere la calma. Un costo professionale: utilizzare ore del proprio lavoro per difendere il proprio operato passato, anziché lavorare sugli articoli futuri. E un costo economico: perché giustamente gli avvocati vanno pagati. Ma se una testata non ha grande forza umana, resistenza professionale,  solidità economica, che fine fa? In effetti, più una testata è piccola ed economicamente debole, più è esposta e vulnerabile rispetto alle minacce. Con il risultato prevedibile che alla prima lettera di un avvocato correrà ai ripari, sospendendo il lavoro del giornalista o cancellando l'articolo sgradito; e per il futuro cercherà di limitare al minimo le inchieste, e quando le farà, si accerterà di spuntare le unghie in modo che graffino il meno possibile.Come ripristinare una situazione accettabile, con il giusto bilanciamento tra il diritto alla privacy e alla reputazione e quello all'informazione? Per esempio prevedendo pene severe per le querele temerarie, sia in caso si vada in giudizio e il processo finisca con l'assoluzione del querelato, sia in caso al dibattimento non ci si arrivi neppure, perché la querela - come in questo mio caso - viene archiviata. Il malcostume tutto italico della minaccia «Vi querelo!» usata per paralizzare l'attività giornalistica può essere stradicato infatti solo introducendo pene pecuniarie molto elevate per chi porta inutilmente in tribunale una testata giornalistica, con il preciso intento di impedirle di fare il suo mestiere. E che queste somme non vadano alla "cassa delle ammende", bensì direttamente alle testate chiamate incautamente in giudizio, per ripagarle del danno subito e renderle un po' più forti - e in grado di difendersi - in vista del successivo attacco.La libertà di stampa, in un Paese, si misura anche da questo.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Nasce Articolo36: una testata online dedicata al lavoro precario, sottopagato, gratuito

Nuove tutele per gli stage: meno opportunità, ma migliori. Giovani, ci state o no?

Capita, quando viene introdotta una nuova legge, che a lamentarsene siano proprio i cittadini che ne risultano beneficiari, o comunque potenzialmente «beneficiandi». Non c'è da sorprendersi, quindi, che da settimane sul wall del gruppo Repubblica degli Stagisti su Facebook vada avanti un dibattito acceso rispetto alle nuove norme sui tirocini extracurriculari in fieri, e sopratutto sull'effetto prodotto dalla novità della «congrua indennità» obbligatoria prevista dalla riforma Fornero, concordata in sede di Conferenza Stato-Regioni e ora in discussione in pressoché tutti i consigli regionali d'Italia. La critica che arriva da alcuni giovani - perlopiù aspiranti stagisti che, avendo già concluso il percorso di studi, non possono più accedere ai tirocini curriculari - è semplice: «con questa storia del rimborso obbligatorio le aziende ci chiudono le porte in faccia». In sostanza l'introduzione di una misura economica minima a favore degli stagisti - pochi spiccioli, tra 300 e 600 euro al mese a seconda delle Regioni - viene osteggiata proprio da chi quei soldi potrebbe tra qualche mese percepirli.Del resto, era prevedibile una reazione di irrigidimento da parte di quelli che tecnicamente si chiamano «soggetti ospitanti», vale a dire le realtà pubbliche, private e non profit che hanno ospitato, ospitano e ospiteranno tirocinanti. Questi soggetti sono stati abituati per un quindicennio a poter godere di stagisti in maniera assolutamente gratuita: la legge precedente, il dm 142/1998, non prevedeva infatti alcun obbligo in questo senso. Gli stage «retribuiti» - definizione comune ancorché sbagliatissima usata per definire quelli per i quali viene erogato un rimborso spese forfettario mensile assimilabile a uno stipendio o meglio, a livello fiscale, «a reddito da lavoro dipendente» - lo sono ad oggi non per legge, ma per generosità, lungimiranza, senso di responsabilità (e talvolta un pizzico di opportunismo) del soggetto ospitante. Una scelta autonoma, dunque, svincolata da obblighi normativi.Ma qualcosa, si diceva, sta cambiando. Almeno per quanto riguarda i tirocini extracurriculari, quelli svolti cioè al di fuori di un percorso di studi, i provvedimenti più recenti stanno spingendo verso un'altra direzione. Dopo la Toscana, pioniera un anno e mezzo fa con la sua legge regionale, e l'Abruzzo che l'ha seguita a ruota, ci sono stati l'intervento della Fornero e gli accordi sottoscritti da tutte le Regioni in sede di Conferenza Stato - Regioni. Questi accordi prevedono che entro meno di un mese, cioè entro la fine di luglio, ciascuna Regione recepisca le linee guida e introduca dunque l'obbligatorietà di un compenso minimo a favore degli stagisti.Ed é qui che scatta l'irrigidimento di alcuni soggetti ospitanti. Che, abituati come si diceva a poter disporre di stagisti a piacimento senza il minimo obbligo di corrispondere una indennità economica, adesso puntano i piedi per resistere alla novità. E - chi con le parole chi coi fatti - lanciano un messaggio che suona come una minaccia: «Attenzione perché noi gli stagisti eravamo disponibili ad accoglierli solo se per noi non rappresentavano un costo. Se ora voi inserite l'indennità obbligatoria, noi chiudiamo le porte. E a rimetterci saranno i giovani che non avranno l'opportunità di fare esperienza nelle nostre realtà». Un discorso meschino, ma efficace.Tanto é vero che i primi alleati di questi datori di lavoro anti indennità sono proprio alcuni aspiranti stagisti. Che si rivoltano contro lo Stato, «reo» di aver previsto una tutela in più che prima non esisteva e che mira a liberarli dall'ingiustizia di dover fare stage senza il diritto di percepire un seppur minimo compenso. È l'annoso problema: abbracciare o rigettare l'antico detto «piuttosto che niente, meglio piuttosto»? I giovani italiani vogliono questa tutela, anche accettando che per un periodo di assestamento le aziende e gli enti riducano le posizioni di stage aperte?Noi della Repubblica degli Stagisti abbiamo preso una posizione molto tempo fa. L'abbiamo scritta nella nostra Carta dei diritti dello stagista e promossa di fronte a politici, imprenditori, sindacalisti, giornalisti. Secondo noi meglio pochi stage, ma buoni. Realmente formativi. Con un minimo di possibilità di sbocco occupazionale. E sì, con un minimo di indennità che almeno non costringa i tirocinanti a rimetterci di tasca propria. Questo vuol dire una contrazione dei posti di stage? Per noi va bene, perché abbiamo visto cosa ha voluto dire, negli ultimi anni, privilegiare la quantità a scapito della qualità. Il numero degli stage è raddoppiato dal 2005 ad oggi, eppure la percentuale di assunzioni al termine dell'esperienza formativa è precipitata (oggi sta a un misero 10%), e il fronte dei giovani che si sono sentiti sfruttati e che sono usciti delusi dalla propria esperienza di stage si è ingrossato a vista d'occhio. Dunque, sì, per noi va bene che venga introdotto un compenso obbligatorio per tutti gli stagisti extracurriculari. Anzi, auspichiamo che ne venga introdotto uno anche per i tirocini curriculari e per i praticantati, i tirocini per l'accesso alle professioni. E se questo vorrà dire qualche stage in meno, amen. E se questo vorrà dire qualche realtà che smetterà di ospitare stagisti, amen. Ne faremo a meno, e senza grandi rimpianti. Per noi un'impresa privata o un ente pubblico o uno studio professionale o anche una organizzazione non profit che non è in grado di tirare fuori 300 euro al mese per remunerare uno stagista non solo non è socialmente responsabile, ma non è nemmeno sana. Chi dice che non può permettersi l'indennità probabilmente vuole usare gli stagisti per tappare i buchi e poter disporre di manodopera - o cervellodopera - a costo zero. C'è chi ritiene che anche queste opportunità siano preziose, perché in un modo o nell'altro, anche se sfruttati, anche se privi di ogni minima tutela economica, i giovani qualcosina lo imparano sempre. Ecco, noi non consideriamo queste opportunità preziose. Le consideriamo al ribasso. Le consideriamo al di sotto della soglia della decenza. E non le rimpiangiamo. Pensiamo che gli stage gratuiti possano essere accettabili solo in due casi: quando sono rivolti a soggetti giovanissimi - minorenni, studenti delle scuole superiori - oppure debolissimi, come portatori di gravi handicap, carcerati, tossicodipendenti.In tutti gli altri casi, che sono la stragrande maggioranza, vogliamo che i giovani italiani possano accedere a percorsi formativi on the job di qualità, dove l'apporto da loro fornito - ancorché in formazione - venga riconosciuto anche attraverso un minimo di compenso. E voi da che parte state?Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Senza soldi non ci sono indipendenza, libertà, dignità per i giovani: guai a confondere il lavoro col volontariato- Tirocini extracurriculari, linee guida approvate: le Regioni legiferino entro luglio- Leggi regionali sui tirocini: si va verso il caos e l'anarchiaE anche:- Appello al ministro Bonino: subito un rimborso per gli stagisti Mae Crui, i soldi già ci sono

Subito una legge statale sui tirocini curriculari: appello alla ministra Carrozza

Oggi la Cgil lancia una campagna nazionale per i diritti degli stagisti: «In una ventina di città sono in corso presidi e volantinaggi» spiega la responsabile politiche giovanili della Cgil Ilaria Lani «per sollecitare le Regioni e per lanciare la nostra campagna volta a coinvolgere i giovani in merito ai tavoli che si stanno aprendo con le Regioni». La campagna si sviluppa su tre direttrici: «Stage? Questa volta me la paghi», focalizzata sulle indennità mensili minime di almeno 300 euro che dovranno essere introdotte entro luglio dalle singole Regioni, in ottemperanza alle linee guida concordate a gennaio in sede di Conferenza Stato-Regioni; poi «Stage? Esigo una spiegazione», che sottolinea il carattere prettamente formativo dell'esperienza di tirocinio, e infine «Stage? Datevi una regolata», che dà il nome all'intera campagna e che fa riferimento appunto alle leggi regionali in fieri.La Repubblica degli Stagisti sceglie questo giorno per rilanciare il suo allarme. Le leggi regionali prossime venture di cui parla la Cgil, basate (alcune più, altre meno fedelmente) sulle linee guida Stato-Regioni, riguarderanno solamente i tirocini qualificati come "extra curriculari". Lasceranno fuori  tutti i "curriculari", cioè quelli fatti da studenti. Nel dettaglio, secondo una circolare del ministero del Lavoro sono definibili come curriculari tutti gli stage che soddisfino contemporaneamente questi criteri: l’ente promotore è un’università o un ente di formazione abilitato al rilascio di titoli di studio; il soggetto beneficiario è uno studente di scuola superiore, università, master e dottorati universitari, o un allievo di istituti professionali e corsi di formazione; lo stage è svolto durante il percorso di studio, anche se non direttamente correlato all’acquisizione di crediti. Il problema è che le leggi in fieri prevedranno ovviamente un limite massimo di stagisti in proporzione ai dipendenti. Questo limite è "storicamente" pari al 10%: cioè se un'azienda ha 100 dipendenti può accogliere 10 stagisti al massimo. Ma attenzione: in questo numero massimo adesso vengono conteggiati soltanto i tirocini extracurriculari. Quelli curriculari no. Dunque questi limiti massimi di rapporto stagisti-dipendenti non sono più applicati computando tutti i tirocini, bensì solo per il numero di stage extracurriculari. Ciò vuol dire che oltre ai limiti indicati dalle singole legge regionale, ogni azienda potrà prendere in più altri tirocinanti curriculari. Quanti, non è dato sapere: con il rischio che raddoppi, o addirittura triplichi, il numero massimo di stage svolti contemporaneamente presso le aziende. Si apre cioè la porta a un enorme incremento degli stagisti. Con la precedente normativa di riferimento, il decreto ministeriale 142/1998 che ha regolamentato per quindici anni la materia stage, i tirocinanti venivano conteggiati tutti insieme e sul numero totale veniva fatta la proporzione (con un massimo appunto del 10%) con il numero di dipendenti del soggetto ospitante. Ora tutto è nel caos. Le Regioni, supportate dalla Corte Costituzionale, si sono battute per affermare il proprio diritto a esercitare una competenza esclusiva in materia di tirocini: ma solo quelli extracurriculari. Si sono date o si stanno dando nuove leggi per regolamentarli. Ma in tutto questo, i tirocini curriculari da chi saranno regolamentati? Da questa premessa scaturisce l'appello alla neoministra dell'Istruzione  Maria Chiara Carrozza: urge un intervento statale immediato. Non basta monitorare che le Regioni elaborino entro la fine di luglio delle provvedimenti regionali sui tirocini extracurriculari. Bisogna che il governo elabori al più presto una legge sui tirocini curriculari, per scongiurare il pericolo della vacatio legis ed evitare che centinaia di migliaia di giovani possano subire le conseguenze di una stolta e gravissima mancanza di regole. Ponendo rimedio a una delle tante storture generate dall'aver preteso di suddividere gli stage curriculari da quelli extracurriculari, assegnando addirittura a ciascuno dei due insiemi un differente referente competente per legislazione. Aver stabilito a tavolino che gli stage extracurriculari siano di competenza regionale e che quelli curriculari siano invece di competenza statale è una follia: la Repubblica degli Stagisti porterà avanti l'istanza di riunificare la competenza in materia di tirocini, cancellando la scriteriata differenziazione e sopratutto la biforcazione della competenza normativa, perché ritiene che non abbia nessuna connessione con la realtà. Se differenziazione di trattamento vi deve essere, che essa sia basata sulla durata dello stage (come in Francia, dove per esempio tutti gli stage di durata superiore ai 2 mesi sono sottoposti al vincolo di almeno 430 euro mensili di compenso, mentre quelli di durata inferiore ne sono esentati). Ma certamente gli stage devono avere una normativa onnicomprensiva e omogenea: altrimenti i controlli diventano impossibili, i monitoraggi ingestibili, gli abusi troppo facilmente camuffabili. Il caso del numero massimo di stagisti è l'esempio più lampante della situazione di caos che si sta consolidando e che va debellata prima che si cronicizzi.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Leggi regionali sui tirocini: si va verso il caos e l'anarchia- La Toscana approva la nuova legge sugli stage: per la prima volta in Italia il rimborso spese diventa obbligatorio- Tirocini extracurriculari, linee guida approvate: le Regioni legiferino entro luglioE leggi anche:- Toscana / L'assessore: «Se con le nuove leggi i tirocini diminuiscono non è un male: scompaiono quelli truffa»- Marche / «Responsabilizzare i tutor e valorizzarli, anche attraverso un compenso»- Emilia / Ancora in alto mare, Cgil: «C'è disaccordo sulle linee guida»- Sicilia / La politica tace. E allora interviene il sindacato- Puglia / C'è già una bozza: «La approveremo entro luglio»- Campania / Il numero massimo di stagisti sarà il triplo del previsto

Leggi regionali sui tirocini: si va verso il caos e l'anarchia

Il viaggio della Repubblica degli Stagisti attraverso le Regioni italiane alla scoperta delle novità rispetto all'applicazione delle linee guida sui tirocini - e soprattutto all'approvazione di leggi o altri provvedimenti regionali in materia - è partito ormai oltre un mese fa. Certo, la strada è ancora lunga e per un censimento di tutte e venti le Regioni si dovrà aspettare l'inizio di luglio. Ma il quadro che già emerge è preoccupante.Vi sono molte Regioni che sembrano sottovalutare l'impegno sottoscritto in sede di Conferenza Stato - Regioni, e che risultano in enorme ritardo: Emilia Romagna e Sicilia, per dirne due, non hanno ancora nemmeno uno straccio di bozza di provvedimento regionale. Assessori, portavoce e consiglieri dribblano le critiche assicurando che entro il 24 luglio tutto sarà pronto: ma risultano non completamente credibili. Difficile che in poco più di due mesi si riesca, partendo da zero, a costruire una legge (o altro atto) regionale ben congegnato, a discuterlo e concordarlo con le parti sociali, ad approvarlo in aula e renderlo pienamente operativo. Dunque è ragionevole credere, purtroppo, che a fine luglio vi sarà un nutrito elenco di Regioni inadempienti: che non saranno state capaci cioè di regolamentare (o non avranno voluto farlo) la questione dei tirocini extracurriculari, formativi e di inserimento / reinserimento, così come avevano promesso formalmente di fare a gennaio.C'è poi un altro versante problematico, costituto da quelle Regioni (purtroppo, quasi esclusivamente meridionali) che stanno lavorando su bozze di regolamentazioni regionali, e dunque non sono in ritardo. Ma che in quelle bozze stanno includendo provvedimenti che si discostano in maniera significativa dalle linee guida concordate. Andando a snaturare, su determinati punti, la ratio stessa delle linee guida, e certamente non per favorire i più deboli, i giovani, bensì a tutto vantaggio dei soggetti ospitanti: enti pubblici e aziende private. Due esempi su tutti. Il primo: vi sono Regioni che stanno raddoppiando (Sicilia) o addirittura triplicando (Campania) il tetto massimo del numero di stagisti in proporzione al numero di dipendenti. Cioè un'azienda con un centinaio di dipendenti che fino ad oggi può prendere soltanto 10 stagisti, da domani potrebbe trovarsi - se i provvedimenti regionali siciliani o campani andranno in porto così come sono stati raccontati alla Repubblica degli Stagisti - la possibilità di accoglierne ben 20 o addirittura 30. Con il rovesciamento completo del concetto "pochi ma buoni", e un prevedibile ulteriore crollo del già bassissimo tasso di assunzione al termine dello stage (che in Sicilia è disperatamente ai minimi termini: meno dell'8%). Il secondo esempio: l'introduzione della "congrua indennità", insomma il rimborso spese obbligatorio a favore degli stagisti. Nelle linee guida c'è scritto che tale indennità dovrà essere fissata in almeno 300 euro lordi, ma le Regioni in un documento separato allegato alle linee guida si erano impegnate, nei loro singoli provvedimenti regionali, a non andare sotto i 400 euro. Invece, amara sorpresa: ve ne sono parecchie (Campania, Marche...) che stanno facendo marcia indietro rispetto a quel documento, e nelle loro bozze stanno indicando soltanto 300 euro come indennità minima. Il che vuol dire, è facile intenderlo, che in quelle Regioni gli stagisti extracurriculari avranno "diritto" a una cifra minima del 25% più bassa rispetto a quella che era stata loro promessa.Poi c'è la questione del periodo di transizione. Fintanto che ciascuna Regione non approva la sua legge, a quale normativa bisogna fare riferimento? Siamo in presenza di un vuoto normativo e dunque di una vacatio legis stile "liberi tutti"? Alcuni autorevoli esperti della materia avevano nei mesi scorsi sostenuto questa tesi, facendo riferimento alla sentenza della Corte costituzionale (n. 287/2012) che lo scorso dicembre ha sancito l'incostituzionalità dell'articolo 11 del dl 138/2011 - quello che riguardava appunto i tirocini -, ritenendolo lesivo delle prerogative delle Regioni. È di questi giorni invece un parere diametralmente opposto, espresso dalla Fondazione Studi dell'Ordine dei consulenti del lavoro in una circolare, secondo cui, invece, finché le Regioni non si muovono e non mettono in approvazione (e in funzione) le proprie regolamentazioni bisogna ancora far riferimento alla legge "mamma" dei tirocini, quella che ha regolamentato tale materia negli ultimi 15 anni. E cioè il decreto ministeriale 142/1998, che ha «efficacia immediatamente sostitutiva e diretta laddove manchi una normativa regionale, e ciò almeno fino a quando la Corte con sentenza specifica non dichiari incostituzionale tale normativa».Infine c'è il problema più macroscopico, di cui incredibilmente sembra che solo la Repubblica degli Stagisti si stia rendendo conto. Il numero massimo degli stagisti nelle aziende sta andando fuori controllo e fuori legge. Nel senso letterale della frase: questo numero massimo, finora fissato dal decreto ministeriale 142/1998, è destinato a scomparire, creando - qui sì, senza alcun dubbio! - un vuoto normativo di proporzioni enormi.Com'è possibile? È possibile perché le nuove leggi regionali basate (chi più chi meno) sulle linee guida concordate in Conferenza Stato-Regioni prevedono un limite massimo di stagisti in proporzione ai dipendenti. Questo limite massimo secondo le linee guida e alcune leggi regionali già vigenti (es. quella della Toscana) è pari al 10%: cioè se un'azienda ha 100 dipendenti può accogliere 10 stagisti al massimo. Ma l'inghippo è dietro l'angolo. Infatti in questo numero massimo vengono conteggiati, all'interno di ogni singolo soggetto ospitante, soltanto i tirocini extracurriculari. Quelli curriculari attivati presso il soggetto ospitante non sono computati nel numero massimo di tirocini attivabili. In parole povere, questi limiti massimi di rapporto stagisti-dipendenti non sono più applicati (come era invece prima secondo il dm 142/1998) computando tutti i tirocini. No: in questo caso, per la controversa e complicata questione della competenza regionale e della recente sentenza della Corte, questo limite vale solo per il numero di stage extracurriculari.Ciò vuol dire che oltre ai limiti massimi indicati dalle singole legge regionale, ogni azienda potrà prendere in più altri tirocinanti curriculari. Quanti, non è dato sapere. Ciò rischia di raddoppiare, o triplicare, il numero massimo di stage svolti contemporaneamente presso le aziende. Si apre cioè la porta a un enorme incremento degli stagisti. Ci si potrebbe interrogare sulla logica di una sentenza che ha preteso di dividere gli stage curriculari da quelli extracurriculari, come se fossero due mondi completamente separati, senza rendersi conto che gli stagisti una volta entrati nel "soggetto ospitante" si confondono, e non è che vanno in giro col cartellino "Io sono curriculare" e "io sono extracurriculare". Ma meglio lasciar perdere la polemica e affrontare il problema più grave e urgente. Se le Regioni stanno ponendo il limite massimo solo sui tirocini extracurriculari, che aspetta lo Stato a porlo su quelli curriculari?Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Nuove norme sui tirocini, in Sicilia la politica tace. E allora interviene il sindacato- Nuove regole sugli stage, Emilia ancora in alto mare. Cgil: «C'è disaccordo sulle linee guida»- Leggi regionali sugli stage, la Puglia ha già una bozza: «La approveremo entro luglio»- Stage, la Regione Veneto promette «Veglieremo sugli abusi»: ma l'indennità minima sarà bassa- Stage, prime ribellioni alle linee guida: in Campania il numero massimo di stagisti sarà il triplo del previsto