Categoria: Editoriali

«Il Jobs Act è davvero una riforma di sinistra», il commento di Francesco Giubileo

Sul fatto che la riforma del governo Renzi sia o meno di sinistra si sono scritti chilometri di pagine: spesso  studi preliminari che poco hanno a che vedere con valutazioni empiriche  (per esempio quelli dell'Ocse e della Banca D’Italia) o “colorite” storie personali che in certi casi non hanno nulla a che vedere con il Jobs Act, vedi la situazione dell’ abuso dei voucher lavoro, oggi regolamentati con la tracciabilità digitale da decreto legge.Iniziamo con il rispondere a coloro che vedono nel Jobs Act un aumento della precarietà, dettato dal fatto che è stata introdotto il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Su questo sottolineo un tipico problema che spesso accompagna i critici: ovvero dimenticare da dove si è partiti. Così descriveva il mercato del lavoro nel 2013 il Rapporto annuale sulle comunicazioni obbligatorie 2014, quando ancora il primo ministro era  Enrico Letta: sinteticamente si può evidenziare come nell’anno 2013 emerga l’associazione “incertezza economica” e “tipologia contrattuale”, con un ruolo preminente dei rapporti di lavoro a termine ed un mancato risvolto reale degli interventi normativi per facilitare l’istaurarsi del rapporto a tempo indeterminato.  Insomma gli stessi tecnici dell’allora ministro Giovannini – ancora prima che un serio dibattito sull’articolo 18 prendesse piedi (si parlava soprattutto della proposta di Boeri e Garibaldi) – sottolineavano come, analogamente a quanto avveniva negli anni precedenti, i nuovi rapporti nel mercato del lavoro fossero caratterizzati da “precariato dirompente”.Ad eccezione delle modifiche del Decreto Poletti sul contratto a tempo determinato – giurisprudenza comunitaria permettendo – il governo Renzi ha cercato in tutti i suoi interventi di favorire la stabilità dei rapporti di lavoro, a partire dalla sostanziale eliminazione del contratto a progetto, strumento normativo che era già stato parzialmente migliorato dalla Riforma Fornero ma che restava oggetto di abusi, mascherando spesso veri e propri rapporti di lavoro subordinati. Il problema è sempre stata la verifica dell’attuazione delle regole.A ciò aggiungo che ad accompagnare il Jobs Act c’è anche la riforma del codice degli appalti, la quale si spera permetta il “concreto” rispetto della “clausola sociale” – anche in questo caso il problema è sempre stata la verifica dell’attuazione delle regole – riducendo il rischio dei classici “furbetti” che vincevano al massimo ribasso a danno delle retribuzione e del lavoro delle persone coinvolte in questi appalti.Tornando al Jobs Act, il tema centrale non è tanto quello di aver o meno creato più lavoro, cosa che empiricamente – ovvero un’associazione causale tra norma e incremento occupazionale – non è mai stata dimostrata da nessuno studio, dimenticando però il probabile effetto prodotto da centinaia (se non migliaia) di ulteriori variabili socio-economiche come export, spesa pubblica, mercato finanziario, e così via.Piuttosto la vera domanda centrale è se la riforma abbia favorito o meno la stabilizzazione dei lavoratori precari, certo anche per effetto del combinato disposto (ovvero la combinazione con gli esoneri contributivi); d'altronde il “mix” aveva proprio questo obiettivo e la tabella seguente non lascia dubbi. Sì, c’è stata una maggiore stabilizzazione dei lavoratori. Qualcuno obietterà che gli incentivi potevano essere più selettivi, ma proprio il caso “fallimentare” degli incentivi proposti dal governo Letta dovrebbe farci riflettere. Se si fossero messi dei paletti,  a parte il rischio di un possibile effetto sostituzione, probabilmente avremmo ottenuto un risultato nettamente inferiore.Resto convinto che l’affermazione di Renzi che il Jobs Act è una riforma di sinistra sia assolutamente condivisibile: coloro che criticano la legge dovrebbero ricordarsi del livello di precariato presente nel 2013 , un livello insostenibile, dove la stabilizzazione si poteva considerare più come un “premio alla lotteria” piuttosto che la conferma delle proprie capacità mostrate.Riforma o no, vorrei spronare l’esercito dei giovani disoccupati: più di una “garanzia del lavoro”, dovrebbero fare proprio il principio “ti trovi o ti crei un lavoro”, utilizzando appieno la mobilità all'estero che non va vista come fuga dei cervelli, ma piuttosto come possibilità di diventare cittadini del mondo e che, non dimentichiamolo, è aperta a profili professionali medio-bassi. A chi pensa di avere notevoli competenze, e almeno un minimo di esperienza, suggerisco invece di considerare la via dell’auto-impiego. Francesco Giubileo**esperto di servizi per l'impiego e consigliere di amministrazione di Afol Metropolitana

A cinquant'anni non è giusto essere stagisti, per almeno cinque ragioni

Uno stage a 40 anni, magari anche a 50. Perché si è perso il lavoro e ci si deve riqualificare. Per non restare a ciondolare per casa con le mani in mano. Perché in assenza di stipendio anche un minimo di indennità mensile fa comodo. Perché piuttosto che niente, meglio piuttosto: e molto spesso l'unica proposta avanzata dai centri per l'impiego come politica attiva è proprio quella di un tirocinio.Sono spiegazioni sensate. Eppure, no: uno stage a 40 anni, o addirittura a 50, anche no. A meno di situazioni molto particolari – che possono per esempio coinvolgere persone adulte con fragilità psichiche, o con dipendenze da alcol o altre sostanze, o ancora rimesse in libertà dopo aver scontato una pena in  carcere – lo dice il buon senso: a cinquant'anni non è giusto essere stagisti. Va bene, Robert De Niro ci ha fatto un film e certo, siccome è De Niro, la cosa lì risultava perfino divertente. Ma in realtà non lo è: per almeno cinque ragioni.La prima è che il tirocinio è uno strumento pensato per addestrare al lavoro giovani senza esperienza. Persone che non solo non hanno conoscenze professionali specifiche, ma hanno anche bisogno di imparare le “competenze trasversali” necessarie per stare nel mondo del lavoro: imparare a gestire la puntualità e le tempistiche, i rapporti con colleghi e superiori. Tutte cose che chi ha 40-50 anni sa già grazie alle precedenti esperienze lavorative.Seconda ragione, lo stage non è un contratto di lavoro: le somme mensili attribuite agli stagisti sono delle “indennità”, da non confondere mai con una retribuzione. Invece le persone adulte, ancor più dei giovani, hanno bisogno di un lavoro vero e di uno stipendio vero. Inoltre non solo il tirocinio (che sia “formativo e di orientamento“” o “di inserimento / reinserimento lavorativo”, è indifferente) non è di per sé un contratto di lavoro, ma la sua efficacia e la percentuale media di successivo inserimento lavorativo è scarsissima. Solo 13 stage su 100 si trasformano in assunzione. E squi irrompe il terzo punto: se già stagisti 40-50enni in imprese private hanno scarsa probabilità di essere assunti, le probabilità precipitano a zero in caso vengano piazzati in enti pubblici. Il caso dei “precari della giustizia”, oltre 2mila disoccupati adulti inseriti negli anni scorsi in tirocinio nei tribunali e negli uffici giudiziari – più per tappare i buchi di organico, a ben guardare, che per ricevere una formazione utile per trovare lavoro... – è un chiaro esempio di quanto usare lo strumento dello stage nella pubblica amministrazione sia rischioso, e finisca per generare frustrazione e far perdere tempo prezioso agli stagisti attempati (fornendo di solito, peraltro, competenze specifiche difficilmente spendibili altrove).Quarta ragione, gli stage non danno luogo a contribuzione. Lo stage cioè non prevede che vengano pagati i contributi: ciò vuol dire che se un 40-50enne viene coinvolto in un periodo di stage, nella sua posizione previdenziale si creerà un buco contributivo, che sarà poi un problema quando la persona andrà in pensione.Il quinto e ultimo punto è psicologico. Essere inquadrati come stagisti quando si hanno 40 o 50 anni, e si è magari padri e madri di famiglia, può risultare umiliante. Ancor di più se magari si hanno figli che fanno a loro volta uno stage. Nessuno dice che un adulto non possa aver bisogno di formazione - anzi, viviamo in un'epoca in cui progresso e innovazioni tecnologiche rendono indispensabile la formazione continua, intesa come aggiornamento professionale periodico. Nei casi più radicali è vero anche che si può aver bisogno di una riconversione professionale: per esempio se si viene licenziati da un'impresa che operava in un settore in declino, che non offre la prospettiva di poter trovare lavoro in un'azienda simile. Un minatore che perde il lavoro, per esempio, dovrà per forza imparare un altro mestiere, perché non troverà nuove miniere disposte ad assumerlo. Ma per questo esistono i corsi di formazione. Lo stage, limitiamolo ai giovani.Eleonora Voltolina

Centri per l'impiego, «Per una riforma davvero efficace servono tanti soldi»: l'analisi di Francesco Giubileo

I servizi pubblici per l’impiego e le politiche attive del lavoro sono radicalmente modificati dal dlgs 150/2015, meglio noto come Jobs Act. L’aver introdotto una norma nazionale in una materia che stando ad una sentenza della Corte Costituzionale è di competenza concorrente delle Regione (in attesa delle modifiche del Titolo V e del successivo esito referendario) significa produrre un complesso intreccio tra regolamenti nazionali e regionali. Tale complessità si è trasformata, dopo un acceso confronto tra Stato e Regioni, in una fase di transizione dove le competenze restano a livello regione per un periodo di almeno due anni, nel quale si spera di attuare quanto previsto dalla riforma. Ma cosa prevede la riforma? Un percorso di attivazione dei disoccupati, sintetizzata nello schema qui sotto (l'immagine rappresenta il percorso “idealtipico” previsto nel Jobs Act), dove giocano un ruolo strategico il sistema informativo del lavoro e i Centri per l’impiego.Sotto diversi punti vista quanto definito dalla riforma dei servizi pubblici per l’impiego è senza dubbio rivoluzionario, ma  constatato il fallimento della Garanzia Giovani - a meno che si consideri la semplice presa in carico un successo - impone perlomeno di porsi non pochi dubbi sull’effettiva attuazione di questo percorso. Vediamo in dettaglio le criticità.Le criticità della riforma sul Portale Unico e i centri per l’impiego ed eventuali soluzioni. Il Jobs Act attribuisce al sistema informativo del lavoro un ruolo chiave nelle politiche del lavoro, nel quale andranno ad integrarsi: gli attuali sistemi regionali, le fonti amministrative di diversa natura, e soprattutto dove tutti i disoccupati si registreranno - nel cosiddetto Portale Unico - per accedere ad una serie di servizi, ad esempio il profiling e la determinazione dell’offerta di lavoro congrua. A questo si aggiunge una serie di funzionalità strategiche in tema di servizi alle imprese come l’azione di marketing territoriale attraverso l’analisi delle Comunicazioni obbligatorie.Attività certamente condivisibili, peccato che al momento quasi nulla di questo è attualmente realizzato dal portale ClickLavoro - in parte solo il profiling, oggetto tra l’altro di ampie critiche - e pertanto sorgono notevoli dubbi sui tempi necessari per realizzare il nuovo portale. In particolare, non si comprende perché  non utilizzare piattaforme oggi già disponibili in grado da realizzare, con poche modifiche, quanto previsto dalla Riforma, in modo da essere operativi in un paio di mesi (si veda il Dynamic Labour Market Analyzer). Il secondo problema è la sostenibilità economica dei cpi. In tal senso non è ancora certa la cifra esatta destinata a questa spesa; si è appena raggiunto un accordo di massima tra Stato e Regioni, a spanne servono non meno di 400 milioni all’anno per far andare avanti la “macchina”. In realtà, il rischio è che buona parte di questi servizi sia finanziata con fondi comunitari, camuffando le attuali mansioni in “servizi” in modo da poter utilizzare quelle fonti. Il problema è che utilizzando tali risorse, il sistema nel suo complesso mancherebbe totalmente di progettualità di lungo periodo, perché è vincolato da bandi temporanei più interessati alla rendicontazione economica che dell’effettiva efficacia delle politiche del lavoro.Anche in questo caso, non è chiaro perché non si sia sviluppato una sorta di Sportello unico del lavoro mettendo insieme gli sportelli territoriale dell’Inps, i Cpi e le Camere di Commercio: attraverso una ristrutturazione e riorganizzazione si sarebbe ottenuta una struttura capillare sul territorio totalmente in mano all’Inps che ne avrebbe garantito la corretta copertura economica. Un progetto analogo a quanto realizzato in Gran Bretagna, dove i cpi (Jobcentre Plus) svolgono un ruolo fondamentale nell’erogare tutte le politiche del lavoro - e soprattutto a differenza del caso italiano, la condizionalità è garantita da un programma molto più articolato e scandito da tempi e servizi proporzionali alla difficoltà di ricollocazione del disoccupato (nell'immagine qui sotto, il Pacchetto integrato di politica del lavoro in Gran Bretagna; la fonte è il Department for Work and Pensions)Infatti il rischio se compariamo il modello Italia con quello della Gran Bretagna è che questa riforma nasca già vecchia. Ad esempio, nell’attuazione della condizionalità verrà utilizzato il Voucher di ricollocazione, ma sempre dall’esperienza anglosassone si evince come l’efficacia di uno strumento analogo, il Job Entry Target (European Commission 2012 - Performance management in Public Employment Services, Brussels), sia stata piuttosto modesta: si collocavano soprattutto i più bravi e in prevalenza in contesti economici favorevoli. Verso i disoccupati più difficili da collocare sarebbe invece opportuno costruire meccanismi più complessi, come il Work Programme, un modello di lungo periodo focalizzato sulla sinergia tra pubblico e privato.Il vero problema per attuare un programma del genere sta nel fatto che nel Regno Unito i dipendenti dei cpi sono 70mila e si spendono per questi servizi più di 5 miliardi di euro all’anno. Tra gli obiettivi di  Matteo Renzi, alle primarie del Partito Democratico, c’era quello di rendere efficaci i cpi italiani come gli analoghi uffici svedesi: ma ora per mantenere la promessa servono soldi, tanti soldi.Francesco Giubileo** Francesco Giubileo, dottore di ricerca in Sociologia, è stato di recente nominato nel consiglio di amministrazione di AFOL Metropolitana, l'Agenzia per la formazione, l'orientamento e il lavoro di Milano. È stato consulente sul tema delle politiche attive del lavoro per la Regione Lombardia e la Regione autonoma Friuli Venezia Giulia, docente a contratto alla Statale di Milano ed è autore di numerose pubblicazioni focalizzate su welfare, politiche occupazionali, efficientamento dei servizi per l'impiego e sinergia tra servizi pubblici e servizi privati.L'immagine di anteprima è tratta dall'intervista che la giornalista Rosanna Santonocito, responsabile della sezione Lavoro del sito del Sole 24 Ore, ha realizzato qualche tempo fa a Francesco Giubileo proprio sul tema della riforma dei servizi per l'impiego.

500 giovani per la cultura, sono stagisti o no? Il ministero della Cultura va in confusione

I tirocini al ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo non sono tirocini. O almeno questo vorrebbero sostenere dal suddetto ministero. Il "caso" è quello dei 500 tirocini messi a bando due anni fa, i "500 giovani per la cultura" passati dalle mani del ministro Bray a quelle del ministro Franceschini.Quei 500 tirocini, banditi tra le polemiche, attivati tra mille ritardi e attualmente in corso, secondo il direttore generale Caterina Bon Valsassina non sarebbero (più) tirocini: «il programma "500 giovani per la cultura" non rientra nelle casistiche indicate […] in quanto non si tratta di forma di lavoro né di tirocinio di formazione e orientamento» si legge infatti nero su bianco in una circolare emessa pochi giorni fa, il 15 ottobre, dalla Direzione generale Educazione e ricerca del Mibact.E allora come dovrebbero essere chiamati questi 500 "giovani" (tra molte virgolette, dato che alcuni hanno superato i trent'anni)? Se non sono lavoratori e non sono stagisti, cosa diavolo sono? Il ministero non lo specifica, limitandosi ad affermare nella circolare 62/2015 che si tratterebbe invece «di un programma formativo straordinario che non è equiparabile ad alcuna forma di lavoro dipendente e per il quale non è previsto un contratto bensì la sottoscrizione di un progetto». Il Mibact non dovrebbe ignorare il fatto che i tirocini rispondono proprio a questa descrizione: non sono lavoro dipendente, non vengono attivati tramite contratto, bensì attraverso la sottoscrizione di un progetto formativo (e una convezione).In effetti, come noi sulla Repubblica degli Stagisti avevamo notato immediatamente, riferendosi ai "500 giovani per la cultura" il Mibact aveva fatto ben attenzione a usare sempre la perifrasi «percorsi formativi»: in tutto il bando, pubblicato a dicembre 2013, non si trovava infatti mai scritta la parola stage, o tirocinio, e noi avevamo infatti rilevato che era come se come se si volesse accuratamente evitare di chiamare le cose con il loro nome.   Ma nel nostro ordinamento non ci si può inventare di sana pianta «un programma formativo straordinario» pretendendo che non sia «equiparabile ad alcuna forma di lavoro» e collocandolo in un limbo privo di nome e di quadro normativo: perché questo vorrebbe dire collocarlo al di fuori del perimetro del diritto del lavoro, cosa ovviamente impossibile. E infatti anche il ministero dei Beni culturali, pur non nominando mai la parola «stage» o «tirocinio», alla fine del bando (datato dicembre 2013), facendo il dovuto «rinvio alla normativa vigente», aveva dovuto ammettere come tutto il programma formativo spiegato fino a quel punto si appoggiasse sulla «normativa vigente in materia di tirocinio formativo e di orientamento». Lo stesso ministro dell'epoca - Massimo Bray - aveva parlato apertamente di tirocini sul suo sito web in un post intitolato proprio Perché 500 giovani per la cultura. «Abbiamo la possibilità di impegnare 2,5 milioni di euro in formazione» spiegava Bray, dopo aver messo in chiaro l'impossibilità di procedere con assunzioni malgrado la carenza di personale: «Con il decreto “Valore Cultura” abbiamo pensato di dedicarli a 500 giovani, per offrire a neolaureati l’opportunità di una specializzazione che li portasse dentro il patrimonio culturale».  E rispondendo alle critiche rispetto all'esiguità della indennità, specificava come essa fosse «quella prevista per i tirocini» e che dunque non ci fosse «nessuna volontà di sfruttare il lavoro dei giovani laureati bensì di offrire loro un’opportunità unica di formazione», aggiungendo anche che «i posti di tirocinio» non sarebbero stati a Roma bensì «distribuiti su tutto il territorio italiano, in modo da non obbligare nessuno che non possa permetterselo ad andare fuori sede».Dunque che senso ha emettere, a due anni di distanza, una circolare in cui il Mibact - smentendo sé stesso - sostiene che «non si tratta di forma di lavoro né di tirocinio di formazione e orientamento»? Il tema è rilevante; basti pensare che all'interno delle Linee guida sui tirocini extracurriculari concordate in sede di Conferenza Stato-Regioni all'inizio del 2013 è chiaramente specificato che esse «rappresentano standard minimi di riferimento anche per quanto riguarda gli interventi e le misure aventi medesimi obiettivi e struttura dei tirocini, anche se diversamente denominate». Messaggio molto chiaro: evitate di fare i furbi, cambiando semplicemente nome agli stage nel tentativo di sfuggire alle prescrizioni. La Repubblica degli Stagisti da sempre ritiene, coerentemente con questo punto, che si debba in ogni contesto fugare ogni dubbio sulla impossibilità di inventare nuovi nomi per attività simili ai tirocini.Non esistono, quando si parla di formazione e lavoro, «programmi formativi straordinari» o altre diciture che permettano di esulare dalla normativa vigente. Se una persona entra in un ufficio, tutte le mattine, svolgendo delle mansioni, deve essere inquadrata con precisione. Può essere un lavoratore: un dipendente subordinato oppure un collaboratore autonomo (un cococo, un cocopro, un consulente a partita Iva...). Oppure può essere uno stagista, cioè una persona che svolge un periodo di "training on the job", e allora si fa riferimento alla normativa sui tirocini (a proposito, ministero dell'Istruzione, a quando l'emanazione di una nuova legge su quelli curriculari? Siamo in vacatio legis da ormai tre anni!). Tertium non datur, con buona pace del ministero dei Beni Culturali. Anche perché, quale potrebbe essere il motivo per non qualificare correttamente uno stage? Per non uniformarsi ai dettami della normativa? Per erogare un rimborso spese inferiore ai minimi obbligatori? Per far durare i percorsi formativi più a lungo del consentito? Perché? La Repubblica degli Stagisti spera vivamente che corra ai ripari, annullando quella circolare e sostituendola con una più conforme non solo al bando cui fa riferimento, ma anche e sopratutto al diritto del lavoro italiano.Eleonora Voltolina

Nuovo Mae-Crui, i tirocini del ministero degli Esteri: una vittoria ancora incompleta

Lo voglio dire: la notizia del nuovo bando per gli stage al ministero degli Esteri mi ha emozionato. Chi ci segue da più tempo ricorderà che la battaglia della Repubblica degli Stagisti sui Mae-Crui è iniziata tanti anni fa. Già nel 2010 cominciammo a pressare il Mae affinché introducesse una indennità a favore degli stagisti: ci pareva allucinante che centinaia di giovani ogni anno facessero stage alla Farnesina ma anche nelle ambasciate, nei consolati e negli istituti di cultura in giro per il mondo senza ricevere neanche un euro. Il Mae-Crui diventava sotto questo punto di vista un impegno economico non indifferente - l'alloggio, il vitto, il viaggio a volte molto costoso, per chi era destinato ad alcuni Paesi addirittura l'assicurazione sanitaria - e di conseguenza era precluso a tutti i giovani che non avessero alle spalle una famiglia abbiente, in grado di pagare qualche migliaia di euro per permettere al pargolo lo stage all'ambasciata a NY o al consolato a Delhi.Siamo stati poi i primi e praticamente gli unici a seguire l'evolversi, quasi kafkiano, della sospensione dei Mae-Crui nel 2012, a seguito delle novità sugli stage contenute nella riforma Fornero e poi delle linee guida concordate in Conferenza Stato-Regioni in materia di tirocini. Abbiamo dato voce ai 555 giovani che si erano candidati all'ultimo bando, bloccato senza una vera ragione e poi fortunatamente sbloccato in extremis; e poi abbiamo lavorato incessantemente per convincere il Ministero degli Esteri a far ripartire il programma, per tornare a offrire questa opportunità di formazione ai giovani, trovando però i fondi per garantire finalmente un dignitoso rimborso spese.Oggi i Mae-Crui sono tornati. E prevedono una indennità. Per me è una piccola grande vittoria della Repubblica degli Stagisti, ottenuta - è giusto e anzi indispensabile attribuire chiaramente il merito della riuscita di questa operazione - grazie alla attenzione che a questo tema ha dimostrato nell'ultimo anno la giovane parlamentare democratica Lia Quartapelle. I giovani possono d'ora in poi tornare a candidarsi per queste opportunità, per la prima volta contando su un sostegno economico.Si tratta di 400 euro al mese. Sono pochi, lo so. Noi suggerivamo che fosse molto di più. Pensiamo che l'emolumento "giusto" sarebbe dovuto essere di almeno 500 euro al mese per i tirocini in Europa, e di almeno 1000 euro per i tirocini extraeuropei. Abbiamo martellato il Ministero degli Esteri, spulciato i bilanci, lanciato appelli a tutti i ministri che si sono in questi anni avvicendati - Franco Frattini, Emma Bonino, Federica Mogherini. Non siamo riusciti a portare a casa il risultato. Sarebbero serviti tra i 3 e i 4 milioni di euro, ci sembrava un risultato raggiungibile su un bilancio complessivo del Mae di 2 miliardi all'anno. Invece il ministero non li ha trovati, o non ha voluto trovarli. Ne ha trovati una piccolissima parte. Per questi primi 82 tirocini che partiranno il 1° ottobre il Mae mette sul tavolo circa 50mila euro, un po' meno in realtà perché in alcuni casi anziché il denaro contante offrirà agli stagisti l'alloggio gratuito. Altri 50mila li mette il ministero dell'istruzione. Di più, per ora, non si è riusciti a fare. Ma è un inizio.Ci sono altri punti critici di questo bando: la ripartenza dei Mae-Crui non è tutta rose e fiori. Innanzitutto vengono esclusi tutti i neolaureati: adesso si possono candidare solo gli studenti universitari. Questo è un grave danno per tutti coloro che si sono laureati di recente, sopratutto nel 2014 e nella prima metà del 2015. Tutti questi giovani sono capitati in un momento sfortunato, quello della sospensione dei Mae-Crui, e avrebbero avuto diritto a una chance. Sarebbe stato molto più responsabile, da parte degli organizzatori, prevedere almeno per questo primo bando una sorta di "platea allargata", a mò di sanatoria, permettendo anche ai neolaureati di candidarsi. Invece sono rimasti fuori.La platea dei candidabili, per giunta, si è ulteriormente ridotta perché rispetto al vecchio Mae-Crui alcune facoltà sono state depennate. Il caso più eclatante è quello degli studenti di Lingue, che erano degli "aficionados" del Mae-Crui: conteggiando tutti i partecipanti delle edizioni dalla prima, nel 2002, all'ultima nel 2012, gli studenti (e in quel caso anche i neolaureati) di Lingue rappresentavano ben il 12% del totale. Cioè oltre un maecruino su 10 era un linguista. Ora invece la facoltà di Lingue non appare tra quelle ammesse. Probabilmente perché la lista delle facoltà di provenienza, in questo nuovo corso del Mae-Crui - ora si chiama Maeci-Crui - è stata pedissequamente ricalcata sulla lista delle facoltà ammesse al concorso per diplomatici, in cui effettivamente Lingue non c'è.Un altro problema è il numero. 82 posti sono davvero pochissimi. È solo un inizio, certo: ma un inizio in sordina, che inevitabilmente delude un po' gli aspiranti maecruini, dopo tre anni di "dieta". Questo numero così scarso è certamente da legare alla volontà di tenere al minimo l'esborso per le indennità: 300 posti, che era il numero che prudenzialmente Lia Quartapelle aveva anticipato alla Repubblica degli Stagisti nell'intervista di aprile, sarebbero costati 180mila euro al Mae e altrettanti al Miur. Riducendo drasticamente il numero, i due ministeri invece se la sono cavata con 50mila a testa. Inoltre, si sono ridotte anche le sedi. Se il vecchio Mae-Crui distribuiva gli stagisti partecipanti tra ambasciate, consolati e istituti di cultura in giro per il mondo, il nuovo Maeci-Crui apre esclusivamente le sedi di ambasciata e le rappresentanze permanenti, in quanto almeno per ora il programma è legato a doppio filo alla campagna a sostegno della candidatura italiana al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, e questa campagna prevede un coinvolgimento attivo solamente delle ambasciate e delle rappresentanze. Restano perciò escluse dal Maeci-Crui tutte le altre sedi e dunque diminuiscono le opportunità per i giovani.Infine, la tempistica: questo bando è stato pubblicato a fine giugno e chiuderà lunedì 13 luglio, offrendo dunque agli aspiranti stagisti solamente due settimane per compilare la documentazione necessaria per candidarsi. Un paradosso è però che le candidature non verranno valutate subito: la graduatoria finale verrà comunicata indicativamente nella prima settimana di settembre, dando poi solo pochissimi giorni alle università per comunicare ai candidati prescelti la vittoria e solamente 3 giorni ai candidati stessi per confermare di voler partire. Una conferma che arriverà dunque, giorno più giorno meno, a sole 2 settimane dall'inizio effettivo dello stage. Cioè in due settimane i prossimi maecicruini dovranno riorganizzare la propria vita, acquistare eventualmente un biglietto aereo (e con così poco anticipo, si può facilmente immaginare che non saranno disponibili tariffe vantaggiose), arrangiarsi alla meglio per trovare un alloggio nella sede di destinazione. Non è una tempistica degna di un programma così importante.C'è da sperare che il Mae, il Miur e la Crui vogliano valutare attentamente, dopo questo primo bando "sperimentale", come portare avanti il Maeci-Crui nel migliore dei modi, correggendo la rotta e rimediando agli errori commessi. Per i giovani italiani, specialmente quelli che aspirano alla carriera diplomatica, questi stage sono molto importanti. Noi con la Repubblica degli Stagisti continueremo a vigilare su questo programma e a sensibilizzare incessantemente tutti gli attori coinvolti affinché vengano offerte ai giovani partecipanti le condizioni migliori possibili.Eleonora Voltolina

Le parole sono importanti, sopratutto in politica: troppe imprecisioni sul reddito di cittadinanza

L'altroieri il presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni, ha creato non poco scompiglio annunciando di voler attuare una misura di welfare speciale. «Voglio introdurre in Lombardia la prima sperimentazione del reddito di cittadinanza riservato ai cittadini lombardi», queste le parole del governatore leghista riportate dai quotidiani: «Ci sono proposte di legge, e quella presentata dai grillini mi interessa molto, me la sono letta in questi giorni ed è interessante perché riguarda anche formazione e lavoro». Parole che hanno sparigliato la scena politica: il segretario della Lega Matteo Salvini, suo compagno di partito, si è immediatamente dissociato, mentre ovviamente sono arrivate dichiarazioni di apertura dal Movimento 5 Stelle e dal centrosinistra, avversari del centrodestra in consiglio regionale. Ma le parole di Maroni, seppur basate su un assunto sostanzialmente giusto - che con il denaro pubblico si vada ad aiutare chi non arriva alla fine del mese, per evitare le situazioni di miseria - sono state usate, bisogna dirlo, un po' a casaccio.Forse Maroni non sa che il reddito di cittadinanza, se venisse mai attivato in Italia, lo prenderebbe anche Lapo Elkann, come scrivevano già due anni fa Tito Boeri e Roberto Perotti sul sito La Voce. Perché esso è una misura legata all'unico requisito dell'essere cittadini, non a quello di essere disoccupati e nemmeno a quello di essere poveri. In tutto il mondo, il reddito di cittadinanza è in vigore solamente nello Stato dell'Alaska, negli Stati Uniti: viene erogato a tutti, anche a chi un lavoro ce l'ha, anche a chi è ricchissimo.  Il pastrocchio si aggrava ancor di più se si lega - cioè si condiziona - l'erogazione di questo sussidio alla ricerca di un lavoro. Offrire un sacrosanto, indispensabile sostegno economico a chi ha perso il lavoro e lo sta cercando attivamente, affinché non sprofondi nell'indigenza, ha già un altro nome: si chiama sussidio (o indennità) di disoccupazione. La condizione per ricevere tale sostegno è, ovviamente, quella di non avere un lavoro ma di cercarlo: si tratta dunque di una misura temporanea, che va necessariamente accompagnata da un buon servizio di collocamento e per la quale è lecito - anzi auspicabile - imporre al percettore di agire attivamente per uscire dallo stato di disoccupazione e dunque smettere di pesare sulle casse dello Stato. Il sussidio di disoccupazione ha poi vari "gradi" a seconda della platea che va a servire: in Italia per anni è stato riservato solo ai lavoratori con contratto a tempo indeterminato che venivano licenziati. Il che ha significato una sistematica esclusione di tutti gli altri, generando una diseguaglianza inaccettabile che per fortuna gli ultimi governi hanno affrontato apportando correttivi e aprendo la fruizione di tale sussidio (attraverso Miniaspi, una tantum, e oggi con Renzi con la Naspi e la Dis-coll) a una platea molto più vasta - sebbene persistano ancora delle sacche di ingiustizia per alcune categorie di cittadini tagliati fuori. Si parla invece di sussidio di disoccupazione universale, o universalistico, quando è previsto che tutti coloro che non hanno un lavoro ma lo cercano attivamente possano accedervi, indipendentemente dalle condizioni contrattuali pregresse.C'è poi il "reddito minimo garantito", che è una cosa ancora diversa: è legato alla povertà, per garantire che nessuno debba vivere sotto la soglia dell'indigenza. Ha poco senso condizionare strettamente questa misura alla ricerca di lavoro perché, nei molti Paesi in cui è in vigore, il reddito minimo molto spesso viene erogato anche a chi un lavoro ce l'ha già, ma percepisce una retribuzione insufficiente. In questi casi il rmg va a colmare il gap, fornendo a chi lo percepisce una somma che gli permetta, aggiunta allo stipendio, di arrivare alla soglia minima di sussistenza. Per questo la professoressa Chiara Saraceno lo definisce in un altro modo: "reddito di garanzia per i poveri". Stefano Fassina lo chiamava, nella campagna elettorale del 2013 del Partito democratico, "reddito di ultima istanza". Non c'è un limite temporale alla fruizione del reddito minimo garantito, che cessa solamente qualora migliorino le condizioni economiche del beneficiario: bisogna però aggiungere che in molti Paesi il sussidio decade qualora si rifiutino proposte di lavoro giudicate congrue. Quando invece è senza condizioni, cioè pensato per essere percepito a livello individuale (non legato alla famiglia) da chiunque stia al di sotto di un certo reddito senza limiti di età né di tempo di fruizione, viene definito "reddito di base incondizionato".Insomma, le tre misure sono simili perché prevedono che lo Stato dia dei soldi ai cittadini, come fosse uno stipendio mensile. Ma confonderle è pericoloso. Del resto non a caso gli economisti hanno dato loro nomi diversi: perché vogliono proprio dire cose diverse. Costano cifre diverse. Sono legate a visioni di politica diverse. È troppo chiedere che chi ne parla sappia di cosa parla? Come mai questo aspetto, in apparenza solo semantico, è così importante? Perché il pericolo tracciato da George Orwell settant'anni fa è sempre dietro l'angolo: che attraverso l'impoverimento della lingua, l'asfaltatura delle sfumature e delle differenze, si finisca per anestetizzare il cervello della gente. La "neolingua", la chiamava lo scrittore inglese nel suo capolavoro 1984 - lo stesso in cui profeticamente raccontava una società sorvegliata dai mille teleschermi del "Grande fratello". Una lingua che, per com'era costruita, impediva ai cittadini di comprendere chiaramente non solo le scelte politiche dei governanti ma anche in generale la realtà, azzerando in questo modo la capacità di analisi e quindi di eventuale critica. La forma si faceva sostanza.La politica che Maroni propone non consiste in un reddito di cittadinanza, bensì in un sussidio di disoccupazione universale: quello che manca a livello nazionale, il presidente della Regione Lombardia vorrebbe dunque introdurlo per i cittadini lombardi. Due parlamentari grilline, Giulia Grillo della Commissione Affari Sociali della Camera e Nunzia Catalfo della Commissione Lavoro del Senato, hanno scritto alla testata online Linkiesta in risposta all'editoriale di ieri del direttore Francesco Cancellato, dal titolo  "Reddito minimo garantito: perchè non possiamo più farne a meno". «Il Movimento ha depositato in Parlamento una proposta di legge sul reddito di cittadinanza. Si tratta della possibilità di dare 780€ mensili (9.360€ l'anno) a persone con più di 18 anni disoccupati o percettori di reddito/pensioni, inferiori alla soglia di povertà» ricordano Grillo e Catalfo: «Com'è giusto che sia abbiamo previsto degli obblighi per i beneficiari come ad esempio l'iscrizione presso i centri per l'impiego; l'essere subito disponibili a lavorare; accettare proposte di riqualificazione o formazione, offire la propria disponibilità per progetti utili alla collettività». Dunque loro vorrebbero una forma ibrida tra sussidio di disoccupazione universalistico e reddito minimo garantito - perché ovviamente, comprendendo anche i pensionati, la condizione dell'iscrizione ai cpi non potrebbe essere richiesta a tutti. E anche loro, ahinoi, lo chiamano reddito di cittadinanza - una definizione che anche Beppe Grillo nei suoi comizi in campagna elettorale ha sempre preferito, anche se poi nel programma elettorale del 2013 il M5S chiamava questa sua proposta "sussidio di disoccupazione garantito". Si tratta, è vero, di materie un po' tecniche, che non tutti sono tenuti a conoscere. Ma sono materie che definiscono la collocazione di miliardi di euro ogni anno, e sarebbe bene che molti più cittadini le approfondissero e si facessero la propria opinione al riguardo. Ma sopratutto è indispensabile che chi fa politica - i decisori - e chi ne scrive - i giornalisti - quantomeno le studi, prima di parlarne in pubblico e perdipiù scriverle nero su bianco. Pena lasciare purtroppo il dubbio che si tratti di demagogia ad uso e consumo di titolisti e talk show.Eleonora Voltolina

Primo maggio, Garanzia Giovani compie un anno: 3mila voci di suggerimenti e critiche per il ministro Poletti

Primo maggio, su coraggio. Con il 43% di disoccupazione giovanile - quella propriamente detta, cioè rilevata nella fascia dei 15-24enni in cerca di lavoro - ma sopratutto con un tasso del 30% tra i 18-29enni e, ancor più grave, quasi del 20% tra i 25-34enni, la festa dei lavoratori in Italia ormai da anni anziché celebrare il lavoro che c'è finisce per celebrare la speranza di quello che verrà. L'anno scorso Giuliano Poletti, da poche settimane a capo del ministero del Lavoro nel neonato governo Renzi, decise di usare il 1° maggio come data simbolica per lanciare il programma Garanzia Giovani, l'iniziativa di matrice europea per contrastare la disoccupazione giovanile e favorire l'occupazione e (termine più vago) l'occupabilità. La Garanzia in Italia prevede che entro quattro mesi gli under 30 senza lavoro e al di fuori di percorsi di istruzione o formazione si vedano offrire dai servizi per l'impiego regionali una proposta di "politica attiva": una offerta di un ulteriore periodo di formazione, un accompagnamento al lavoro, un contratto di apprendistato, una opportunità di tirocinio, un percorso di servizio civile, un sostegno all’autoimprenditorialità, una proposta di mobilità professionale all’interno del territorio nazionale o in Paesi Ue… Insomma, una azione di sostegno attivo per uscire dallo stato di disoccupazione e inattività.Oggi, a un anno di distanza, sopratutto considerando che solo per l'Italia sul piatto della Garanzia Giovani ci sono 1,5 miliardi di euro, non ci si può esimere dal tracciare un primo bilancio. La Repubblica degli Stagisti ha scelto di farlo ascoltando i giovani, raccogliendo le loro voci, le loro storie: i racconti dei fruitori, effettivi o potenziali, di questa Garanzia Giovani. Attraverso una collaborazione con il centro studi Adapt ha elaborato un questionario online, veloce e anonimo, dando la possibilità a tutti gli under 30 interessati di venire a dire la propria. A questo "monitoraggio informale" hanno partecipato oltre 3mila giovani.Le loro parole, i loro giudizi, i voti che hanno dato all'iniziativa sono molto importanti. E anche se ovviamente non si tratta di un campione rappresentativo, in quanto la partecipazione al monitoraggio è stata volontaria e dunque assolutamente casuale, quello che questi 3mila giovani hanno raccontato della loro personale esperienza con Garanzia Giovani è prezioso e deve essere messo al centro dell'attenzione, dal ministero e dalle Regioni, in modo da poter correggere in corsa gli errori e le storture, e poter fornire un servizio migliore nei prossimi mesi. Cos'hanno detto questi giovani finora, lo trovate in una sintesi qui (da pagina 39). Ovviamente il lavoro non è che a metà: seguiremo i nostri 3mila durante i prossimi mesi - con i primi lo stiamo già facendo - attraverso dei questionari di recall, per dar loro modo di raccontarci come sta andando, se ci sono state novità, se il giudizio è cambiato. Questo ci permetterà a fine anno di poter delineare un quadro più completo di cos'abbia veramente voluto dire la Garanzia Giovani nella vita degli under 30 italiani in cerca di lavoro.Per ora uno degli elementi finora più evidenti, la criticità che con più frequenza i 3mila hanno evidenziato rispondendo al monitoraggio, sta nei tempi enormemente dilatati. Passa cioè troppo tempo dal momento dell'iscrizione online al primo contatto da parte dei servizi per l'impiego, e poi ci sono ancora tempi morti fino al momento della presa in carico, con l'appuntamento di persona e la firma del patto di servizio. E poi ancora tempi morti prima di ricevere una proposta concreta di politica attiva. Il primo obiettivo che ministero e Regioni dovrebbero perseguire, dunque, è quello di velocizzare il sistema.L'altra grande criticità della Garanzia Giovani sta nella rosa di offerte che si possono e potranno "garantire" a questi giovani partecipanti - che sono, secondo i dati ufficiali, ormai quasi 600mila. Ci sono corsi di formazione adeguati per questi giovani, che diano competenze e specializzazioni in linea con le richieste del mercato di oggi e di domani, e che permettano loro di essere immediatamente più appetibili per le aziende? Ci sono opportunità di stage serie, con progetti formativi interessanti, aziende disponibili ad accogliere stagisti mettendo loro a disposizione tutor preparati e magari anche a offrire uno sbocco occupazionale? E posti di lavoro, contando anche sugli incentivi economici che il programma prevede a favore di chi assume un partecipante di Garanzia Giovani, ne salteranno fuori prima o poi? Per ora c'è poco, e a macchia di leopardo, anche perché il piano si sviluppa Regione per Regione, con differenze anche notevoli.Molti dei 3mila "monitorati" su questo punto hanno raccontato storie mortificanti, qualcuno si è sentito addirittura suggerire di cercarsi le opportunità da solo e poi andare a farsele "vidimare" al centro per l'impiego. Altri hanno denunciato come il programma sia tarato solo per chi ha bassi titoli di studio, e che vedendo la laurea scritta sul cv alcuni addetti dei centri per l'impiego alzano gli occhi al cielo e invitano a cercare altrove, o addirittura a trasferirsi all'estero.Nel giorno della Festa del Lavoro, il primo maggio, è bene cercare di capire cosa non sta andando. E ammettere che, se l'intero programma si basa sul servizio di politiche attive del lavoro, non può stare in piedi né tantomeno raggiungere risultati positivi se questo servizio funziona male in partenza. I centri per l'impiego sono al centro della Garanzia Giovani; devono raccogliere le richieste di adesione, smistarle, contattare gli iscritti, chiamarli a colloquio, prenderli in carico, fare un bilancio delle loro competenze, e predisporre per ciascuno di loro una azione specifica, coerente con la formazione pregressa e possibilmente anche con le aspettative. Devono - dovrebbero - contattare le aziende del proprio territorio, sondarne i bisogni occupazionali, proporre con prontezza i candidati in linea con i requisiti richiesti, farsi protagonisti delle attività di matching tra domanda e offerta di lavoro in maniera propositiva. Tutto ciò non avviene, per ragioni quantitative e qualitative: gli addetti dei centri per l'impiego italiani sono numericamente troppo pochi, e nella maggioranza dei casi non hanno competenze adeguate. Alcuni singoli cpi, o alcune zone dell'Italia, fanno eccezione: hanno costruito in questi anni un dialogo con il proprio territorio, accresciuto la formazione delle proprie risorse, e sono in grado di fornire servizi efficienti ed efficaci. La maggioranza però galleggia appena sopra la soglia della sufficienza, limitandosi a sbrigare il minimo indispensabile, a fare da supporto ai disoccupati che percepiscono sussidi e che hanno bisogno della certificazione del loro status. Mancano drammaticamente, di fatto, le politiche attive.In questo quadro inserire un capitolo di lavoro in più, la Garanzia Giovani, con i suoi 600mila iscritti - di cui una buona metà finora sconosciuta ai centri per l'impiego - è stato come, dopo un terribile incidente automobilistico, convogliare decine di ambulanze piene di feriti gravi verso un piccolo ospedale di campagna, con attrezzature scarse, pochi medici non addestrati alle emergenze, e già tutti i letti occupati. L'unica soluzione per festeggiare degnamente, insieme al 1° maggio, anche il primo compleanno della Garanzia Giovani è smettere di pensare che la riforma dei centri per l'impiego possa avvenire «senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica». Dare ai cittadini un buon servizio di sostegno nella ricerca di un impiego, a cominciare dai giovani che in GG continuano a nutrire una speranza, non può materialmente avvenire gratis.Ci vogliono nuovi addetti, più preparati (perché non assumere, con un po' dei soldi del prefinanziamento della Garanzia appena aumentato dall'Unione europea, qualche addetto a tempo determinato - con una solida esperienza maturata nelle agenzie per il lavoro private - che finalmente dia vita agli annunciati "Youth Corner" all'interno dei cpi?). Ci vogliono strumentazioni informatiche al passo coi tempi, che aiutino chi lavora all'interno dei cpi a mappare il tessuto imprenditoriale circostante e a "matchare" velocemente i profili dei disoccupati con quello delle richieste delle aziende. Ci vuole formazione per i dipendenti già al lavoro, affinché diventino più capaci e veloci. Ci vuole un sistema meritocratico che incentivi i cpi a lavorare bene, anche legando una parte dello stipendio di manager e addetti ai risultati raggiunti. Perché nessun giovane si debba più sentir dire "trovati lo stage da solo e poi vienicelo a dire".Primo maggio, su coraggio ministro Poletti: la strada per rendere Garanzia Giovani davvero una garanzia, e in generale per dotare l'Italia di servizi all'impiego degni della media europea, è ancora lunga.

Expo, tante imprecisioni e una verità: in Italia c'è poco rispetto per i candidati in cerca di lavoro

Il caso di questi giorni è l'affaire Expo. Ieri un articolo sul Corriere della Sera, «Turni scomodi per lavorare all'Expo: 8 su 10 ci ripensano», riportava la notizia che molte opportunità offerte da Expo vengono snobbate rimarcando come, seppur per pochi mesi, i contratti "rifiutati" prevedano ottime condizioni retributive - 1.300 euro al mese - e ventilando la possibilità che a far desistere i potenziali lavoratori sia stato il calendario di lavoro, con turni anche di sabato e domenica.Un articolo che sarebbe stato "forte", se avesse contenuto informazioni verificate, numeri certi e campane diverse. Invece no. E la Rete non perdona. I social network permettono a ognuno di noi di commentare - e talvolta, come in questo caso, confutare - le notizie. Così l'articolo ha scatenato una sollevazione da parte dei tanti che si sono candidati in questi mesi per lavorare a Expo. Sono emerse in poche ore numerose storie di gente chiamata a colloquio a ottobre e poi tenuta in stand-by fino a marzo, addirittura ad aprile; persone che si sono sentite proporre l'inizio da un giorno all'altro; o che, inizialmente contattate per un lavoro, hanno poi scoperto che la proposta era in realtà uno stage, o che le ore di lavoro erano 4 al giorno e non 8.La furia è montata anche contro alcuni commentatori eccellenti, come Aldo Grasso e il suo videoeditoriale «I giovani rinunciano all'Expo, una generazione non abituata al lavoro», e le testate online si sono scontrate a colpi di articoli ed editoriali. «Expo, giovani che rifiutano il lavoro: ecco com'è andata» su Wired, «Bamboccioni contro affamatori, uno scontro che non serve a nulla» su Linkiesta, «Expo 2015, costretti a rifiutare il lavoro perché chiamati a 10 giorni dall’inizio» sul Fatto Quotidiano, «Expo 2015, i giovani a Grasso: "Ecco perché abbiamo rinunciato al lavoro"» su Vanity Fair, «Expo, Manpower, Corriere: la retorica dei giovani che non vogliono lavorare ha rotto il cazzo» su Valigia Blu, solo per citarne alcuni.Il mio pensiero è che sia sempre bene partire dai numeri. L'agenzia per il lavoro Manpower, vincendo una gara, è stata incaricata l'anno scorso da Expo di trovare 650 lavoratori da assumere con contratti d’apprendistato (340), alcuni della durata di 7 mesi e altri di 12, e contratti a tempo determinato (310). In più, all'interno di Expo è previsto uno "Youth Training Program" con l'attivazione di circa 200 stage con rimborso spese di 516 euro mensili e un pasto giornaliero. In totale, secondo le dichiarazioni del commissario di Expo Giuseppe Sala, sono 15mila le persone che lavorano o lavoreranno sul sito, tra il momento di costruzione e i sei mesi espositivi.A fronte di questi numeri, tutto sommato piccoli, sono arrivate a Manpower 160mila candidature per le posizioni di lavoro per Expo spa, e 150mila per i Padiglioni. L'agenzia ora scrive sul suo sito di aver reclutato e assunto circa 1000 persone «che stanno già lavorando e/o che inizieranno a lavorare a partire dal 1 maggio per Expo» (il numero dunque deve essere aumentato, nel frattempo, rispetto ai 650 contratti + 200 stage inizialmente annunciati), a cui si aggiungono altri 3.200 che lavorano (o inizieranno a lavorare) per i Padiglioni.Il fatto che si tratti di contratti temporanei è assolutamente normale, essendo Expo una esposizione temporanea. Anche il fatto che ai lavoratori si affianchino i volontari è un'altra cosa normale: il tema dei volontari è obbligatorio, come ha sottolineato tempo fa anche l'assessore al Lavoro del Comune di Milano Cristina Tajani (che peraltro ha annunciato oggi di aver scritto ad Expo spa e Manpower chiedendo di «avere evidenza del processo di selezione dei giovani assunti per Expo»). ll Bie - Bureau International des Expositions - chiede espressamente, quando si presenta il dossier per una esposizione universale, di indicare le forme di volontariato che facciano partecipare la società civile all’evento. Il volontariato insomma non è stato introdotto a Milano, ma è un must di tutti gli Expo, in qualsiasi città avvengano. Di volontari, per la cronaca, a Expo Milano ne saranno impiegati 7mila; presteranno servizio per 5 ore e 30 al giorno, per 14 o 15 giorni. Oltre a questo volontariato "standard" , ce ne saranno anche altre tre tipologie: uno lungo 12 mesi come volontari del servizio civile, uno da 6 mesi come fruitori della DoteComune Expo in collaborazione con Anci, e poi le esperienze di un solo giorno.Dunque, lasciando perdere il volontariato che deve sempre essere ben distinto dal lavoro, la questione "occupazione in Expo" si rivela tutto sommato semplice. C'è un grande evento temporaneo, che ha bisogno di lavoratori. Si apre una selezione, si valutano i cv, si fanno i colloqui, si chiamano le persone, si propone loro un contratto e una retribuzione, secondo la legge della domanda e dell'offerta con un preventivo accordo con i sindacati sui profili contrattuali e retributivi, e chi accetta viene assunto.Il problema è che, dai racconti dei tanti che hanno risposto al bando, emerge che molti di questi passaggi sono stati fatti "all'italiana". Cioè male. Senza calcolare bene i tempi. Senza informare in maniera trasparente i candidati. Lasciandoli in attesa per settimane o mesi. Fornendo loro informazioni contraddittorie. Richiamandoli e chiedendo la loro disponibilità in tempi brevissimi, senza preavviso (quasi si stessero reclutando ingegneri per il crollo improvviso di una diga, anziché lavoratori per un evento già previsto da anni). Senza considerare che alcuni potessero già essere impegnati in altri lavori. Proponendo, in sede di colloquio, condizioni contrattuali e retributive diverse da quelle prospettate inizialmente. Chiedendo di "passare a firmare" senza nemmeno inviare preventivamente il contratto, per permettere ai candidati di valutarne i contenuti. Compiendo in alcuni casi addirittura un sottoinquadramento, offrendo stage a persone che si erano candidate per un lavoro, o part-time a chi si era candidato per posizioni full-time.La verità la sanno solo Manpower ed Expo. Solo loro sanno davvero di chi è la responsabilità di questa disorganizzazione. Colpa degli impiegati di Manpower, incapaci di gestire tutte queste candidature, di costruire con i candidati una comunicazione chiara e trasparente dell'offerta lavorativa prospettata e di predisporre una chiara tabella di marcia con gli avvii contrattuali da compiere? Oppure colpa di Expo, che anche a causa degli scossoni organizzativi degli ultimi mesi potrebbe aver chiesto a Manpower di attendere l'ultimo secondo prima di procedere con le contrattualizzazioni, preferendo tenere tutti in stand-by?Non penso che lo sapremo mai, anche se ognuno di noi può farsi una sua idea. La mia è che sia improbabile che una società enorme come Manpower si sia fatta trovare impreparata a poche settimane dall'inaugurazione della manifestazione; e che se ha trattato davvero i candidati come loro raccontano di essere stati trattati, dando informazioni sommarie e lavorando su tempistiche schizofreniche, non lo ha fatto per sua inefficienza, ma per soddisfare la richiesta del cliente. Ma è solo un'ipotesi.Per quanto riguarda il merito, cioè il contenuto effettivo delle proposte di lavoro e di stage in Expo, esse non sono il top, ma sono dignitose. Pagare 1000-1300 euro al mese un lavoratore, offrire una indennità di 516 euro a uno stagista: non sono condizioni da "top employer", certo, ma nemmeno da schiavisti. Nel libero mercato, ci sta che un'azienda offra queste condizioni; allo stesso modo ci sta che alcuni dei candidati le valutino buone e accettino, e che altri le considerino troppo basse, e rifiutino. Il corto circuito sta nel modo in cui i candidati vengono trattati: e qui si dovrebbe aprire un discorso lunghissimo su quanto siamo purtroppo indietro, in Italia, sul tema dei rapporti tra candidati, lavoratori e aziende che assumono. L'unica cosa evidente è che Expo non ci ha fatto per niente una bella figura. La speranza è che la polemica di questi giorni funga da detonatore, per migliorare la situazione e fare in modo che sia Expo sia gli intermediari che ha scelto per relazionarsi con i lavoratori temporanei, Manpower in testa, si comportino in maniera più trasparente e corretta con i selezionati che sono ancora in attesa di essere chiamati.Eleonora Voltolina

Precari e pensioni, le stigmate dei contributi bassi e il rischio povertà

"Noi giovani" avremo mai una pensione decente? Chi è nato dalla seconda metà degli anni Settanta in poi, che ha cominciato a lavorare a partire dagli anni Novanta, tra quarant'anni riuscirà a mantenersi con quello che percepirà di pensione? Su queste generazioni si è scatenata, in Italia, una serie di calamità pressoché apocalittiche. Prima c'è stato il cambio di modello pensionistico, da retributivo a contributivo, in vigore integralmente su tutti coloro che hanno cominciato a lavorare nell'ultimo ventennio (esclusi coloro che entro il 1995 avevano già accumulato 18 anni di contributi). Il modello retributivo - valido per i 9/10 delle pensioni oggi erogate - prevede che uno percepisca una cifra quasi uguale al suo ultimo stipendio. Il contributivo invece calcola al centesimo la pensione sui contributi versati: un sistema più sostenibile per le casse dello Stato, ma molto meno generoso per chi con la pensione ci deve vivere. Poi ci sono state le riforme del mercato del lavoro, che tra il 1997 e il 2003 hanno ridisegnato contratti e tutele, rendendo molto più precario e accidentato quantomeno il primo periodo lavorativo dei giovani. Un "primo periodo" che prima si contava in mesi, adesso purtroppo in anni. E poiché oggi un giovane cambia spesso lavoro, quando ne trova uno, non di rado i suoi contributi finiscono spezzettati in più casse previdenziali, non solo l'Inps: e le procedure per "ricongiungere" questi contributi sono bizantine e spesso costose. Col risultato che spesso si "abbandonano", talvolta senza nemmeno saperlo, dei contributi versati. Inoltre in Italia si viene pagati poco: specialmente i giovani percepiscono retribuzioni bassissime, a volte irrisorie. Il fatto di essere mal retribuiti ovviamente comporta una impossibilità di risparmiare - e infatti molti giovani erodono, di fatto, i risparmi delle loro famiglie d'origine che si svenano per pagare case, integrare i magri stipendi e far fronte alle spese improvvise - e una impossibilità di pagarsi pensioni integrative. Infine ci si è messa la crisi: dal 2007 in poi una emorragia di posti di lavoro, di cui hanno fatto le spese prima di tutto coloro che avevano contratti a termine, cioè sopratutto i giovani. Tutte queste circostanze messe insieme producono un risultato pessimo per quanto riguarda il futuro: la maggior parte dei giovani oggi trova lavoro con difficoltà, lavora in maniera discontinua e dunque paga contributi in maniera discontinua, viene pagata poco e dunque versa quote contributive molto basse. Tutto questo fa sì che i loro, direi i nostri, contributi siano miseri. E col sistema contributivo lo dice la parola stessa: contributi miseri uguale pensioni misere.La riforma Fornero delle pensioni, che ha creato tanti malumori e di cui oggi da più parti si invoca una revisione, ha rivisto al rialzo l'età pensionabile - creando peraltro l'allucinante problema degli esodati - ma non ha affrontato questo problema. Che è invece l'unico aspetto che davvero inciderà sulla qualità della vita di almeno due-tre generazioni. Si rincorre una illusione: che chi ha cominciato male, accumulando contributi bassi e discontinui e spezzettati in varie casse nei primi cinque o dieci anni di vita lavorativa, poi possa improvvisamente andare molto meglio. Certo, lo auspichiamo tutti: ma oggettivamente, realisticamente tutti i precari sottopagati nati tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Novanta non vivranno un miracolo italiano. L'Italia non ricomincerà a crescere come faceva negli anni d'oro, a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio degli anni Sessanta, quando la crescita era del 7% annuo. Siamo in stagnazione da anni, direi da decenni; se ci riprenderemo, ed effettivamente stiamo cominciando a riprenderci, ci vorranno certamente molti anni perché il mercato del lavoro ridiventi florido. La mia generazione e quelle successive dunque porteranno sempre le "stigmate" di questo inizio funesto: la loro pensione subirà sempre un drastico ribasso proprio a causa degli anni sfortunati. Alla politica dunque si deve chiedere con forza di affrontare questo problema, e ideare un correttivo per proteggere le generazioni che andranno in pensione nel 2030-2040 dal rischio concreto di indigenza. Se non lo farà, potremo ancora per venti o trent'anni nascondere la testa sotto la sabbia: ma poi, quando vedremo le file di professionisti italiani neopensionati davanti alla Caritas, non potremo più farlo.Il rischio maggiore, il quadro più eloquente di quel che potrebbe accadere se ci ostinassimo a non prendere sul serio questo problema, è che una persona che ha lavorato per quarant'anni finisse per prendere come pensione la stessa cifra della "pensione sociale", che viene erogata anche a chi non ha lavorato mai. I famosi 500 euro al mese, schiaffo alla povertà: già sono pochi per chi li riceve "in regalo" dallo Stato, in un'ottica di redistribuzione e di contrasto alla povertà. Sarebbero pochi, ma sopratutto sarebbero uno schiaffo alla dignità, per chi invece li ricevesse dopo una vita di lavoro e di contributi pagati.L'arrivo di Tito Boeri alla presidenza dell'Inps, l'ho già scritto e lo ribadisco, è una buona notizia per i giovani e per i precari. Si tratta di un professore che fin da tempi non sospetti si è occupato delle diseguaglianze sul mercato del lavoro e anche sullo specifico tema delle pensioni, e che ha preso pubblicamente posizione a favore di riforme che riequilibrassero il sistema, sia dal punto di vista della selva dei contratti di lavoro, con una sua proposta di contratto unico che per molti versi è simile a quel che ha appena realizzato il governo Renzi con il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, sia dal punto di vista dell'equità previdenziale. L'altra sera nella trasmissione di Lilli Gruber Boeri ha confermato di voler fare quello che il suo predecessore Mastrapasqua aveva sempre evitato in tutti i modi: inviare la famosa “busta arancione”, con il prospetto dell'assegno pensionistico basato sulle proiezioni di retribuzione e contribuzione, a partire dai dati passati e presenti - dei contributi finora versati insomma. Noi come Repubblica degli Stagisti ci battiamo da anni perché queste buste arancioni arrivino sopratutto ai precari e ai freelance: la promessa di Boeri è dunque un balsamo rispetto alle irrispettose parole (e azioni) di Mastrapasqua, che temeva il “sommovimento sociale” e preferiva tenere le informazioni più negative nelle segrete stanze, lasciando i cittadini nell'ignoranza. Solo conoscendo invece il problema ci sarà la possibilità di creare la massa critica necessaria a farlo arrivare in cima all'agenda politica del governo, e auspicabilmente ad arrivare a una soluzione.Non solo: Boeri a Ottoemezzo ha annunciato di voler lavorare a una proposta, da presentare al pubblico a fine giugno, su una riforma complessiva del sistema pensionistico italiano. Speriamo davvero che in questa proposta tenga conto anche della drammatica prospettiva futura di centinaia di migliaia di persone che oggi sono giovani lavoratori, precari e sottopagati, e che domani con ogni probabilità saranno pensionati sotto la soglia della povertà. E che affronti il tabù dei contributi silenti: quei contributi versati da lavoratori che poi per un motivo o per l'altro non hanno raggiunto i requisiti minimi per poter ricevere una pensione. Quei contributi in altri Paesi vengono resi indietro al lavoratore che li ha versati, un gesto non solo di equità ma anche di semplice onestà: lo Stato non può "rubare" dei soldi, obbligando il lavoratore a versarli e tenendoseli in caso non vengano raggiunti i requisiti affinché quei soldi accantonati rendano un assegno pensionistico. Chiediamo a Boeri, e a Poletti, di dimostrare coraggio anche su questo punto, delicatissimo perché i conti dell'Inps stanno in piedi anche grazie a questi piccoli e grandi "scippi": perché ogni centesimo versato in contributi deve tornare al lavoratore, sotto forma di pensione oppure sotto forma di ri-accredito una tantum del montante versato. Cosa che ad oggi non avviene, col risultato che molti pagano "inutilmente" i contributi, pur nella consapevolezza che non si trasformeranno mai in pensione.In ogni caso, il problema più grande di tutti resta la scarsissima consapevolezza di questo problema nella opinione pubblica. Ancor più che di Boeri, infatti, il dramma del futuro previdenziale dei precari di oggi dovrebbe essere la priorità dei precari di oggi. Che invece, fagocitati dal problema numero 1 - e cioè il lavoro: trovarlo, tenerlo, sopravvivere tra un contratto e l'altro - e concentrati solo sul presente, sembrano sottovalutare la questione pensione. Liquidandola a volte, un po' fatalisticamente, con la frase "Tanto noi la pensione non la vedremo mai". Quasi a gettare preventivamente la spugna: non si possono combattere due battaglie nello stesso momento, quella per il lavoro e quella per la pensione. Eppure la verità è che le due battaglie sono una sola: concentrarsi su un fronte lasciando scoperto l'altro rischia di creare un vero e proprio dramma sociale tra pochi decenni. “Ah, averlo saputo prima…” Ecco, sappiatelo prima, sappiamolo tutti prima: e attrezziamoci perché non succeda.

Due o tre cose che la commissaria Thyssen dovrebbe sapere sulla Garanzia Giovani in Italia

Vista la situazione disastrosa dell'occupazione giovanile in tutta Europa, la Commissione europea vuole destinare un altro miliardo di euro alla Youth Guarantee. Questo è il succo di una lettera aperta che la belga Marianne Thyssen, commissaria europea per l'occupazione, ha inviato al Corriere della Sera nei giorni scorsi. L'articolo, apparso nella pagina Analisi e commenti di sabato con il titolo «I fondi per i giovani poco utilizzati», denuncia un fortissimo ritardo nell'implementazione della Garanzia Giovani, che «ha una dotazione totale di 6,4 miliardi di euro destinati a fornire un sostegno ai soggetti più svantaggiati: i giovani disoccupati che non rientrano in nessun ciclo di istruzione, tirocinio o formazione» ricorda la Thyssen, tracciando quella che - nel migliore dei mondi possibili - dovrebbe essere la funzionalità della GG nella vita quotidiana dei giovani europei senza lavoro: «Nella pratica, rivolgendosi al servizio pubblico per l'impiego, un giovane disoccupato dovrebbe beneficiare quasi immediatamente di misure finalizzate all'occupazione, alla formazione o all'accompagnamento professionale». Facile a dirsi, più difficile del previsto a farsi: «Purtroppo devo constatare che, a quasi due anni dal lancio dell'iniziativa, i risultati raggiunti sono al di sotto delle aspettative» scrive nero su bianco la commissaria Ue, dando una sua spiegazione allo stallo: «Gli Stati membri hanno avuto difficoltà a reperire i finanziamenti per attuare le attività e le misure previste. I governi devono infatti prefinanziare i progetti con il bilancio nazionale prima di essere rimborsati dai fondi dell'Ue» spiega la Thyssen «e questo è stato difficile proprio per i Paesi con i livelli più alti di disoccupazione giovanile, che sono al tempo stesso quelli soggetti ai maggiori vincoli di bilancio». Risultato? «Dopo due anni i fondi non sono ancora arrivati ai giovani, oppure sono arrivati in misura insufficiente». Individuando dunque la commissaria Thyssen nella gestione contabile delle risorse il problema principale che determina la paralisi di Garanzia Giovani, l'annuncio al Corriere è quello di una iniezione di ulteriore denaro: «La mia principale proposta legislativa riguarderà un aumento di un miliardo del prefinanziamento delle operazioni a favore dell'occupazione giovanile. Così gli Stati membri avranno i finanziamenti necessari per lanciare subito le misure utili a creare posti di lavoro, tirocini e programmi d'istruzione e formazione». Un miliardo che potrebbe essere sbloccato subito: «Se il Consiglio e il Parlamento sosterranno questa misura l'importo sarà disponibile in tempi molto brevi».Un miliardo di euro in più, dunque. Ma è questo che serve davvero? Egregia commissaria Thyssen, almeno per quanto riguarda l'Italia il problema principale non sembra essere quello dei fondi, l'impossibilità da parte dello Stato di anticipare le spese e poi chiedere il rimborso all'Ue. Di denari, in definitiva, ve ne sono già molti sul piatto. I problemi veri sono altri due, ben diversi e ben definiti, che purtroppo non si risolvono con soldi in più.Il primo e più grave problema in Italia è che i servizi per l'impiego non funzionano. Non funzionavano già prima di Garanzia Giovani, e non funzionano a maggior ragione oggi, anche perché il surplus di lavoro dato dalla GG non è stato compensato da un aumento del personale, magari con competenze specifiche nel campo del matching domanda-offerta di lavoro. I nostri centri per l'impiego restano, per la maggior parte, inefficienti. Ogni giovane che si iscrive alla GG si trova a dover attendere tempi lunghissimi non solo per la prima chiamata, ma anche per quelle successive. Il sistema è inaccettabilmente lento e quella sua frase sacrosanta, commissaria - «Nella pratica, rivolgendosi al servizio pubblico per l'impiego, un giovane disoccupato dovrebbe beneficiare quasi immediatamente di misure» - diventa quasi una beffa alle orecchie di chi sta aspettando ormai da quattro o cinque mesi, senza aver ancora ricevuto nessuna proposta concreta.Dunque bene un miliardo in più da parte dell'Ue per far finalmente decollare la Garanzia Giovani, ma solo stando bene attenti a che la parte di quei soldi destinata all'Italia sia destinata sopratutto a un miglioramento dei servizi per l'impiego, auspicabilmente con l'assunzione - anche solo temporanea - di addetti capaci di sveltire i processi e fornire ai giovani che richiedono la GG un servizio immediato, efficiente e incisivo, e con l'introduzione di nuovi strumenti di lavoro che facilitino da parte di questi addetti il contatto con le aziende del territorio, per individuare le posizioni vacanti e realizzare quel famoso matching finora solo sulla carta. Solo con un vincolo di questo tipo si potrà sperare che in Italia il meccanismo della GG finalmente cominci a funzionare speditamente.Il secondo problema in Italia è che le aziende non ne vogliono sapere della Garanzia Giovani. Le sembrerà impossibile, commissaria Thyssen, ma malgrado tutti gli incentivi economici promessi, le imprese private italiane sono immensamente restie ad entrare in collaborazione con GG, aprendo opportunità di stage e di lavoro per i disoccupati under 30 italiani. Lo sono un po' perché non la conoscono, essendo stati finora poco efficaci le campagne di comunicazione su questa iniziativa a loro dedicate, ma lo sono sopratutto perché i meccanismi burocratici previsti per accedere al sistema e ricevere gli incentivi sono talmente lunghi e farraginosi che alla fine la maggior parte delle aziende rinuncia in partenza. Certo, qui ha il suo peso anche la crisi economica, che in Italia come e più che nel resto d'Europa ha ridotto moltissimo il numero di opportunità lavorative - specialmente quelle destinate ai profili più giovani. Ma un minimo di mercato del lavoro c'è ancora, ovviamente, anche in Italia: ogni giorno le aziende pubblicano annunci ricercando stagisti e lavoratori, ogni giorno selezionano cv e fanno colloqui. Ogni giorno vengono attivati stage e contratti: ma le aziende non si fidano a farlo attraverso la Garanzia Giovani. Preferiscono perdere il vantaggio del bonus economico piuttosto che infilarsi nell'intricatissimo sistema ideato per farle partecipare alla GG.Le basti sapere, commissaria Thyssen, che solo per quanto riguarda le indennità economiche agli stagisti di Garanzia Giovani l'Inps - l'Istituto nazionale della previdenza sociale italiano - ha diramato a fine ottobre un "messaggio" di 10 pagine - 10 pagine! - con le istruzioni procedurali e contabili. Scorrendolo cadono le braccia: un complessissimo gioco di rimandi, carte che rimpallano tra stato centrale e Regioni, soldi che devono essere periodicamente anticipati, come "provvista finanziaria", e che poi verranno restituiti, indennità che vengono erogate solo dopo la ricezione di un elenco fitto di dati sui tirocinanti beneficiari, di nuovo con rimpallo tra ministero e Regioni e con prevedibilissimo rischio di accumulare ritardi (tanto che nella circolare si legge testualmente che l'Inps «non assume alcuna responsabilità nei confronti dei beneficiari per eventuali ritardi nei pagamenti dell’indennità di tirocinio derivanti da accreditamenti tardivi della provvista finanziaria ovvero da ritardi nella trasmissione dell’elenco dei tirocinanti beneficiari e dei relativi dati»).Tutto questo - la burocrazia, le lungaggini - comprensibilmente scoraggia le aziende, che dunque quantomeno in Italia stanno riservando alla Garanzia Giovani un'accoglienza molto fredda, e restano defilate privando i giovani di quelle opportunità cui loro anelano e che dovrebbero rappresentare il fine principale della GG. Dall'altra parte, di conseguenza, anche tra i giovani cresce lo scetticismo nei confronti di questa iniziativa. Come Repubblica degli Stagisti stiamo realizzando da alcuni mesi un monitoraggio informale dell'attuazione della Garanzia Giovani, in collaborazione con l'associazione Adapt. Abbiamo già raccolto quasi 2mila voci e ci sentiamo di dirle, commissario Thyssen, che il sentimento più diffuso dei giovani italiani che si sono iscritti alla GG è proprio quello della sfiducia e della disillusione, nonché della esasperazione per i tempi lunghi e per le scarse opportunità prospettate.Bisogna certamente invertire la rotta e mettere il turbo alla Garanzia Giovani, affinché non resti solamente un bellissimo progetto sulla carta, miseramente fallito nella pratica. Aggiungere un miliardo di euro ai 6 e mezzo già stanziati potrà servire solo a patto di vincolarne l'utilizzo al miglioramento sostanziale della gestione pratica, sopratutto - almeno per quanto riguarda l'Italia - rispetto all'efficienza dei centri per l'impiego e della facilità di adesione da parte delle aziende.