Categoria: Editoriali

Mae-Crui sospesi: una pressione per essere esonerati dal (futuro) obbligo di compenso agli stagisti?

La notizia che il ministero degli Esteri ha sospeso il II° bando 2012 di tirocini Mae-Crui, gelando oltre 500 studenti e neolaureati selezionati tra migliaia di candidati in primavera, già dichiarati vincitori e ormai convinti di partire il 3 settembre per tre mesi di training on the job alla Farnesina (per circa 350 di loro) o in giro per il mondo tra ambasciate, consolati e istituti di cultura (per i restanti 200) sta facendo il giro del web. Un articolo di Carmine Saviano campeggia oggi in homepage sul sito di Repubblica, e il gruppo su Facebook degli esclusi - arrabbiatissimi per l'opportunità sfumata all'improvviso - si arricchisce di ora in ora di nuovi contenuti.Partito come sempre dalle pagine di questo sito, il caso è sorprendente ed emblematico per diversi aspetti. Come si evince anche dal titolo un po' apocalittico dell'articolo su Repubblica («Se la riforma Fornero cancella il futuro»), il Mae sostiene che la colpa è della riforma del mercato del lavoro appena approvata, che avrebbe emanato «nuove disposizioni in materia di tirocini». Lo scrive nero su bianco un funzionario, Vincenzo Palladino, che però non vuole aggiungere altro rimandando al suo superiore, Daniele di Ceglie, responsabile del progetto. Che però guarda caso, proprio nei giorni in cui l'iniziativa a lui affidata finisce nella bufera, risulta in ferie e irraggiungibile. In compenso la Farnesina si affida stamane a una nota per spiegare che reputa «indispensabile disporre di un quadro di riferimento normativo chiaro e preciso» e che «solo a seguito della definizione delle linee-guida sarà possibile rivedere la disciplina degli stage presso il Mae».La nota esce a poche ore dalla pubblicazione sul sito ufficiale della Crui, la conferenza dei rettori delle università italiane - partner del Mae per l'organizzazione di questo progetto - di un comunicato che esprime «perplessità all'effetto combinato del comma 34 lettera D e del comma 36 dell'art. 1 del ddl n° 5256 [...] la cosiddetta Riforma Fornero. Al comma 34, fra i criteri previsti per i tirocini formativi e di orientamento si legge: "riconoscimento di una congrua indennità, anche in forma forfetaria, in relazione alla prestazione svolta". D'altra parte al comma 36 si sottolinea come "Dall'applicazione dei commi 34 e 35 non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica"». Concludendo con una deduzione logica che definire forzata è un eufemismo: «Le due prescrizioni rendono di fatto impossibile prevedere esperienze di formazione on the job nella Pubblica Amministrazione».C'è di che restare esterrefatti. O gli avvocati del Mae e della Crui sono digiuni di diritto, e incapaci di differenziare tra una norma di legge e un provvedimento che rimanda ad altro e successivo provvedimento, oppure c'è chi sta montando un caso ad arte: un qualsiasi studente universitario, e non solo di giurisprudenza, si rende infatti conto fin dalla prima lettura dell'articolo in questione che esso non é prescrittivo. Non è assolutamente vero che imponga di erogare un rimborso. L'articolo dice solo che ministero e Conferenza Stato-Regioni dovranno produrre entro sei mesi da oggi (tecnicamente anzi dal 18 luglio) linee guida in questo senso. Molto chiaro, molto facile capire. Nessuna possibilità di interpretare: l'obbligo di erogare la «congrua indennità» non esiste al momento e non esisterà fintanto che, entro i prossimi sei mesi, ministero e regioni non si accorderanno sul testo delle linee guida. Tutto al momento è esattamente come prima per quanto riguarda i tirocini. La riforma Fornero non ha cambiato nulla: ha espresso un indirizzo e previsto un successivo provvedimento. Ma non ha introdotto nessuna novità immediata alla normativa sugli stage.Difficile credere che i vertici degli uffici legali di Mae e Crui non si rendano conto di questo. Che siano caduti in un enorme equivoco. Che abbiano capito male. Difficile che realmente credano che sia possibile che le linee guida vengano stese, discusse e approvate trovando un accordo tra ministero e Regioni in poche settimane, per giunta in periodo estivo, e che entrino in vigore prima del 3 settembre. Quindi, difficile credere alle spiegazioni fornite. E allora? Allora bisognerebbe chiedere «cui prodest»: a chi giova questa polemica. E ragionare non sul breve periodo, ma sul medio e sul lungo.Mae e Crui gestiscono da oltre un decennio un programma che coinvolge quasi 2mila giovani universitari ogni anno. È una riga prestigiosa da aggiungere al cv, specie per quei ragazzi che sognano una carriera diplomatica. Tanto che il Mae-Crui ha potuto continuare per anni a esistere, registrando a ogni bando migliaia di richieste di partecipazione, pur non prevedendo nemmeno un euro di rimborso a favore degli stagisti. Tutto sulle spalle delle famiglie, anche i viaggi aerei per le sedi più sperdute, addirittura per alcuni Paesi le assicurazioni sanitarie. Dal canto suo, in questo modo il ministero degli Esteri ha potuto garantirsi ogni anno l'apporto prezioso ed entusiasta di centinaia e centinaia di giovani, braccia e cervelli a disposizione e a costo zero, spesso in grado di sopperire alla scarsa produttività dei dipendenti regolarmente assunti (e lautamente pagati) della Farnesina e delle varie ambasciate, o quantomeno di tappare i buchi di organico - sempre più frequenti in tempi di blocco del turn-over. Dunque il Mae-Crui, fuori dai denti, è anche un grande business.Si pensi allora un attimo a cosa succederebbe se, a ottobre o a novembre o a dicembre, uscissero  – stavolta davvero – le nuove linee guida sui tirocini. E stabilissero – stavolta davvero – che si debba dare obbligatoriamente un rimborso agli stagisti. Il Mae, così come moltissimi altri enti pubblici, si troverebbe di fronte a una scelta drastica. O chiudere il progetto di tirocini, rinunciando a questi 1800-1900 stagisti che per lunghi anni sono stati una vera e propria manna dal cielo, coadiuvando il personale diplomatico in ogni ufficio e funzione. Oppure inserire finalmente (meglio tardi che mai) in bilancio una voce per i rimborsi. Come peraltro hanno già fatto molti altri enti pubblici, tra cui perfino alcuni ministeri.La Repubblica degli Stagisti porta avanti la battaglia perchè venga intrapresa questa seconda strada da molto, molto tempo. Ormai due anni fa lanciò un appello - rimasto purtroppo senza risposta - all'allora ministro Franco Frattini, dimostrando che sarebbe bastato destinare una frazione molto piccola del bilancio annuale del ministero degli Esteri (solo lo 0,2%) per poter garantire un degno rimborso a tutti gli stagisti Mae-Crui: 500 euro al mese per chi fosse stato destinato alla Farnesina o a destinazioni europee, 1000 euro al mese per tutti gli altri. Questo perchè il Mae dispone di un bilancio poderoso, oltre due miliardi di euro, da cui sarebbe facile - e molto etico - estrapolare quattro milioni all'anno per gli stagisti. Si tratterebbe dunque di spostare risorse da una voce di bilancio all'altra, senza generare «maggiori oneri» per lo Stato. Facendo un po' di pulizia, riducendo gli sprechi (non pochi per esempio conoscono e criticano le cifre folli destinate alle spese di rappresentanza e in particolare ai catering degli eventi), e trovando le risorse necessarie per gli stagisti.Però questo «prodest» poco ai diretti interessati. Perché, si sa, i tagli piacciono sempre a tutti tranne che a quelli che dovrebbero subirli. E qui il nodo viene al pettine e si può forse cominciare a capire il senso  di questa sospensione. Il Mae non ha paura per adesso. La sospensione del II° bando 2012, così inopportuna, così inutile (i tirocini inizierebbero e con tutta probabilità finirebbero prima ancora che le nuove linee guida abbiano il tempo di vedere la luce - e in ogni caso nessuna legge in Italia è retroattiva), suona dunque come un avvertimento. Una pressione che il Mae rivolge al ministero del Lavoro. Con quale obiettivo? Magari quello di essere esonerato dal rispetto della futura normativa, e in particolare dal rispetto del futuro obbligo di compenso.Non è fantascienza. C'è un precedente preoccupante. Uno dei pochi Paesi dove il compenso agli stagisti è un diritto, la Francia, prevede che per tutti gli stage di durata superiore ai due mesi al tirocinante venga erogata una somma mensile non inferiore a 430 euro al mese. Una misura di civiltà. Ma non tutti sanno che quest'obbligo vale solo per gli stage svolti in imprese private: gli enti pubblici ne sono esonerati. Quindi perfino in Francia gli stage gratuiti nella pubblica amministrazione sono legali. La ratio è chiaramente quella di non affaticare le casse dello stato: ma il risultato concreto è un'ingiusta differenziazione tra i diritti di chi fa esperienze formative in realtà private e chi le fa in enti pubblici.Ecco quindi cosa sta probabilmente succedendo anche in Italia. Quegli enti pubblici che hanno maggiore interesse a difendere il proprio programma di tirocini gratuiti, come appunto il Mae, all'indomani dell'approvazione della riforma Fornero stanno cominciando a giocare - preventivamente - le proprie carte. Per mettersi al riparo, assicurarsi la possibilità di poter continuare a non pagare i propri stagisti, e sopratutto di non dover tagliare le proprie spese e i propri diritti acquisiti per trovare i fondi per i rimborsi.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Mae-Crui, la vergogna degli stage gratuiti presso il ministero degli Esteri: ministro Frattini, davvero non riesce a trovare 3 milioni e mezzo di euro per i rimborsi spese?- Ministero degli Esteri, 555 stage Mae-Crui bloccati e non si capisce il perchéE anche:- Stage all'estero, Mae-Crui ma non solo: attenzione all'assicurazione sanitaria- Stage all'estero senza assicurazione sanitaria: le storie di chi ci è passato- Rimborso spese per gli stage Mae-Crui, a chi sì e a chi no. La richiesta di aiuto di una lettrice: «Non è giusto: tutti dovrebbero ricevere un sostegno»

Partite Iva vere e false: cari senatori, 18mila euro all'anno sono un reddito sotto la soglia della dignità

Un buon indicatore per differenziare un precario da un lavoratore flessibile è lo stipendio. Chi guadagna 7-800 euro al mese si sente insicuro, frustrato, non completamente indipendente; con quel che porta a casa non riesce nemmeno ad arrivare alla fine del mese, e si ritrova - a trent'anni o addirittura a quaranta - nell'umiliante posizione di dover chiedere soldi a mamma e papà. Chi invece guadagna 2-3mila euro al mese, anche se ha un contratto temporaneo, raramente si lamenta e ancor più raramente si sente toccato dai problemi dei precari: il suo stipendio gli consente di mantenersi autonomamente, lo gratifica, e compensa la quota di insicurezza dovuta alla data di scadenza impressa sul contratto.Il sistema si può applicare molto bene al lavoro autonomo, in particolare ai contratti "parasubordinati" (cococo e cocopro) e alle collaborazioni a partita Iva, per distinguere quelli veri da quelli falsi. Una stima dell'Isfol dice per esempio che in Italia ci sono almeno 350mila false partite Iva: un esercito di persone sottoinquadrate che fanno molto comodo ai datori di lavoro più spregiudicati. Per tracciare un primo confine si può presumere dunque che chi guadagna annualmente oltre una certa soglia sia davvero un lavoratore indipendente, un "autonomo verace", in grado di vendere le proprie competenze sul mercato a prezzi adeguati e di mantenersi offrendo la propria professionalità ai committenti interessati. E chi invece sta sotto questa soglia non possa essere considerato autenticamente autonomo - perchè troppo dipendente dal datore di lavoro, probabilmente alla sua mercè per quanto riguarda il compenso (che invece il freelance verace dovrebbe fissare e imporre, o quantomeno concordare, con la controparte), e molto impaurito all'idea di perdere l'unica - magra - fonte di reddito. A quanto è ragionevole che ammonti questa soglia? La cifra proposta in più occasioni da Pietro Ichino è 40mila euro lordi, cioè più o meno 1800 euro netti al mese (per 12 mesi, s'intende, dato che per gli autonomi non sono previste tredicesime o quattordicesime); altri si fermano a 30mila. Secondo la maggioranza dei senatori che siedono in questo momento a Palazzo Madama questa cifra invece, per chi è titolare di una partita Iva, è pari a 18mila euro lordi all'anno.Ma cosa vuol dire 18mila lordi? Vuol dire, netti nella tasca dei lavoratori, meno della metà. Perchè sul lordo si pagano le tasse. Perchè chi lavora in maniera autonoma si deve pagare in gran parte (o completamente) i contributi. Perchè deve acquistare di tasca propria gli strumenti di lavoro (primo fra tutti, ormai per quasi tutte le professioni intellettuali, il computer). Perché deve provvedere alla propria formazione continua (niente corsi di aggiornamento pagati dalle aziende, quelli sono riservati ai dipendenti).  E a partire dal reddito annuale, inoltre, il lavoratore autonomo deve accantonare una quota per le sue ferie (nessuno gliele pagherà) e per fare fronte ad eventuali altri periodi di inattività - per una gravidanza, un incidente, una malattia.Quindi 18mila euro lordi tolte le tasse, i contributi, l'ammortamento degli strumenti di lavoro, delle ore di formazione, la piccola quota di risparmio in vista di agosto e Natale, fanno più o meno 7-800 euro al mese. Basta guadagnare questa (misera) cifra, hanno detto i senatori, perché la collaborazione a partita Iva sia considerata ipso facto genuina, senza più bisogno di andare a controllare gli altri paletti che il ministro Fornero aveva indicato (la durata della collaborazione per uno stesso datore di lavoro, la quantità di fatture emesse verso uno stesso soggetto, la postazione fissa presso la sede del committente) nell'ottica di riuscire a smascherare la falsa configurazione del rapporto di lavoro. Se un lavoratore a partita Iva guadagna 7-800 euro netti al mese, hanno detto i senatori, allora è davvero un autonomo, non c'è alcun dubbio. Loro però percepiscono una «indennità mensile» tra 5.100 e 5.300 euro e spiccioli cui vanno aggiunti una «diaria prevista per tutti i parlamentari, a titolo di rimborso delle spese di soggiorno» di 3.500 euro al mese, più un «rimborso delle spese per l'esercizio del mandato» di importo mensile di 2.090 euro «a titolo di rimborso delle spese effettivamente sostenute nella loro attività parlamentare e politica (è previsto l'obbligo di rendicontazione con cadenza quadrimestrale)», più un «rimborso forfettario delle spese generali» di 1.650 euro al mese «per le spese accessorie di viaggio e per le spese telefoniche». In più durante l'esercizio del mandato non pagano «viaggi aerei, ferroviari e marittimi e la circolazione sulla rete autostradale».Quindi i senatori, pur percependo 9mila euro netti al mese più 3.500 destinati a eventuali assistenti, con sommo sprezzo del ridicolo - e dell'articolo 36 della Costituzione - hanno affermato in Parlamento che un precario-autonomo-freelance (che dir si voglia), che magari è stato costretto ad aprire la partita Iva e che riesce a portare a casa la miseria di 800 euro al mese, non può lamentarsi. Lui è davvero un autonomo. Guadagna ben 18mila euro lordi all'anno! Non si tratta, attenzione, di fare populismo. Si tratta di vergognarsi, e di sperare che la Camera metta una pezza su questa novità indegna introdotta nel disegno di legge di riforma del mercato del lavoro dall'emendamento Castro-Treu. E se l'intento non è quello - come purtroppo sembra - di depotenziare la norma, permettendo che decine di migliaia di datori di lavoro continuino a sfruttare collaboratori falsamente inquadrati come partita Iva, bensì solo quello di semplificarla per evitare che i veri professionisti finiscano nel tritacarne dei controlli, almeno innalzi la soglia a una cifra accettabile.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Partite Iva, associati in partecipazione e interinali: la riforma dopo il passaggio in Senato- Cocopro, partite Iva e stipendi dei precari: le proposte dell'emendamento Castro-Treu- Se potessi avere mille euro al mese, il libro che racconta l'Italia sottopagataE anche:- Se un'impresa non è in grado di pagare decentemente i collaboratori, meglio che chiuda- Presidente Napolitano, la dignitosa retribuzione è un diritto costituzionale anche per i giovani

Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa

Oggi la Repubblica degli Stagisti inaugura una nuova rubrica. Dedicata come sempre ai giovani che cercano di diventare adulti, di costruire la propria strada professionale e la propria indipendenza economica. Stavolta però focalizzata su quelli che invece di andare in cerca di un lavoro dipendente, decidono di mettersi in proprio, di provare a realizzare un'idea e lanciarla sul mercato, di aprire un'impresa. Gli startupper.Che in Italia non hanno certo vita facile, perchè mille sono i problemi da affrontare. Innanzitutto per racimolare i primi soldi necessari per partire: troppe porte sbattute in faccia dalle banche e dai fondi d'investimento, ben poco propensi a dar credito a chi non può fornire garanzie. Poi i passaggi obbligatori attraverso il labirinto della burocrazia, che spesso appaiono insensati e costruiti per scoraggiare e indebolire, più che facilitare. Infine la cultura dominante, non solo gerontocratica ma anche giovane-fobica, per cui tutti guardano con sospetto i giovani imprenditori, tendono a non fidarsi, non sia mai che l'inesperienza possa generare qualche catastrofe.Ma gli startupper vanno avanti. Non si fanno scoraggiare. Racimolano i primi soldi attraverso la solita rete FFF, family friends and fools, oppure se sono fortunati riescono a farsi finanziare da qualche business angel o integrare in qualche incubatore. Studiano la complessa cartina geografica delle regole, la differenza tra società srl, snc e tutta la galassia di possibilità previste dall'ordinamento italiano. Imparano i nomi delle tasse, le date delle scadenze fiscali e contributive, le diverse tipologie contrattuali e i loro costi.  Di solito all'inizio guadagnano poco o nulla; coinvolgono nel progetto qualche fratello, cugino, amico, compagno di scuola o di università, e per i primi mesi si va avanti in perdita, sviluppando l'idea senza un tornaconto economico, investendo il proprio tempo e le proprie energie, usando il proprio computer personale, lavorando dal divano di casa. Combattono contro i pregiudizi, contro i proprietari di immobili talvolta guardinghi ad affittare anche solo piccoli seminterrati senza la garanzia dei genitori, contro i primi fornitori che vorrebbero essere pagati in anticipo e i primi clienti che vorrebbero pagare a 90 giorni da fine mese.Poi a un certo punto, se le cose vanno bene, il meccanismo ingrana, arrivano i primi soldi, almeno quanto basta per comprare una scrivania e due sedie, e magari cominciare a fare qualche contratto e pagare qualche stipendio. Si tira un sospiro di sollievo, e si comincia a pensare a come reinvestire i primi guadagni per crescere e svilupparsi.Gli startupper non sono tutti uguali: ci sono i figli di imprenditori e i figli di nessuno, ci sono i tradizionalisti e gli innovatori, i solitari e i comunitari. Parleremo di loro, in questa rubrica, ogni martedì. Racconteremo le loro storie, le difficoltà, le conquiste, i costi affrontati, i guadagni realizzati. Siamo convinti che le loro testimonianze siano importanti e che possano mostrare la faccia di un'Italia giovane che non si arrende, che si dà da fare e che affronta sulla propria pelle tutto il bello e il brutto di questo Paese. È certamente esagerata, e in un certo senso addirittura ipocrita e disturbante, la frase del rettore di Harvard consacrata dal film The social network: «I migliori allievi di questa università non sono quelli che escono e trovano un lavoro, ma quelli che escono e se lo inventano». La maggior parte dei giovani, in tutti i Paesi del mondo, continuerà legittimamente a cercare un lavoro dipendente, perché fondare un'impresa non è un gioco: servono idee, competenze, spirito di sacrificio, propensione al rischio, capacità di gestione che non tutti hanno o vogliono mettere in gioco. Ma al contempo le imprese fondate da giovani sono una speranza, un segnale: e le più forti tra loro potranno anche poi, in futuro, creare nuovi posti di lavoro. Per questo vanno protette, sostenute, valorizzate.Ai lettori della Repubblica degli Stagisti un appello: segnalateci voi stessi storie da raccontare, scrivendo all'indirizzo startupper [chiocciola] repubblicadeglistagisti.itEd ecco la prima puntata della rubrica: «Non più bambini, oggi le Cicogne portano babysitter». Buona lettura.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Imprenditoria giovanile, ecco chi la sostiene- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partireE anche:- Al Jobmeeting di Bologna dibattito «Si può mangiare con la filosofia o la semiotica?», a Torvergata tavola rotonda «Trovare lavoro, inventarsene uno»

Presidente Napolitano, la dignitosa retribuzione è un diritto costituzionale anche per i giovani

Lunedì 28 maggio Eleonora Voltolina, direttore della Repubblica degli Stagisti, ha partecipato all'evento organizzato dall'Arel in Quirinale, alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, per la presentazione del libro Giovani senza futuro? (edito da Il Mulino e curato da Tiziano Treu e Carlo Dell'Aringa). Voltolina è anche autrice, a quattro mani con il professor Alessandro Rosina, di uno dei saggi contenuti nel libro: «Politiche a favore dell'indipendenza intraprendente delle nuove generazioni». E proprio l'enorme difficoltà che i giovani italiani incontrano nel trovare lavori degnamente retribuiti - e poter quindi conquistare l'indipendenza economica dalla propria famiglia - è stata al centro del discorso che Voltolina ha fatto di fronte al presidente Napolitano.     Oggi porto il mio contributo facendo un appello a tutti gli illustri presenti, affinché ciascuno secondo le sue competenze e possibilità si impegni a far tornare l’Italia al rispetto di uno dei più importanti articoli costituzionali: il numero 36, che prevede che ogni lavoratore debba essere pagato in misura proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto, e comunque abbastanza da poter vivere un’esistenza libera e dignitosa.La verità conclamata è che nel nostro Paese milioni di giovani vedono calpestato ogni giorno questo diritto,  prima lavorando gratis per mesi o anni, per poi guadagnare cifre misere, addirittura al di sotto della soglia di dignità dei mille euro al mese.Il sistema si approfitta di loro allungando a dismisura, contro ogni ragionevolezza, il periodo di transizione dalla formazione al lavoro, costringendoli a restare il più possibile in questo limbo, sfruttando l’escamotage della «formazione» per non qualificarli come lavoratori e quindi non doverli pagare. E quando dico sistema, tengo a precisarlo sopratutto in questa sede, mi riferisco non solo a quello delle imprese private ma anche al pubblico. Il fatto è che l’allarme è posto in sordina perchè questi giovani non muiono di fame, sopravvivono grazie al sostegno dei genitori. Ma questo meccanismo di welfare familiare, benedetto da una grande parte della politica e generalmente accettato dalla tradizione socio-culturale italiana, salva i giovani solo in apparenza. In realtà, oltre ad azzerare la loro possibilità di mobilità sociale e dopare il mercato del lavoro, questo sistema li distrugge, impendendo loro di entrare a tutti gli effetti nell’età adulta. E quindi di poter diventare pienamente cittadini, poter agire nel loro Paese e per il loro Paese. Mantenere i giovani eternamente figli, fino a 30 anni o addirittura 40, vuol dire frenare il ricambio generazionale di cui l’Italia ha bisogno in tutti i settori.Ecco perché il mio appello è quello di lavorare per rimuovere, a livello normativo, le zone d’ombra che consentono di perpetuare questo status quo perverso; ma anche e sopratutto per lavorare a un cambiamento culturale, che convinca tutti i cittadini, che siano genitori, figli o datori di lavoro, che l’indipendenza economica è un valore imprenscindibile. Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Senza soldi non ci sono indipendenza, libertà, dignità per i giovani: guai a confondere il lavoro col volontariato- Il presidente della Commissione Lavoro della Camera consegna a Mario Monti i risultati dell'indagine sul precariato - l'audizione di Eleonora Voltolina- Per rifare l'Italia bisogna partire dal lavoro e dalle retribuzioni dei giovani- Se potessi avere mille euro al mese, il libro che racconta l'Italia sottopagataA questo link sul sito dell'Arel il video dell'intero evento

Come far contare di più i giovani in politica?

Mercoledì 9 maggio a Milano, alle 16:15 all'università Cattolica, ci sarà un convegno sul tema della rappresentanza politica delle giovani generazioni: «Come dar peso al futuro?»  sottotitolo «Far contare di più il voto dei giovani?». A seguire, una tavola rotonda metterà a confronto le opinioni di Beppe Severgnini, Tito Boeri, Luigi Campiglio e Massimo Bordignon. Alessandro Rosina, organizzatore e discussant del dibattito nonché grande esperto di questioni generazionali, ne anticipa i temi e gli spunti, che verranno poi aperti alla votazione attraverso un sondaggio online veicolato dalla Newsletter della Repubblica degli Stagisti.     L’Italia ha da tempo perso slancio verso il futuro. Troppo spesso negli ultimi anni la difesa della condizioni, spesso dei privilegi, dell’oggi sono andati a discapito dell’investimento su condizioni migliori per il domani. Conseguenza di una classe dirigente molto longeva e poco lungimirante o di troppa timidezza delle forze che avrebbero dovuto farsi parte attiva del cambiamento?L’invecchiamento della popolazione, certo, non aiuta. Avere più vita davanti o alle spalle condiziona il modo di porsi rispetto al cambiamento, condiziona la propensione a lasciare qualche sicurezza del passato per guadagnare qualcosa di più per il futuro.Dare più peso al futuro significa dare più consistenza a quella componente della popolazione che al futuro è più interessata, ovvero a chi vivrà maggiormente le conseguenze, positive o negative, delle scelte prese oggi. Questa componente è costituita dalle giovani generazioni, il cui peso però, si è drasticamente ridotto nel tempo.In passato, quando sono nate le democrazie occidentali, i giovani erano la parte preponderante dell’elettorato. Ora non è più così. Nel passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica, ultima fase in cui c’è stato un rilevante ricambio nella politica, i rapporti di forze erano ancora a favore dei giovani. La fascia 16-30 contava quasi 13 milioni e mezzo di persone nel 1991. Mentre la fascia 60-74, già in ascesa, era comunque sensibilmente meno consistente, arrivando a poco più di 8 milioni. Oggi il rapporto di forze si è rovesciato a favore dei più anziani. La fascia 16-30 è scesa a 9,7 milioni, quella tra i 60 e i 74 anni è invece salita a quasi 10 milioni. Se però togliamo gli stranieri e gli under 16 che non votano i rapporti di forza nell’elettorato attivo sono questi: elettorato 30 anni o meno pari a 7,5 milioni, elettorato 60-74enni pari a 9,8 milioni.Insomma, la componente demografica che esprime la classe dirigente italiana, fatta prevalentemente di over 60, ha un peso nettamente sovrastante rispetto ai Millennials - la generazione emergente, composta da coloro che sono entrati nella maggiore età dopo il 2000, che quindi oggi hanno sotto i 30 anni. Il peso relativo degli under 30 italiani sull’elettorato complessivo è uno dei più bassi al mondo. La classe dirigente italiana è una delle più vecchie del mondo sviluppato. Ma anche le soglie anagrafiche per entrare in Parlamento sono tra le più alte (25 anni alla Camera e 40 anni al Senato). La combinazione tra tutto questo fa sì che i Millennials italiani siano tra quelli che contano di meno, nelle democrazie occidentali, sul piano politico-elettorale.Che le nuove generazioni contino così poco è un bene o un male? Se non è un bene, quali misure potrebbero essere utili per far tornare a contare le nuove generazioni sulle scelte che riguardano il loro futuro e quello del paese? L’abbassamento del diritto di voto ai 16 anni? L'estensione agli stranieri? iI maggior coinvolgimento dei giovani espatriati? Il voto ai genitori per i figli minorenni? La soppressione dei vincoli anagrafici per accedere al Parlamento? L’introduzione di un limite dell’elettorato passivo a 60 anni? La ponderazione del voto con l’aspettativa di vita residua - secondo il principio che più futuro si ha davanti, più il voto conta?È ormai urgente introdurre correttivi, anche rimettendo in discussione convinzioni consolidate; non tanto a favore dei giovani, ma per consentire di inglobare maggiormente il benessere futuro nelle scelte di oggi. Alessandro RosinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- La gerontocrazia avvelena l'Italia: se i migliori sono i più anziani, la gara è già persa in partenza- Per rifare l'Italia bisogna partire dal lavoro e dalle retribuzioni dei giovani- In Nordafrica i giovani hanno deciso che il loro tempo è adesso. E in Italia?

Dar voce ai giovani, dar voce alle donne: l'impegno della Repubblica degli Stagisti

Nei giorni scorsi a Perugia, tra i tanti panel interessanti e sorprendenti del Festival del Giornalismo che si chiude oggi, uno riguardava la presenza e la rappresentazione delle donne nei media. Tra le relatrici  - oltre alla grande amica della Repubblica degli Stagisti Giovanna Cosenza, professoressa dell'università di Bologna e animatrice del blog Disambiguando - anche Loredana Lipperini, giornalista di Repubblica e conduttrice di Fahrenheit su Radio3, che ha iniziato il suo intervento con una serie di numeri sconfortanti sulla presenza e il ruolo delle donne nel giornalismo italiano. Sia da dentro (quante sono le donne giornaliste, quante - pochissime - ricoprono ruoli apicali) sia da fuori. E qui un dato su tutti: nei servizi della Rai, ogni volta che c'è da sentire un esperto, si finisce per chiamare un uomo. Una voce autorevole, un professore dotto, un politico, un economista, un avvocato: nove volte su dieci il giornalista (o la giornalista: nelle redazioni Rai sono il 34%) incaricato dell'intervista sceglie un interlocutore maschio. Le donne autorevoli ci sono, eppure vengono chiamate solo nel 10% dei casi.Del resto, questa percentuale può essere confermata e ampliata anche attraverso un semplice check empirico: basta guardare un qualsiasi talk-show - escludendo quelli che si occupano di gossip - e contare gli ospiti uomini e le ospiti donne (e volendo essere pignoli, anche il tempo di parola concesso). Solitamente il risultato è sconfortante. L'inglese Jane Martinson, giornalista del quotidiano The Guardian, per provare a tranquillizzare la platea ha detto che da una ricerca simile svolta nel Regno Unito è emerso che anche lì le donne vengono citate come esperte in articoli e servizi tv solo nel 24% dei casi. Ma difficilmente quando si parla di questi problemi mal comune fa mezzo gaudio - e comunque 24% è una percentuale bassa ma pur sempre più che doppia rispetto alla nostra.Una terza relatrice, Cristina Sivieri Tagliabue, ha aggiunto che secondo le rilevazioni più recenti alle donne giornaliste e opinioniste l'onore di avere il nome in prima pagina sui quotidiani Corriere e Repubblica spetta più o meno nel 5% dei casi. Il restante 95, agli uomini. E che anche nei programmi tv più seri, quando si prevede una presenza femminile, spesso invece di chiamare un'esperta del tema di cui tratta la puntata - capace di fare discorsi sensati e approfonditi, di argomentare e discutere, insomma di fornire un punto di vista autorevole - si preferisce invitare la showgirl di turno - incoronata tuttologa per l'occasione.Numeri e osservazioni che fanno riflettere e indignare, ma che devono anche indurre ad agire. Così ho deciso di fare una breve ricognizione della situazione sulla  Repubblica degli Stagisti. Prendendo in considerazione gli articoli usciti nell'ultimo mese, la proporzione qui quando intervistiamo o citiamo esperti è più o meno un terzo di donne e due terzi di uomini. Molto meglio della media - ma non  ancora abbastanza. Dunque, d'ora in avanti su queste pagine sarà attuato un nuovo codice di autoregolamentazione e vigilanza. La redazione farà attenzione a bilanciare gli interventi degli esperti anche a seconda del genere. Già lo facciamo in ottica generazionale, cercando di dare il più possibile spazio e visibilità a chi è anagraficamente giovane e quindi mediaticamente meno appetibile: tante sono le interviste che abbiamo dedicati a giovani scrittori, politici, sindacalisti, amministratori, docenti universitari, attivisti. D'ora in avanti punteremo anche al 50-50 rispetto al genere. Senza rinunciare ovviamente a un'oncia di autorevolezza: non faremo parlare le donne "a tutti i costi", così come non facciamo parlare i giovani "a tutti i costi". Ma avremo l'accortezza di cercare, tra i tanti esperti disponibili nelle università, negli studi professionali, nei centri di ricerca, tante brave donne quanti bravi uomini, così come cerchiamo - e troviamo - tanti bravi giovani quanti bravi anziani. Perché, semplicemente, non c'è dubbio che esistano. E che, in un mondo dei media che non smette di penalizzare giovani e donne, gli uni e le altre vadano valorizzati.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento:- 8 marzo: una festa celebrata da troppe casalinghe?- Donne e libere professioni, un binomio ancora difficile- La gerontocrazia avvelena l'Italia: se i migliori sono i più anziani, la gara è già persa in partenza- Chi c'è dietro la nuova legge della Regione Toscana sugli stage? Un gruppo di ventenniE anche:- Ventenni e riforma del lavoro, parla l'ideatore della lettera a Monti - Antonio De Napoli convocato oggi da Mario Monti in rappresentanza dei giovani italiani: «Gli porteremo l'appello di Voltolina e Rosina per chiamare anche le nuove generazioni al governo»- Il ministro Giorgia Meloni: «Per investire sui giovani è necessario un cambio di mentalità»- Lavoro e giovani: ce l'abbiamo un'idea? L'associazione Rena mette pepe al dibattito- Più il tempo passa più l'Italia invecchia: per frenare l'emorragia di expat servono meccanismi per far contare i giovani di più

Se un'impresa non è in grado di pagare decentemente i collaboratori, meglio che chiuda

Sembrava cosa fatta. La proposta di legge sull'equo compenso per il lavoro giornalistico aveva raccolto poche settimane fa il sì della Camera e il passaggio al Senato sembrava solo una formalità. Più o meno tutti, dal relatore Enzo Carra fino ai battaglieri collettivi di giornalisti precari come Errori di Stampa, si aspettavano a giorni il sì di Palazzo Madama. Invece ieri é arrivata la doccia fredda. Il governo ha deciso di congelare l'iter per avere il tempo di presentare alcuni emendamenti, e con tutta probabilità non si tratterà di interventi migliorativi - quantomeno dal punto di vista dei giornalisti sottopagati. Lo si intuisce dalle dichiarazioni di Maurizio Castro, senatore PdL, che all'agenzia Ansa ieri ha spiegato che «un esame ponderato del testo consentirà di emendare le imperfezioni tecniche e di prevedere forme di attuazione progressiva delle nuove norme» per andare incontro a «un tessuto imprenditoriale caratterizzato non solo da grandi gruppi, ma anche da piccoli editori locali e da imprese strutturalmente più fragili».Insomma l'esecutivo potrebbe piegarsi a queste pressioni e introdurre smussamenti e dilazioni, col risultato di svuotare di efficacia il provvedimento. Che già comunque non sarebbe stato immediatamente operativo, necessitando di una fase di definizione quantitativa del'«equo compenso».Il timore è che si voglia salvaguardare il "diritto" delle piccole case editrici di sottopagare (ergo: sfruttare) i giornalisti con la scusa che sono fragili. Invece dovrebbe valere un semplice principio, non solo per le aziende editoriali ma per tutte: se non sono in grado di pagare equamente i propri collaboratori, non sono sane. E se non sono sane, non conviene a nessuno che restino sul mercato: meglio che chiudano. Tenere in piedi realtà che sopravvivono grazie allo sfruttamento del lavoro gratuito o sottopagato di giovani e meno giovani, che non hanno la capacità di mettere in equilibrio costi e ricavi in modo da poter ricompensare adeguatamente chi lavora per loro, che ricorrono sistematicamente a sotterfugi o a ricatti e che spezzano il naturale e indispensabile legame tra lavoro e retribuzione, non ha alcun senso. Queste aziende inquinano il mercato. Il lavoro non pagato può esistere solo ed esclusivamente sotto forma di volontariato. Le testate giornalistiche che non sono in grado di pagare adeguatamente i propri collaboratori non sono degne di restare aperte. Si trasformino in associazioni non profit e reclutino persone disposte a scrivere come forma di volontariato, se ne sono capaci, anziché porsi sul mercato senza averne le capacità e la solvibilità. La professione giornalistica è, appunto, una professione. Chi la esercita deve poter ottenere un compenso decente per la propria prestazione. I "quattro euro a pezzo" devono semplicemente diventare illegali. Subito, e per tutti: sia per le grandi testate sia per quelle microscopiche.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento:- Enzo Carra: «Dal 2013 equo compenso per i giornalisti freelance»- Giornalisti precari, il problema non è il posto fisso ma le retribuzioni sotto la soglia della dignitàE anche:- Lo scandalo dei giornalisti pagati cinquanta centesimi a pezzo. Il presidente degli editori a Firenze: «La Fieg non dà sanzioni. E poi, cos’è un pezzo?»- Giornalisti freelance, sì alla reintroduzione del Tariffario: ma i compensi minimi devono essere più realistici. E vanno fatti rispettare con controlli e sanzioni

Regioni e riforma del lavoro, è guerra al governo sull'articolo sui tirocini

Uno dei più positivi e importanti articoli del disegno di legge Fornero sulla riforma del mercato del lavoro è il 12, quello che riguarda i tirocini. Esso si propone di creare un tavolo di discussione tra governo e Regioni al fine di elaborare, nei 6 mesi successivi all'approvazione della riforma, una serie di linee guida per uniformare a livello nazionale la normativa sugli stage, ponendo alcuni paletti-base comuni che impediscano che ogni Regione faccia a modo suo. Un principio di puro buonsenso che è stato messo in dubbio ieri dalla Conferenza delle Regioni. L'assessore regionale toscano Gianfranco Simoncini, chiamato a parlare in commissione Lavoro al Senato in rappresentanza appunto delle Regioni, ha chiesto infatti la soppressione dell'articolo 12 del ddl, che costituirebbe una «invasione di campo» e avrebbe «profili di incostituzionalità». Perchè da tempo le  Regioni rivendicano la competenza esclusiva in materia di stage, e per questo chiedono al governo di fare un passo indietro rispetto alla prospettiva di una legge-quadro nazionale di indirizzo.Una richiesta grave e insensata, perché la revisione della normativa sui tirocini è parte essenziale della riforma del mercato del lavoro: senza un intervento sull'abuso degli stage, come la Repubblica degli Stagisti ha sempre ammonito, non si realizzerà mai un vero rilancio dell'apprendistato e più in generale un miglioramento delle condizioni dei giovani lavoratori.La posizione delle Regioni sorprende perché l'articolo 12 del ddl non è certo una  invasione di campo né tantomeno una prevaricazione dello Stato sulle Regioni: si limita a esplicitare la volontà di rivedere la «disciplina dei tirocini formativi, anche in relazione alla valorizzazione di altre forme contrattuali a contenuto formativo», cioè di depotenziare la capacità degli stage di fungere da concorrenti sleali dell'apprendistato; di prevedere «azioni e interventi volti a prevenire e contrastare un uso distorto dell’istituto, anche attraverso la puntuale individuazione delle modalità con cui il tirocinante presta la propria attività»; di introdurre «sanzioni amministrative, in misura variabile da mille a seimila euro»; e infine di impedire la «assoluta gratuità del tirocinio, attraverso il riconoscimento di una indennità, anche in forma forfetaria»: cioè di abolire gli stage gratuiti. Davvero difficile non essere d'accordo. E quasi sleale agitare lo spauracchio della incostituzionalità: come ha spiegato di recente il costituzionalista Francesco Clementi alla Repubblica degli Stagisti, la lettera "m" del comma 2 dell'articolo 117 della Costituzione garantisce sempre allo Stato di legiferare, anche in una materia formalmente di competenza esclusiva regionale, al fine di garantire un'uniformità standard su tutto il territorio nazionale su un certo tema. Nell'intervista Clementi ha anche ricordato che rispetto ai tirocini la Corte costituzionale si è pronunciata una sola volta, nel 2005, dicendo sì che erano di competenza regionale: ma solo ed esclusivamente quelli estivi. E non tutti i tirocini, che vengono svolti in tutti i 12 mesi da gennaio a dicembre da oltre mezzo milione di giovani ogni anno, e non certo solo dagli studenti da giugno a settembre.L'assessore Simoncini è alla guida dell'assessorato al lavoro di una Regione letteralmente all'avanguardia su questo tema, la Toscana, che ha licenziato nei mesi scorsi una legge assolutamente innovativa in materia di tirocini e il cui apporto sarà prezioso nel tavolo di confronto Stato-Regioni che il ministro Fornero ha già previsto di creare. Più degli altri dovrebbe essere consapevole dei rischi che comporta la presa di posizione della Conferenza delle Regioni: una leopardizzazione della normativa sugli stage e della tutela dei giovani, che porterebbe iniquità nel trattamento degli stagisti da una città all'altra.In effetti, solo nelle ultime settimane la Regione Toscana che ha legiferato imponendo un rimborso spese minimo di 500 euro al mese per i tirocini extracurriculari; la Regione Abruzzo che ha fatto lo stesso Con una deliberazione, ponendo però il rimborso minimo a 600 euro al mese; e la Regione Lombardia che invece ha approvato un regolamento che ribadisce la possibilità di fare stage gratis. Vogliamo andare avanti di questo passo? Vogliamo avere tra un anno venti regolamentazioni diverse dello stage, e far avere ai giovani diritti e doveri diversi a seconda del luogo in cui fanno lo stage?Senza una legge-quadro nazionale molte Regioni meno "responsabili" potranno continuare a permettere la vergogna degli stage completamente privi di rimborso spese, o a non prevedere sanzioni per i datori di lavoro che violano la normativa. I giovani hanno bisogno di regole certe, chiare e che li mettano al riparo dallo sfruttamento. Avere venti normative diverse sullo stage non va certamente in questo senso.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Stage, il ddl Fornero punta a introdurre rimborso spese obbligatorio e sanzioni per chi sfrutta- Stage, nuove norme regionali: sì all'obbligo di rimborso in Toscana e Abruzzo, no in Lombardiae anche:- Tirocini, il costituzionalista: «Lo Stato potrebbe fare una legge quadro»- Riforma del lavoro, inutile senza quella degli stage- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani

La raccomandazione dell’assessore per lavorare da Ikea: attentato alla merito(demo)crazia

Pochi giorni fa Ikea, nota multinazionale dell'arredamento fai-da-te, ha denunciato che in vista dell’apertura di un nuovo punto vendita vicino a Chieti ha ricevuto chiari messaggi da politici della Regione Abruzzo orientati a caldeggiare l’assunzione di alcune persone.Il rombo del tuono faceva presagire lo scatenarsi di una tempesta, con prime pagine dei quotidiani; invece tutto è finito immediatamente nel dimenticatoio. Qualche rimbalzo dai giornali locali al web, una – innegabile – pubblicità positiva per il marchio, e stop. Eppure il problema è assolutamente centrale: l’Italia non può cambiare e crescere se continua ad essere ostaggio di una politica clientelare e nepotista, pervasa da perverse logiche antimeritocratiche che comprimono le sue reali potenzialità di sviluppo.Il caso è indicativo. Il management della filiale italiana ha dichiarato che è «prassi» ricevere pressioni da politici locali quando apre una nuova sede sul territorio. Per Chieti, ha fatto sapere, sono arrivati tremila curricula per 220 nuovi posti disponibili. Secondo le notizie riportate da vari quotidiani, un assessore regionale avrebbe inviato su carta intestata (sic!) una lettera con un elenco di persone che gli stanno a cuore per “informarsi” sull’esito della procedura di recruiting. Come a dire: «Sarei molto contento che la selezione fosse favorevole a questi nomi». L’Ikea ha reso nota la pressione, assicurando che non cederà e che seguirà esclusivamente criteri meritocratici. Basta così? Assolutamente no. Le aziende straniere non possono trattare l’Italia come un paese con abitudini fastidiose, come zanzare da scacciare ogni volta che si presentano: quello che serve è una disinfestazione sistematica. Bisogna fare i nomi, costringendo così questi poco degni amministratori della cosa pubblica a rendere esplicitamente conto del proprio operato. L’Ikea dovrebbe fare un’operazione trasparenza. Innanzitutto raccontando i dettagli della sua procedura di recruitment, specificando che tipi di contratti farà ai 220 neoassunti, e con quali stipendi. E poi documentando quanto ha affermato, indicando il nome dell’assessore in questione e pubblicando le lettere che le sono arrivate. Solo così consentirà ai cittadini abruzzesi e a tutti gli italiani di valutare se davvero ci sono state pressioni per far assumere amici e protetti, a scapito di chi ogni giorno cerca lavoro senza avere santi in paradiso, puntando solo sulle proprie competenze. Solo così gli elettori potranno decidere se tale persona potrà rimanere al suo posto ed essere votata ancora in futuro, o al contrario chiederne subito le dimissioni.Sta crescendo fortemente l’insofferenza verso un paese dove contano più le logiche di appartenenza che le vere capacità. Questo è uno dei motivi delle difficoltà del sistema Italia di crescere e della fuga di molti giovani all’estero per veder riconosciuto davvero quanto valgono. Un recente sondaggio dell’associazione Italents svolto in collaborazione con il Comune di Milano ha evidenziato come la carenza di meritocrazia sia considerata dai giovani espatriati addirittura il principale motivo che li ha spinti ad andarsene. Più degli stipendi migliori, più del welfare più generoso.Questo caso va considerato un vero e proprio attentato alla meritocrazia. E come ogni reato, l’unico comportamento civile e responsabile è quello di denunciare pubblicamente. Per cambiare davvero, fino in fondo.Eleonora Voltolina e Alessandro RosinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Fuggi-fuggi dall'Italia: sono almeno 2 milioni i giovani all'estero - Sulla Rete i giovani italiani scalpitano per fare rete: ITalents sbarca su Facebook, ed è boomE anche:- È giusto che i “figli di” sfruttino il vantaggio competitivo?

Università come agenzie per il lavoro a costo zero: una deriva da scongiurare

Il ministro del Lavoro ha dichiarato di avere intenzione di abolire gli stage post-formazione, consentendo che siano effettuati solo mentre una persona sta compiendo un percorso formativo. L'idea è molto interessante, ma attenzione: il «lavoro a costo zero» di cui parla Elsa Fornero non riguarda solamente gli stage post-formazione, bensì anche quelli svolti durante la formazione. Le università stanno infatti diventando già oggi, loro malgrado, concorrenti delle agenzie per il lavoro. Perchè ormai tutte sono dotate di uffici stage e placement, per poter far fare esperienze on the job ai propri studenti e sopratutto piazzare i neolaureati sul mercato. Impegno assolutamente meritorio e indispensabile: il problema è però che studenti (e allo stato attuale anche neolaureati), inquadrabili come stagisti, equivalgono a un esercito di potenziale forza lavoro a costo zero. Il ragionamento che sempre più spesso le aziende fanno è semplice: ho una posizione vacante, magari temporanea per un picco di lavoro o per la momentanea assenza di un dipendente. Potrei rivolgermi a un centro per l'impiego, ma temo che finiscano per propormi sempre gli stessi profili, persone con scarsa istruzione e scarse qualifiche, magari anche un po' in là con l'età. Potrei utilizzare un'agenzia per il lavoro, con la modalità del lavoro somministrato. Ma mi costerebbe uno sproposito: il lavoratore dovrei inquadrarlo e pagarlo al pari di un subordinato, e in più sborsare la commissione all'agenzia. In questo ragionamento irrompe la terza possibilità: una manna dal cielo, assolutamente priva di costi. L'università. Che é piena di giovani affamati di lavoro. Sono inesperti, è vero, ma molto volenterosi. Imparano in fretta. Non avanzano rivendicazioni sindacali, prendono quel che c'è senza protestare. E possono essere inquadrati come stagisti, senza nemmeno la seccatura di un - seppur minimo - contratto di lavoro. Con lo stage non c'è nessun obbligo: niente retribuzione, niente contributi, niente di niente. Le università offrono nella stragrande maggioranza dei casi questo servizio in maniera gratuita, accollandosi pure le uniche due piccole spese correlate allo stage, l'Inail e l'assicurazione. E molte non fanno nemmeno controlli sulla struttura societaria, le finalità di chi richiede stagisti, la qualità del percorso "formativo" offerto.Questo ragionamento porta un numero sempre più elevato di imprese a utilizzare le università come agenzie per il lavoro a costo zero. Hanno fatto scalpore per esempio, qualche tempo fa, gli annunci finiti nella newsletter di una importante università campana, che ai propri giovani - studenti e neolaureati in lingue orientali - veicolava offerte di stage nelle boutique del centro di Napoli. Come commessi.  Certo è comprensibile che ai proprietari del negozio facesse gola poter disporre, praticamente a costo zero, di persone laureate in cinese, giapponese o russo, in grado di mettere a proprio agio i ricchi acquirenti stranieri parlando nella loro lingua. Ma è altrettanto comprensibile che i giovani di quell'università si siano sentiti offesi da quelle offerte, e abbiano protestato. Allo stesso stesso modo, in misura sempre maggiore arrivano alle università richieste di stagisti da parte di call center, catene di grande distribuzione, punti vendita di commercio al dettaglio. Alcune fanno uno screening e rimandano al mittente le offerte non in linea con la formazione universitaria; ma molte altre abdicano, per mancanza di tempo o di personale o di volontà, e pubblicano tutto.Ma non si pensi che solo le imprese private facciano le furbe con questo escamotage. In realtà le università attivano anche decine di migliaia di stage in enti pubblici e perfino in organizzazioni non profit. Queste ultime infatti, pur potendo attingere al grande bacino dei volontari, vedono negli studenti e neolaureati profili incredibilmente più interessanti: ben più utile avere un giovane motivato, fresco di studi magari proprio in quelle materie di cui l'associazione si occupa, piuttosto che il pensionato che viene un paio d'ore a settimana più per sentirsi meno solo che per portare profitto all'associazione.Per gli enti pubblici, discorso a parte. Qui il dramma è quello dei buchi di organico, che in molti settori determinano rallentamenti. È il caso, già denunciato dalla Repubblica degli Stagisti, del comparto giudiziario. I tribunali sono drammaticamente sotto organico, e dunque si sono moltiplicate le iniziative volte a reperire forza lavoro direttamente dalle aule di giurisprudenza. Via dunque a protocolli d'intesa per mandare frotte di studenti e neolaureati a "formarsi" - in realtà, a dare una mano con cause, sentenze, archivi.Questa situazione non è più accettabile. Il ministro dell'istruzione e quello del lavoro devono al più presto sedersi a un tavolo e affrontare il problema: la crisi e il deficit non possono essere risolti condannando centinaia di migliaia di giovani studenti a lavorare gratis. Scuola e università devono instradarli al lavoro, è vero: ma appunto al lavoro, non al volontariato nè tantomeno alla schiavitù. Dunque sì all'abolizione degli stage post-formazione, ma a patto di riformare immediatamente l'intero sistema attraverso una stretta sulla normativa in materia di stage e sul lancio (o ri-lancio) di contratti che, assicurando ai giovani una equa base di diritti e garanzie, siano però al contempo vantaggiosi a livello fiscale e non troppo blindati: solo così si convinceranno le aziende a utilizzarli, e ricominciare ad assumere.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Quasi 80mila studenti universitari ogni anno fanno stage negli enti pubblici italiani: ma con quali garanzie di qualità?- Tribunali al collasso, sempre più stagisti per coprire i buchi di organico