Categoria: Editoriali

Stagisti in hotel e ristoranti, troppi o troppo pochi?

50mila. Tanti sono i giovani che ogni anno vanno a fare stage in bar, ristoranti, alberghi, campeggi, fast food: sono le imprese che in gergo tecnico si chiamano «servizi di alloggio e ristorazione» e «servizi turistici». E possono contare su due formidabili bacini, sempre stracolmi, da cui attingere: gli istituti alberghieri (e tutti le scuole di formazione simili) da una parte, i corsi di laurea in turismo e materie affini dall'altra. Pieni di giovani bisognosi di fare esperienza sul campo, durante gli studi e appena dopo.La notizia di oggi è che Federalberghi, l'organizzazione nazionale che rappresenta gli albergatori italiani, ha annunciato di aver depositato un ricorso al Tar contro le linee guida concordate a gennaio in sede di Conferenza Stato - Regioni sulla materia dei tirocini (non tutti: solo quelli extracurriculari).Scoprire di cosa si lamenta Federalberghi, però, è sorprendente: il ricorso, come riporta l'articolo di Fabio Savelli su Corriere.it, verte sulla proporzione tra numero di tirocinanti e numero di dipendenti. Perché, si chiederà qualcuno, le linee guida hanno per caso introdotto criteri più stringenti che in precedenza? Hanno ridotto il numero di stagisti ospitabili? Macché. Le linee guida, su questo punto, hanno ricalcato pedissequamente le norme precedenti, nella fattispecie il decreto ministeriale 142 del 1998 che per anni ha regolato tutti gli stage attivati in Italia.E allora di che si lamenta Federalberghi? La risposta che il direttore generale Alessandro Nucara affida a Savelli è questa: «Noi impugnammo già quella legge, perché ci sembrava già all'epoca necessario riconoscere al comparto turistico una deroga rispetto a quel principio. Molte aziende sono a conduzione familiare o sono piccole realtà. E così viene preclusa loro la possibilità di usufruire dei tirocinanti, in modo da formarli per un possibile successivo inserimento lavorativo». Vale la pena di "vivisezionare" questa dichiarazione, perché contiene molti aspetti interessanti.Il primo: Nucara dice che già Federalberghi anni fa impugnò quell'aspetto: si immagina dunque faccia riferimento alla 142/1998, e a un ricorso al Tar analogo a quello di oggi. Ma poiché la legge non è mai stata cambiata, si può intuire che quel primo ricorso sia andato perduto da Federalberghi. E allora perché, è lecito chiedersi, incaponirsi a presentare ricorso sempre sullo stesso punto? Il secondo: Nucara fa riferimento allo stage come preludio di un possibile «inserimento lavorativo». Purtroppo però i numeri raccolti annualmente dall'indagine Excelsior di Unioncamere sull'utilizzo dei tirocini in Italia raccontano un'altra storia: solo 7 stagisti su cento, nel settore «servizi di alloggio e ristorazione, servizi turistici», vengono poi assunti. Siamo ben tre punti percentuali sotto la già bassissima media, che si attesta al 10,2%. Alla luce di questi dati, l'«inserimento lavorativo» prospettato sembra più una chimera che altro.Il terzo: l'Italia è un paese letteralmente fondato sulle aziende familiari, le microimprese con pochissimi dipendenti. Perché mai il comparto turistico dovrebbe godere, rispetto a tutte le altre imprese simili, di una deroga alla normativa sugli stage?  Vi sono poi altre considerazioni a latere.Quel che in realtà forse spaventa molte aziende - in questo caso quelle rappresentate da Federalberghi - è l'imminente (si spera) introduzione dell'obbligo di erogare ai tirocinanti una indennità, che secondo le linee guida non dovrà essere inferiore a 300 euro al mese, ma che poi ciascuna Regione potrà quantificare in autonomia. A parte il fatto che al momento questo obbligo sussiste solo in Toscana e Abruzzo, le uniche due regioni ad aver introdotto - addirittura prima delle linee guida - provvedimenti regionali in questo senso; ma davvero si può credere che un albergo, un ristorante, un bar non abbiano 300 euro al mese da dare a uno stagista, come premio per il suo tempo e il suo impegno? C'è da chiedersi se sia sana un'azienda incapace di far fronte a una spesa simile.E c'è un altro punto delle linee guida che forse non va giù a Federalberghi: quello in cui si prescrive, «al fine di riqualificare l’istituto e di limitarne gli abusi», che i tirocinanti non possano «sostituire i lavoratori con contratto a termine nei periodi di picco delle attività» né essere utilizzati «per sostituire il personale del soggetto ospitante nei periodi di malattia, maternità o ferie né per ricoprire ruoli necessari all’organizzazione dello stesso». Perché i periodi di picco delle attività, ovviamente, potrebbero essere intesi come i periodi di alta stagione degli hotel e delle località di vacanza. Proprio quelli in cui qualche stagista (gratis) a dare una mano alla reception, alla cassa o al servizio ai tavoli fa più comodo. L'universo che sta dietro al ricorso annunciato oggi da Federalberghi contro le linee guida sui tirocini extracurriculari, insomma, è ben più complesso di quanto potrebbe sembrare. Ma la domanda in fondo è una: se non più tardi di qualche settimana fa Federalberghi lanciava l'allarme sulla crisi profonda del settore, che si concreta in minori introiti e dunque anche in minori posti di lavoro, perché oggi rivendica così aggressivamente la possibilità di avere più stagisti?Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Regioni, muovetevi: le vostre leggi sui tirocini devono essere pronte entro luglio- Indagine Excelsior, focus Tirocini / Stagisti in hotel, bar e ristoranti: se 55mila all'anno vi sembran pochi- Il capo degli ispettori del lavoro: «Se lo stage serve ad aggirare l'assunzione, noi la ordineremo

«Sta a noi, oggi, costruirci un domani migliore»: Rosina smonta gli alibi dell'Italia che non cresce

I lettori accaniti lo sanno: la prima pagina di un libro è la più importante. Leggendola si capisce il peso, la qualità, il mood di un testo. Se è scritta male, fumosa, ampollosa, complessa; se è banale, ripetitiva, noiosa; se arrivati in fondo ancora non si capisce di cosa parleranno i capitoli successivi, allora è ben probabile che non valga la pena di leggerlo, il libro.Invece la prima pagina de L’Italia che non cresce, sottotitolo «Gli alibi di un paese immobile», il nuovo saggio di Alessandro Rosina appena pubblicato da Laterza, è fulminante. Chiara come un manifesto, precisa come un bisturi, va direttamente al punto: «Si sente sempre più spesso dire che siamo un paese “senza futuro”. Non è vero», scrive l'autore, 44enne docente di Demografia alla Cattolica di Milano e presidente dell'associazione Italents. Così, semplicemente: «non è vero». Seguirà uno sproloquio buonista sul fatto che un futuro ce l'abbiamo e che non dobbiamo essere pessimisti? Macché.  «Non perché alla fine certamente ce la faremo (questo non è scontato, anzi), ma semplicemente per il motivo che il futuro prima o poi, implacabilmente, arriva. È quello che concretamente saremo fra 10, 20, 40 anni. La questione vera è quindi “quale futuro”. Quella in gioco è soprattutto la qualità della vita che ci attende». E questa qualità della vita di domani, dice Rosina, siamo noi a costruircela oggi, giorno per giorno: «Domani possiamo star peggio di oggi, non c’è nessuna legge di natura che lo impedisca, c’è solo l’azione politica e sociale che può rendere più o meno possibile un generale scadimento del benessere e delle opportunità». Dalla scelta di chi scegliamo a rappresentarci oggi - se competente o no, se onesto o no, se in grado di concepire e realizzare politiche efficaci o no - dipende il nostro futuro di domani. Avremo lavoro? Avremo pensione? Avremo equità sociale? Avremo servizi adeguati per bambini e per anziani? Avremo uno stato che funziona? Non dipende dal fato o da una palla di vetro. Dipende da ciascuno di noi: «Chi non prepara bene il terreno oggi e non semina con cura non può pretendere di raccogliere buoni frutti domani. Questo vale sia per i singoli che per il sistema paese».Già solo per questa prima pagina, il libro di Rosina vale la pena di essere letto. Nel resto del volume si parla di giovani sottopagati e sottoinquadrati, di neet, familismo, occupazione femminile. Di immigrati che - ben lungi dal «rubarci il lavoro» - sono una risorsa per il nostro Paese. Di invecchiamento e degiovanimento. Di tutto questo e molto altro si parla, e bene, a fondo, alternando i dati alle riflessioni. A dimostrazione che raramente la prima pagina di un libro inganna.Oggi, giovedì 21 marzo, presentiamo il libro a Milano: l'appuntamento è alle 14:30 all'università Cattolica (aula Pio XI°): nel dibattito, oltre all'autore, coinvolgeremo il consigliere regionale Fabio Pizzul e l'assessore alle Politiche sociali del Comune di Milano Pierfrancesco Majorino. Con l'obiettivo di demolire un bel po' di alibi, e far ripartire finalmente l'Italia con il piede giusto.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Restituire l’Imu o restituire un futuro ai giovani? Rosina, Garnero e Voltolina sostengono la Youth Guarantee- Cassa integrazione per i padri, stage gratuiti per i figli: la perversa disconnessione tra paga e lavoroE anche gli editoriali di Alessandro Rosina per la Repubblica degli Stagisti:- La raccomandazione dell’assessore per lavorare da Ikea: attentato alla merito(demo)crazia- 8 marzo: una festa celebrata da troppe casalinghe?- È giusto che i “figli di” sfruttino il vantaggio competitivo?

Abolire la legge Biagi e dare mille euro di sussidio a tutti: grillini, fate chiarezza sul programma e sulla copertura dei costi

Tutti parlano del Movimento 5 Stelle. È senza dubbio la notizia del momento, la sorpresa di queste elezioni: 109 deputati e 54 senatori fino a ieri sconosciuti - senza "storia politica" anche perché, per regola specifica, per candidarsi con Grillo non potevano averne fatta precedentemente, nè essere stati iscritti a partiti - eletti prima attraverso le "parlamentarie" online dalle persone registrate al sito di Beppe Grillo, e poi grazie alla valanga di voti ottenuti dal M5S due settimane fa. Tutti parlano del Movimento 5 Stelle. Alcuni aspetti di quest'onda nuova sono indubbiamente positivi, a cominciare dal fatto che nella maggior parte dei casi questi nuovi parlamentari sono giovani [la Repubblica degli Stagisti poco prima delle elezioni era riuscita ad intervistarne tre], e hanno contribuito fortemente ad abbassare l'età media di Montecitorio, e in qualche misura anche di Palazzo Madama. Tutti parlano del Movimento 5 Stelle: i riflettori sono puntati sul fondatore, Beppe Grillo, e la domanda più impellente è se l'accordo con il Partito democratico si farà, e di conseguenza se riuscirà a vedere la luce un governo Bersani appoggiato dai grillini fin dal voto di fiducia. I diretti interessati, i neodeputati e neosenatori del M5S, non si sbottonano. Sono (comprensibilmente) frastornati: tutti li cercano, tutti li vogliono. Parlano, per ora, molto poco con la stampa; e nella maggior parte dei casi alle domande rispondono «Andate a scaricarvi dal sito il nostro programma, lì ci sono tutte le risposte». Il programma si scarica in PDF attraverso una pagina del sito di Beppe Grillo. È un documento di 15 pagine, 13 se si escludono la copertina gialla con il logo del movimento e quella con l'indice. Sette voci: «Stato e cittadini» (una pagina), «Energia» (tre pagine), «Informazione» (due pagine), «Economia» (poco più di una pagina), «Trasporti» (una pagina), «Salute» (tre pagine), «Istruzione» (una pagina scarsa).Una notizia, a ben guardare, è che questa nuova e dirompente realtà non ha nel suo progetto politico la voce «Lavoro».  Qualche riferimento al tema si trova però nella sezione «Economia». Al quinto punto di questa pagina il programma recita: «Abolizione della legge Biagi». Nient'altro, però: non viene specificato da cosa dovrebbe essere sostituita la legge Biagi, se da un nuovo codice del lavoro o dal ritorno alla legislazione precedente - e in questo caso, a quale? Al pacchetto Treu del 1996? O ancora prima, quando le tipologie contrattuali si riducevano alla dicotomia tempo indeterminato / tempo determinato? E con quali reazioni da parte delle centinaia di migliaia di imprese che oggi utilizzano massicciamente i contratti cosiddetti flessibili?La sezione «Economia» del programma grillino prosegue poi con punti dedicati al tetto per gli stipendi del management delle aziende quotate in Borsa, alle stock option, alle tariffe di energia e telefonia, e così via. Fino al penultimo, in cui di nuovo si parla di un tema legato al lavoro: «Sussidio di disoccupazione garantito». In effetti uno dei grandi deficit del welfare italiano sta proprio lì, negli ammortizzatori sociali che coprono solo alcune fette di popolazione: per cui chi perde il lavoro ed era assunto a tempo indeterminato ha una serie di garanzie - che si chiamano indennità di disoccupazione, mobilità, cassa integrazione. E chi invece perde il lavoro ma era precario, magari con un cococo o un cocopro, è cornuto e mazziato: non ha più lo stipendio e lo Stato non lo aiuta. In realtà nemmeno questo è completamente vero: ci sono anche per i precari delle blande forme di sussidio, peraltro riorganizzate e implementate di recente dalla riforma Fornero e ribattezzate MiniAspi e una tantum. Certo queste misure sono ancora scarsamente finanziate e perciò largamente insufficienti, e non bastano a poter definire il nostro welfare davvero «universalistico», cioè capace di sostenere chiunque abbia bisogno. La gran parte dei parlamentari delle ultime legislature che si sono concentrati sul tema del lavoro - Pietro Ichino, Benedetto Della Vedova, Marianna Madia, Tiziano Treu, Cesare Damiano, Maurizio Castro solo per citarne alcuni - ha insistito sulla necessità di riformare gli ammortizzatori sociali.Nel programma del M5S si scopre che anche i grillini la pensano così. Ma che intendono, nel dettaglio, con «sussidio di disoccupazione garantito»? La frase del programma è iper-sintetica e non consente di capire a fondo in quale direzione vogliano spingere i neoparlamentari a 5 stelle. Bisogna allora rifarsi alle parole di Beppe Grillo, che nei comizi elettorali ha giocato molto spesso questa carta, riassumibile nello slogan «Mille euro a tutti». O meglio: «Il lavoro non c'è più. Io voglio fare solo una cosa: mettere la possibilità di sopravvivere senza un lavoro. Fare un reddito di cittadinanza: allora hai tre anni di tempo per cercarti un lavoro che ti compete un po' di più, perché accettare qualsiasi lavoro non è lavoro» - questa la trascrizione letterale di un passaggio di uno dei comizi dello Tsunami tour: «Abbiamo bisogno di soldi, dove li prendiamo i soldi per fare il reddito di cittadinanza? Immediatamente: le pensioni. Basterebbero le pensioni. Ci sono 125mila persone in Italia che percepiscono una pensione che va da 10mila a 90mila euro al mese. Si va lì e si dice: "scusate, siamo in emergenza, vi diamo 4mila euro al mese, potete vivere". Sono 7 miliardi, questi 7 miliardi recuperati con una circolare, non ci vuole nulla». E ancora: «Non devi mortificare la gente per il lavoro. Perché andare a cavare carbone al Sulcis a 1000 metri non è lavoro a 1.200 euro al mese. Non è lavoro vedere mio figlio laureato, i vostri figli laureati, che vanno in un call center a 400 euro al mese. Che ci vadano i figli della Fornero lì. Noi vogliamo che uno abbia un tempo di tre anni con mille euro al mese, non muori perlomeno. Poi ti offriamo tre lavori, se non li accetti perdi il sussidio, come in tutte le parti del mondo civile. Ma per lo meno hai un momento per sceglierti qualcosa adatto a te, e non diventi un frustrato». Tra le altre voci di spesa che Grillo individua per reperire fondi («I soldi li troviamo, li prendiamo») ci sono l'abolizione dei finanziamenti ai partiti (quantificata in «3 miliardi» da mettere «in un conto nella banca di Stato»), poi «1 miliardo che paghiamo con le nostre tasse ai giornali, per prenderci per il culo», «le province: 11 miliardi», «2,2 miliardi per fare la Tav che non serve a niente». E fin qui siamo a 24,2 miliardi di euro. E poi «via il doppio incarico, via i vitalizi, via la pensione dopo 35 mesi, via segretari, via macchine blu, via le scorte», e ancora «accorpiamo i comuni sotto i 5mila abitanti»: ma questi tagli non sono quantificati. È peraltro ragionevole pensare che ciascuno di questi comporterebbe anche perdita di lavoro per migliaia di addetti. Ma non divaghiamo.In sostanza, analizzando la proposta del «sussidio di disoccupazione garantito» attraverso le parole di Grillo, si capisce che essa è un ibrido tra un reddito di inserimento e una indennità di inoccupazione-disoccupazione. Chiamarlo «reddito di cittadinanza» è abbastanza improprio, perché dalla spiegazione della proposta si evince che questo sussidio avrebbe un tempo limitato e soprattutto che verrebbe erogato solo a condizione che il beneficiario si impegni a cercare attivamente lavoro - anche se non è chiaro a chi spetterebbe di offrire le tre opportunità di lavoro, dopo averne valutata la congruità con il profilo professionale, e a sanzionare con la sospensione del sussidio chi rifiuta troppe volte. I centri per l'impiego pubblici? Le agenzie per il lavoro private? O un nuovo sistema che gestisca l'incontro domanda-offerta?Resta il fatto che dare mille euro al mese per tre anni anche solo ai 2,2 milioni di neet under 29 italiani costerebbe oltre 26 miliardi di euro all'anno. 80 miliardi di euro sui tre anni. Garantire questi mille euro, in aggiunta, a tutti i 300mila giovani che si laureano ogni anno nelle università italiane, e che dunque si affacciano al mercato del lavoro cercando qualcosa di coerente con ciò che hanno studiato, costerebbe altri 3 miliardi e 600 milioni di euro all'anno, dunque oltre 10 miliardi di euro complessivi per il triennio.Questi numeri sono calcolati per difetto, perché escludono tutti i giovani "anzianotti" (over 29) disoccupati e sottoccupati, e in generale tutti gli adulti senza impiego. Volendo dunque tagliare la testa al toro facendo un calcolo più aderente alla realtà, e ipotizzare una platea di 5 milioni di italiani per questa misura, il budget complessivo necessario schizza a 60 miliardi di euro all'anno.È davvero un costo sostenibile per le casse dello Stato? Con i tagli alle spese inutili o ingiuste Grillo promette di trovare una trentina di miliardi di euro all'anno: meno della metà della cifra necessaria ad attuare quel punto programmatico. Inoltre altre parti del programma dei 5 stelle, sia scritte sia enunciate a voce nei comizi, prevedono da una parte nuove spese a carico dello Stato (per «impedire lo smantellamento delle industrie alimentari e manifatturiere con un prevalente mercato interno», «favorire le produzioni locali», «sostenere le società no profit», sviluppare «tratte ferroviarie legate al pendolarismo», coprire «l’intero Paese con la banda larga», incentivare «i mercati locali con produzioni provenienti dal territorio», «investire sui consultori familiari» - solo per fare alcuni esempi - servirebbero necessariamente aiuti e/o investimenti statali) e dall'altra l'abbassamento delle tasse e dunque minori introiti per le casse pubbliche: l'abolizione dell'Irap, gli sgravi contributivi alle imprese che assumono under 35, l'obbligo per le pubbliche amministrazioni di pagare i propri creditori entro 60 giorni, e le altre misure - peraltro largamente condivisibili - proposte dai 5 stelle sembrano dimostrare quantomeno una scarsa dimestichezza con la questione del bilancio dello Stato. Senza contare che realizzare altri punti del programma - specialmente il «blocco immediato del Ponte sullo Stretto» e il «blocco immediato della Tav in Val di Susa» - comporterà il dovere da parte dello Stato di pagare penali milionarie alle aziende aggiudicatarie.La politica è certamente l'arte di immaginare un futuro migliore. Ciascun partito ha le sue idee, ed è giusto che proponga una ripartizione della spesa pubblica mirata a sostenere le azioni e le misure che il suo programma e il suo elettorato ritengono prioritarie. Il problema, però, è quando si promette ai cittadini qualcosa che - salvo miracoli - sarà impossibile mantenere. Come fece Berlusconi nel 2001, quando promise «un milione di posti di lavoro». Lo ha fatto sempre Berlusconi anche in questa campagna elettorale, giurando ai cittadini che avrebbe rimborsato integralmente e immediatamente le quote pagate per l'Imu: una misura che sarebbe costata 8,6 miliardi a Stato e Comuni per il solo 2013 (il calcolo è del Sole 24 Ore), promessa che quasi sicuramente, se avesse vinto, il PdL non sarebbe riuscito ad onorare - quantomeno nei tempi prospettati in tv. Lo ha fatto la Lega nelle ultime regionali in Lombardia, promettendo di trattenere il 75% delle tasse dei suoi cittadini in Regione, cosa che difficilmente riuscirà a realizzare senza il completo accordo (scarsamente probabile) di governo e parlamento. Lo hanno fatto tanti altri, sempre, a tutte le tornate elettorali perché promettere non costa niente. In fondo, insomma, il problema è sempre quello. Studiare bene, fare proposte dettagliate, spiegare chi e quanto e come. E sopratutto con quali soldi. Altrimenti le promesse dei programmi finiscono per risultare luccicanti involucri senza contenuto, irrealizzabili per mancanza di fondi.Gli ammortizzatori sociali universalistici e il reddito minimo garantito, in particolare, c'è chi li studia da anni, avendone definito con esattezza platea e costi. Così come le riforme del diritto del lavoro, la loro aderenza con il mercato di oggi e di domani e con le esigenze delle imprese, per trovare una quadra tra il necessario grado di flessibilità in entrata e in uscita e le giuste garanzie da assicurare ai lavoratori. Sono temi complessi, che non possono e non devono essere banalizzati. Neanche con la miglior buona fede del mondo. Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- «Per garantire a tutti 600 euro al mese bastano 18 miliardi di euro all'anno»- Indennità una-tantum per cococo e cocopro: più che un ammortizzatore, una beffa- Aspi, Miniaspi e una tantum: come sono usciti dal Senato gll ammortizzatori per chi perde il lavoro- Reddito minimo garantito: ce l'hanno tutti tranne Italia, Grecia e BulgariaE anche:- Grillini in Parlamento, tre futuri deputati si raccontano- Reddito minimo garantito, parte la raccolta firme della Cgil per ripristinare la legge sperimentale in Lazio. Con due ombre: il costo spropositato e il rischio di assistenzialismo

Un solo appello: votate. E lì dove è possibile, votate i (bravi) candidati giovani

Oggi e domani si vota. Si vota per rinnovare il Parlamento e i consigli regionali di Lombardia, Lazio e Molise. Si vota e l'unica cosa importante da fare è... votare. Votare per far sentire la propria voce, per dare il proprio contributo alla costruzione della classe politica che guiderà l'Italia nei prossimi anni. «Penso che questi giovani la debbano piantare di subire in silenzio, fare uno stage dietro l’altro in silenzio, fuggire all’estero in silenzio, lamentarsi in silenzio, vivere in silenzio. È indispensabile che tirino fuori la voce e che si attivino per fermare questo declino, invertire la rotta, rivendicare la necessità di una svolta meritocratica. Si devono impegnare in prima persona, anche se questo vuol dire passare la serata a un dibattito o alla presentazione di un libro o a una manifestazione di piazza invece che al campo di calcetto o in salotto a giocare alla playstation. Si devono arrabbiare: ma non una tantum, coi vaffaday che il giorno dopo sono già nel dimenticatoio. Con la violenza – anche solo verbale – non si va lontano. Quindi la rabbia e l’indignazione vanno declinate in maniera costruttiva, pensante, propositiva, credibile. Certo è un po’ meno facile e immediato che mandare affanculo il sistema, ma molto più efficace e potente.L’errore più grave degli ultimi anni è aver confuso e amalgamato l’insoddisfazione e la rabbia con il disimpegno, l’inerzia, addirittura l’astensionismo alle elezioni. Chi ha alimentato questo modo di pensare era nel migliore dei casi poco avveduto, nel peggiore al contrario molto avveduto – e fine calcolatore. Escludere la massa dei giovani dalla vita pubblica, convincerli che smettendo di fare politica, di impegnarsi nella società, di votare avrebbero dato chissà quale forte segnale, per i vecchi ha significato vincere ancora una volta: hanno potuto fare il bello e il cattivo tempo senza nessun contraltare, nessun antagonista, anzi nessun protagonista sulla sponda opposta; hanno potuto legiferare, decidere, spartirsi privilegi e poltrone. E le generazioni nate negli anni Settanta e Ottanta, zitte a casa. Qualcuno forse ci ha creduto, nella balla del «segnale forte del disimpegno», chissà – come se davvero fosse possibile che a tacere si ottenga di più che a parlare. Per molti altri è stata invece semplicemente la scelta più comoda, perché non è divertente usare il proprio tempo libero per organizzare dibattiti, partecipare a discussioni, produrre proposte concrete, studiare per prepararsi alla battaglia, metterci la faccia, esporsi a critiche. Gli ultimi quindici anni hanno dimostrato però al di là di ogni possibile dubbio che il «segnale forte del disimpegno» tanto forte non è, e che soprattutto non paga: anzi funge da lubrificante, annienta l’attrito e permette che sia perpetuato lo status quo. Bisogna che gli stagisti, gli ex stagisti e i futuri stagisti, i giovani e i giovanissimi e anche quelli che giovani non sono più ma che vengono trattati come se lo fossero, tornino a impegnarsi in prima persona».Eleonora Voltolina, dal libro "La Repubblica degli stagisti - Come non farsi sfruttare", ed. Laterza 2010Il contributo della Repubblica degli Stagisti a questa campagna elettorale è riassunto qui sotto, negli articoli che abbiamo dedicato ad alcuni candidati, di tutti gli schieramenti: candidati giovani, perchè impellente è il bisogno di avviare un ricambio generazionale. Ciascuno poi scelga con la sua testa, secondo le sue convinzioni. Ma l'astensionismo, a questo giro, lasciamolo a casa. - Valentina La Terza, Elisabetta Piccolotti, Laura Ricciatti - Politiche 2013: ecco chi sono le giovani candidate di SEL più votate alle primarie- Miriam Cominelli, Anna Ascani, Sabrina Capozzolo - Politiche 2013: tre candidate PD under 35 tra le più votate alle primarie- Giuditta Pini e Marco Donati - Politiche 2013: due ritratti (e uno mancato) a giovani candidati del PD diretti a Montecitorio- Emanuele Prataviera, Matteo Luigi Bianchi, Eugenio Zoffili - Nuove leve nella Lega: due lombardi e un veneto puntano a Montecitorio- Simone Montermini, Piecamillo Falasca e Gabriele Picano - Giovani transfughi liberali: da Pd, Pdl e Fli tre candidati si ritrovano nella "Scelta Civica" di Monti- Mara Mucci, Riccardo Nuti, Laura Castelli - Grillini in Parlamento, tre futuri deputati si raccontano- Gabriella Giammanco, Nino Minardo, Massimiliano Fedriga - Politiche 2013: tre giovani deputati di centrodestra (ricandidati) alla prova dei fatti- Trappolino, Madia, Picierno: cos'hanno fatto (e cosa promettono di fare) tre giovani deputati PDE per le regionali:- Patto per lo stage, l'elenco di chi lo ha sottoscritto- Patto per lo stage, sottoscrive Umberto Ambrosoli- Marco Furfaro, Salvatore Aprile, Daniele Ognibene - Patto per lo stage, ecco chi sono i tre candidati (tutti giovani) alla Regione Lazio che lo hanno sottoscritto- Patto per lo stage: perchè dalle parole si passi ai fatti

Restituire l’Imu o restituire un futuro ai giovani? Rosina, Garnero e Voltolina sostengono la Youth Guarantee

In questi giorni in cui si discute il futuro dell’Italia i temi al centro della campagna elettorale sono i più disparati: l’Imu, le alleanze, i giaguari da smacchiare, i cani... Niente invece, se non qualche generico accenno, rispetto alle giovani generazioni. Eppure dall’Europa ci arriva una richiesta pressante: non solo tenere in ordine i conti pubblici ma, anche e soprattutto, impiegare di più e meglio i giovani nel mercato del lavoro. Ci riferiamo in particolare alla “Youth Guarantee”: una proposta che impegna a garantire, entro quattro mesi dal termine degli studi o dalla perdita di un impiego, una buona offerta di lavoro, oppure un contratto di apprendistato, un tirocinio di qualità, o almeno un corso di formazione professionale. Parrebbe un’utopia, ma in realtà la Garanzia giovani in alcuni paesi – Austria, Svezia, Finlandia – esiste già ed altri sono pronti ad adottarla.
In quasi tutti i paesi europei, certamente in quelli con sviluppo più solido, i giovani possono contare su un sistema di welfare e su politiche attive per il lavoro ben più consistenti rispetto al nostro. Questa carenza fa sì che con neodiplomati e neolaureati abbiano più difficoltà a trovare un’occupazione e che più a lungo dipendano passivamente dalla famiglia di origine (“Ereditalia” in una parola). In Italia è drammaticamente alta la probabilità che un giovane, anziché essere produttivo e contribuire alle entrate fiscali, sia un peso per la famiglia e un costo per la collettività. L’elevato numero di inattivi, disoccupati e sottoccupati comporta costi rilevanti non solo in termini sociali, ma anche macroeconomici: Eurofound ha calcolato che il costo dei Neet  (i giovani che non studiano e non lavorano) per l’Italia è pari al 2% del Pil, l’equivalente di una pesante finanziaria. 
Nel nostro paese non vi è ancora un quadro di riferimento né per le politiche di attivazione dei giovani, né per l'accesso ai sussidi di disoccupazione, da cui i giovani sono in buona parte esclusi: non sono infatti previsti ammortizzatori per chi non ha mai lavorato, per chi ha una bassa anzianità di lavoro, per chi ha contratti di breve durata o particolari forme di collaborazione. E i “buchi contributivi”, cioè i periodi di non lavoro durante i quali i giovani per forza di cose non pagano contributi alle casse previdenziali, gettano una luce sinistra sulle loro pensioni future. Per questi motivi abbiamo accolto con favore l’invito a diventare “garanti” della proposta “Garantiamo noi!” lanciata dai “Non + disposti a tutto” (espressione dei giovani della Cgil) che per primi hanno ripreso la proposta Ue per farla adottare nel nostro Paese. In concreto, ogni giovane che avesse terminato gli studi o  perso il lavoro firmerebbe un vero e proprio contratto, certificando lo stato di disoccupazione e stabilendo diritti e doveri reciproci. Con la Youth Guarantee i centri per l’impiego sarebbero tenuti a fornire una concreta proposta di lavoro oppure una esperienza qualificante di formazione / tirocinio (regolato!) entro un margine di quattro mesi dall’inizio del periodo di disoccupazione o dal termine degli studi. Un sistema, quindi, che non lascia più i giovani abbandonati a se stessi, passivamente dipendenti dalla famiglia di origine. Tutto questo impone anche agli uffici del lavoro la sfida di superare la dimensione provinciale, nel senso letterale del termine, garantendo standard minimi e integrandosi alla rete europea Eures. Oltre a questo, una seria riflessione sugli eccessi di federalismo all’italiana dovrà toccare anche i temi della formazione professionale e degli stage, al momento sotto una (insensata?) competenza regionale che rende praticamente impossibile una regolamentazione e un controllo a livello nazionale. La formazione è la seconda voce di spesa dopo la sanità per le regioni, ma a tale investimento non fanno fronte risultati concreti salvo per le casse degli enti di formazione professionale. Sì, tutte belle idee, diranno i lettori: ma quanto costerebbe questa Youth Guarantee? La Commissione stima un costo di 21 miliardi di euro per i 27 Paesi Ue, e sosterrà i programmi nazionali attraverso i finanziamenti europei - in particolare dedicando a questa priorità la programmazione 2014-2020 dei Fondi strutturali e la coda degli attuali fondi. 
Per l’Italia la Cgil ha ipotizzato un investimento di almeno un miliardo di euro. Per reperire questi soldi si potrebbe partire da una profonda revisione della spesa dei fondi già esistenti (incentivi per le assunzioni, sostegno all'imprenditoria giovanile, formazione, ufficio del lavoro etc..), spesso “buttati” in iniziative poco efficaci. Se non bastasse, i “Giovani non +” propongono di prendere i fondi mancanti con una maggior imposizione fiscale sui grandi patrimoni. Ma altre fonti di finanziamento, in alternativa o in aggiunta, sono possibili. Se le opinioni su questo ultimo punto possono essere diverse, anche ideologicamente, la Garanzia Giovani in sé invece non può essere considerata né di sinistra e né di destra, ma la condizione base per un miglioramento delle opportunità delle nuove generazioni su livelli almeno comparabili ai coetanei europei. Una proposta da sostenere per tutti coloro che credono che le possibilità di questo Paese per tornare crescere ed essere competitivo dipendano in larga parte dalla capacità di mettere i giovani nelle condizioni di dare il loro pieno contributo. Il prossimo governo dovrà ripartire dall’emergenza occupazionale e formativa: perché non parlarne già ora prendendo impegni precisi? Alessandro Rosina, Andrea Garnero, Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento:- Youth Guarantee anche in Italia: garantiamo il futuro dei giovani - Emergenza Neet, all’Europa i giovani che non studiano e non lavorano costano 2 miliardi di euro a settimanaE anche:- Tre milioni di giovani esclusi o sottoinquadrati: Monti, questa è la vera sfida da vincere- I giovani italiani lavorano troppo poco e sono i più colpiti dalla crisi: lo conferma il Rapporto Censis 2011

Appello Rosina-Voltolina: più giovani e donne alle primarie del PD

È ormai a livelli pericolosamente bassi la fiducia verso la classe politica - accusata di essere chiusa e ostile a rimettersi in discussione a fronte di risultati del tutto deludenti rispetto alla crescita del paese e alla riduzione delle diseguaglianze sociali. Una sfiducia generalizzata alla quale i partiti possono rispondere riacquistando credibilità attraverso seri e trasparenti meccanismi di ricambio, di selezione in base alle competenze, aperti alla più ampia partecipazione dei cittadini.L’insofferenza negli ultimi anni è cresciuta molto soprattutto nelle nuove generazioni, che da un lato sono quelle su cui maggiormente pesano gli effetti negativi della crisi e degli errori del passato, ma che, d’altro lato, sono anche escluse, più che in altri paesi, dalla possibilità di poter contare sulle scelte strategiche - di legge e di governo - del paese.Non a caso lo strumento delle primarie ha dimostrato che una inversione di tendenza è possibile e che i partiti che si aprono al confronto e si rimettono in discussione dando reale potere di scelta agli elettori possono recuperare credibilità e consensi, anche tra e con i giovani.Tra poco più di due mesi si torna a votare per il Parlamento italiano, in una fase molto delicata di crisi perdurante e di difficoltà della politica a fornire risposte convincenti. Purtroppo si voterà ancora con una legge elettorale che non prevede preferenze e con vincoli anagrafici tra i più severi in Europa (25 anni per entrare alla Camera e 40 al Senato) che frenano la possibilità di un effettivo rinnovamento basato esclusivamente sulle qualità dei candidati, non deciso dall’età e nelle stanze chiuse dei palazzi del potere.Il Partito Democratico ha deciso di indire le primarie per la scelta dei parlamentari proprio per evitare che anche il prossimo sia solo un Parlamento di nominati con scarsa presenza di donne e nuove generazioni e con i pochi nomi nuovi stabiliti per cooptazione.Ma perché questa apertura sia effettiva non basta consentire al nuovo di proporsi, questo "nuovo" va anche sostenuto e incoraggiato, offrendo strumenti e regole adeguate per emergere e poter essere presi  in considerazione e valutati dall’elettorato. Più che quote servono meccanismi e opportunità vere che consentano di mettere in virtuosa competizione gli uscenti che si ricandidano con i potenziali nuovi entranti. In questa fase politica è più importante cambiare per ripartire con nuovo slancio, che conservare l’offerta già presente.Facciamo quindi tre inviti.Ai giovani con qualità e capacità chiediamo di mettersi in gioco e candidarsi. Ci sono tanti giovani cervelli eccezionali, persone competenti, non appartenenti alle generazioni culturalmente compromesse con gli errori del passato, che hanno già avuto modo di dimostrare le proprie capacità e che potrebbero portare all'Italia una ventata di innovazione.Al PD chiediamo di incoraggiare e sostenere soprattutto le candidature di giovani e di donne. Di consentire, nonostante i tempi troppo stretti, a tutti di poter avere spazi e mezzi adeguati per farsi conoscere e comunicare la propria visione di politica.Invitiamo infine gli elettori a dare attenzione ai volti nuovi, a prendere in concreta considerazione la possibilità di dar loro fiducia valutandone caratteristiche e profilo.Supportare la candidatura di under 40 di qualità – in combinazione con la possibilità di esprimere una doppia preferenza di genere  – è il modo più concreto per contribuire ad una rigenerazione vera della politica di questo Paese.Eleonora Voltolina e Alessandro Rosina Per saperne di più, leggi anche:- Progetto Lombardia 2010, SPAZIO AGLI UNDER 35: videointerviste ai candidati più giovani delle prossime elezioni regionali- L'appello a Mario Monti: nel prossimo governo devono esserci anche giovani e donneE anche:- Primarie, confronto su Sky: troppo poco spazio a giovani e lavoro, bisogna rimediare- Laura Puppato: «Ecco cosa farei per i giovani se fossi premier»- Nichi Vendola: «Ecco cosa farei per i giovani se fossi premier»

Equo compenso giornalistico, l'importanza di una legge

Tra le tante proposte di legge in discussione in Parlamento ce n'è una che sta particolarmente a cuore alla Repubblica degli Stagisti: si tratta di quella sull'equo compenso giornalistico, che dovrebbe impedire - o quantomeno rendere più difficile e meno conveniente - di sottopagare i giornalisti freelance e precari. È una legge che non piace a molti, sopratutto agli editori, ma che viene difesa con le unghie e con i denti dai precari che negli ultimi anni si sono organizzati in movimenti e collettivi e che rivendicano sacrosantamente il loro diritto ad essere pagati in maniera dignitosa. È una legge che ha superato vari scogli e che adesso è al Senato per l'approvazione finale. La settimana scorsa sembrava si fosse di nuovo incagliata, per l'ennesima volta, e allora la Fnsi - il sindacato che raccoglie la maggior parte dei giornalisti italiani - aveva indetto uno sciopero per lunedì 26 novembre, cioè per oggi. Poi lo sciopero è stato rinviato: «Una lettera impegno del presidente Renato Schifani e un invito della Fieg sono stati considerati elementi utili per una sospensione» ha scritto venerdì Enzo Iacopino, presidente dell'Ordine dei giornalisti, sulla sua bacheca Facebook: «Schifani ha aiutato Odg e Fnsi nella tormentata vicenda della legge sull'equo compenso. Il suo intervento meritava considerazione. La Fnsi renderà noti altri particolari».Sciopero o non sciopero, la Repubblica degli Stagisti voleva - vuole - sostenere questa battaglia anche nei fatti. Ma come può farlo una testata online che non ha dipendenti, ma solo collaboratori freelance (peraltro tutti pagati, e con tariffe - ne siamo orgogliosi - ben superiori alla media del mercato e infinitamente superiori rispetto ai siti nostri "competitor")?  L'unica soluzione era dedicare l'articolo di oggi a questo tema. E con l'occasione ricordare tutti gli articoli dedicati a questo tema negli ultimi tre anni: sono tanti, e c'è un perché. Le condizioni lavorative e retributive offerte ai giornalisti precari (e quasi tutti gli under 40 che fanno oggi questo mestiere sono giornalisti precari) non riguardano solo loro. Se una testata paga 5 euro per un articolo, il problema non è solo del giornalista che con quegli spiccioli nemmeno si ripaga le spese. Il problema è anche del pubblico, delle persone che leggono quell'articolo pagato 5 euro per il quale magari il giornalista non ha avuto il tempo e le risorse per fare tutte le verifiche, andare sul posto, approfondire. Un giornalista ben pagato è un giornalista che può svolgere serenamente e al meglio il proprio mestiere, e assicurare  ai cittadini un'informazione libera e accurata, permettendo a ciascuno di conoscere per deliberare. Dunque il problema dei salari da fame dei giornalisti italiani è un problema di tutti i cittadini italiani.Ed ecco dunque tutti gli articoli dedicati ai problemi e ai casi della professione giornalistica pubblicati fino ad oggi sulla Repubblica degli Stagisti.2012- Che fine faranno i pubblicisti? Ordine dei giornalisti in subbuglio per la riforma delle professioni- Giornalisti precari, il problema non è il posto fisso ma le retribuzioni sotto la soglia della dignità- Riforma dell'Ordine dei giornalisti: verso un ponte di due anni per salvare i pubblicisti- Giornalisti a tutti i costi, il business dei mille corsi- Dar voce ai giovani, dar voce alle donne: l'impegno della Repubblica degli Stagisti- Giornalismo, al Festival i problemi della professione- Equo compenso per i giornalisti, sfuma l'approvazione della legge ma i freelance non demordono- Le scuole di giornalismo sono ormai solo per i figli dei ricchi?- Giornalismo, le scuole muovono quasi 2 milioni di euro all'anno: tutti i numeri- Scuole di giornalismo troppo costose, ma i veri problemi della professione sono altri- Enzo Iacopino: «Le scuole strumento essenziale, il problema sono i costi»- Giornalismo, Cotroneo: «Meglio il praticantato nelle scuole che nelle redazioni»- Largo ai giovani giornalisti: Napoli ospita gli Youth Media Days- Antonio Loconte: «Cari aspiranti giornalisti, lasciate stare e fate gli idraulici»- A Torino una start-up prova a riscrivere il futuro del giornalismo- Natale, presidente Fnsi: «La legge sull'equo compenso è un pungolo per gli editori»2011- Giornalisti precari in rivolta: a Napoli reclamano più spazio nella web tv del Comune, a Roma diventano Errori di stampa- Stagista per tre anni, Ilaria denuncia: «Tv, radio, giornali, uffici stampa: ho fatto sei tirocini e nessuno mi ha portato un lavoro»- Giornalisti precari alla riscossa: a Firenze due giorni di dibattito per approvare una Carta deontologica che protegga dallo sfruttamento- Lo scandalo dei giornalisti pagati cinquanta centesimi a pezzo. Il presidente degli editori a Firenze: «La Fieg non dà sanzioni. E poi, cos’è un pezzo?»2010- Praticantato in redazione: l'esperienza di Caterina Allegro in un service editoriale- Luca De Vito: «Alla scuola di giornalismo un praticantato stimolante, ma niente certezze per il futuro»- Praticantato d'ufficio, il calvario di A., giornalista free lance, per diventare professionista- Il Fortino, una riflessione di Roberto Bonzio sui giornalisti di domani: «Oggi chi è dentro le redazioni è tutelato, ma fuori ci sono troppi sottopagati»- Giornalisti praticanti, intervista a Roberto Natale della Fnsi: «L'accesso alla professione va riformato al più presto»- Aspiranti giornalisti, attenzione agli annunci di stage a pagamento in Rete: la richiesta di help di tre lettori- La richiesta di aiuto di Alessandro: «Da Globalpress vaghe promesse e la certezza di dover pagare per un lavoro»- Vito Bruschini, direttore di Globalpress e amministratore di Kronoplanet: «Nessuna promessa di assunzione. I 300 euro che chiediamo ai ragazzi? Soltanto un rimborso spese»- Il ministero degli Esteri a Globalpress: «Nei vostri annunci per i corsi di giornalismo a pagamento formule equivoche e non veritiere, modificatele»- La Fondazione Montanelli diffida Globalpress: «Non siete autorizzati a usare il nome di Indro Montanelli per il vostro corso di giornalismo»- La replica di Vito Bruschini, direttore di Globalpress e amministratore di Kronoplanet, alla Repubblica degli Stagisti- Disposti a tutto pur di diventare giornalisti pubblicisti: anche a fingere di essere pagati. Ma gli Ordini non vigilano?- Costi, remunerazione minima, articoli richiesti: tutti i requisiti per diventare pubblicisti, Ordine per Ordine- La testimonianza di Franca: «Dopo una serie di stage logoranti, la scelta di pagarmi da sola i contributi da pubblicista»- La testimonianza di Carlo: «Sono diventato pubblicista scrivendo gratis: ma almeno le ritenute d’acconto me le hanno pagate»- La Fnsi dichiara guerra agli stagisti giornalisti. Quaranta praticanti rifiutati a pochi giorni dall'inizio degli stage: «Le testate in stato di crisi non possono utilizzarli»- Un'aspirante giornalista: «Una testata non voleva pagare i miei articoli: ma grazie alla Repubblica degli Stagisti e a un avvocato ho ottenuto i 165 euro che mi spettavano»- Da Parigi a Betlemme tra giornalismo ed impegno sociale: Maria Chiara Rioli racconta il suo servizio civile in Israele-Palestina- Eleonora Voltolina: «Mi candido nelle liste di Quarto Potere perchè il sindacato ha bisogno di un rinnovo generazionale»- Un giovane giornalista scrive a Eleonora Voltolina: «Ti voterei, ma non sono iscritto al sindacato»2009- Crisi dell'editoria: per i neogiornalisti il futuro è incerto - Pianeta praticanti: inchiesta della Repubblica degli Stagisti- Aiutati che il web t'aiuta: Offline, le notizie «inaltreparole» raccontate da sei ex stagisti giornalisti intraprendenti

Lavoro e volontariato, dove sta il confine?

Cosa differenzia un lavoratore da un volontario? Principalmente una cosa: il denaro. Il lavoratore svolge una prestazione professionale dietro compenso: salvo storture, cioè, ha un contratto di subordinazione o di collaborazione col datore di lavoro, e una retribuzione ben definita che rappresenta una motivazione importante - spesso la principale, talvolta addirittura l'unica - per svolgere quel lavoro. Il volontario è invece chi presta la propria opera gratuitamente, come impegno più o meno civico. I volontari si possono suddividere grossomodo in due tipologie: vi sono quelli che non hanno particolari capacità professionali, e che dunque devolvono più che altro il proprio tempo rendendosi disponibili a fare qualsiasi cosa serva. È il caso di molti pensionati (ma anche, sempre piu numerosi, giovanissimi) che mandano avanti le segreterie, i banchetti per le raccolte fondi, le pesche di beneficienza di tante realtà non profit sparse sul territorio. Vi sono poi i professionisti che decidono, spesso per affinità ideologica con determinate realtà associative, di impiegare parte del proprio tempo libero svolgendo il proprio mestiere, ma senza chiedere compenso. Qui stanno per esempio tutti quei medici che partono per paesi del terzo mondo e regalano per qualche settimana le proprie abilità cliniche o chirurgiche negli ospedali da campo.Ovviamente non tutte le realtà possono avvalersi di volontari. Per poter utilizzare lavoro gratuito infatti bisogna essere associazioni, ong, insomma soggetti senza scopo di lucro. Nella legge quadro sul volontariato risalente al 1991 si legge infatti che «per attività di volontariato deve intendersi quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà», che «l’attività del volontariato non può essere retribuita in alcun modo [...] possono essere soltanto rimborsate dall’organizzazione di appartenenza le spese effettivamente sostenute per l’attività prestata», e infine che «la qualità di volontario è incompatibile con qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato o autonome e con ogni altro rapporto di contenuto patrimoniale con l’organizzazione di cui fa parte». Altrimenti sarebbe troppo facile: permettere il volontariato nelle imprese private, infatti, sarebbe un po' come legalizzare lo sfruttamento.Vi é però una sempre più grande zona grigia, rappresentata dalle associazioni non profit che svolgono attività produttive, spesso su commissione di enti pubblici. Per farlo nella maggior parte dei casi partecipano a bandi, ricevendo finanziamenti per realizzare determinati servizi. Ma per vincere i bandi queste associazioni il più delle volte tirano al massimo risparmio: il che, tradotto, si trasforma in abuso di stage e contratti parasubordinati, e sempre più spesso nell'impiego di volontari per mansioni specifiche.Per quanto riguarda gli stage, un dato ufficiale come al solito non c'è. La Repubblica degli Stagisti ha stimato che, su oltre 200mila associazioni non profit esistenti (che occupano più o meno mezzo milione di persone - i dati sono però un po' vecchiotti, dato che risalgono al Censimento generale dell’industria e dei servizi realizzato dall'Istat nel 2001), gli stagisti siano ogni anno almeno 60mila. L'aspetto qui inquietante è che non si comprende bene che senso possa avere lo stage in un'associazione, essendo già possibile svolgervi periodi di volontariato. La deduzione più verosimile, e triste, è che attraverso la formula dello stage le associazioni a corto di militanti possano reperire più candidature e sopratutto tracciare profili specifici, per non avere il pensionato settantenne che con tanta buona volontà viene a rispondere al telefono due pomeriggi a settimana, ma lo studente universitario ventenne, bravissimo col computer, che con entusiasmo dedica 8 ore al giorno a mettere in piedi un sito, a organizzare campagne di pubblicità o di raccolta fondi, mettendo a frutto le sue competenze specifiche. Un bel terno al lotto per l'associazione: con l'ulteriore vantaggio del solito paravento paternalistico-buonista di "offrire formazione" allo stagista in questione.Ma al di lá dello stage il punto è: quanto è accettabile che una associazione non profit agisca sul mercato, proponendosi per svolgere progetti ed erogare servizi? Pochi giorni fa l'edizione emiliana del sito del Fatto Quotidiano ha raccontato il caso della più importante biblioteca comunale di Bologna: «Salaborsa cerca “volontari”. I dipendenti: “Abbiamo paura che ci sostituiscano”». L'articolo racconta dell'annuncio recentemente pubblicato in rete dalla biblioteca per trovare persone «che li aiutino nella gestione quotidiana della struttura», dando voce ai timori dei dipendenti e al biasimo della rete. Perchè cercare volontari per svolgere mansioni simili o uguali a quelle dei bibliotecari significa essenzialmente una cosa (confermata peraltro dalle dichiarazioni dell'assessore Ronchi): siccome non ci sono più soldi per pagare lavoratori che tengano aperta la biblioteca e facciano tutto quel che c'è da fare per farla funzionare, si cercano volontari disponibili a svolgere quegli stessi compiti senza compenso.Il tema è scivolosissimo. Non è un caso che se ne parli poco nel dibattito pubblico. Perchè le associazioni servono. Assicurano prestazioni di cui grandi fette della società hanno bisogno. Le assicurano senza pesare sullo Stato, o pesando molto meno di quanto farebbe un normale fornitore "profit". Ma è accettabile che possano agire in tutti i settori professionali, facendo concorrenza - inevitabilmente sleale - alle imprese private? Ed è accettabile che riescano a contenere i costi, e dunque a offrire preventivi al massimo ribasso, perchè si avvalgono di volontari, stagisti e lavoratori precari (il più delle volte sottopagati) cui in molti casi affidano mansioni in tutto e per tutto identiche a quelle dei lavoratori subordinati?Sempre più spesso alla redazione della Repubblica degli Stagisti arrivano testimonianze di persone deluse. Che entrano con entusiasmo in qualche realtà non profit, il più delle volte credendo fortemente nei valori sbandierati sulle brochure o negli spot televisivi, per poi ritrovarsi in gironi danteschi in cui l'organizzazione interna é improntata al massimo risparmio, a cominciare da quello sulle risorse umane. In cui le persone vengono messe sotto pressione come - talvolta peggio che - in una struttura privata, con compiti specifici, orari di "lavoro", carichi di responsabilità spropositati. L'aspetto più brutto è che in questi casi i valori "esterni" sui quali si basa l'attività e l'esistenza stessa dell'associazione non vengono affatto rispettati nella gestione interna. Una contraddizione insopportabile: che alcuni vivono quasi come un tradimento.Forse la cosa migliore sarebbe che le associazioni tornassero a fare le associazioni, eliminando la possibilità che possano sostituirsi alle imprese "normali", agire sul mercato e utilizzare volontari al posto di lavoratori. Oppure, in alternativa, il mercato potrebbe rimanere aperto - ma solo a patto che le onlus concorressero ad armi pari con le imprese private, fornendo servizi e prestazioni esclusivamente attraverso personale correttamente contrattualizzato e retribuito. Come peraltro prevede anche la legge, che accanto ai volontari (che devono essere «determinanti» e «prevalenti») prevede che le associazioni possano avvalersi anche di «lavoratori dipendenti» o di «prestazioni di lavoro autonomo». Perchè la differenza tra lavoro e volontariato deve rimanere sempre ben chiara a tutti: anche in tempi di crisi e di spending review.Eleonora VoltolinaPer saperne di più, leggi anche:- Senza soldi non ci sono indipendenza, libertà, dignità per i giovani: guai a confondere il lavoro col volontariato- Servizio civile, tempo di selezioni: al sud si sgomita, al nord posti vuoti. E anche il volontariato diventa un ammortizzatore socialeE anche: - Leonzio Borea, direttore dell'Ufficio servizio civile nazionale: «Offriamo ai giovani un'esperienza preziosa, ma abbiamo sempre meno fondi»- Attenzione agli stage negli asili nido, spesso sono un paravento per lo sfruttamento

Scuole di giornalismo troppo costose, ma i veri problemi della professione sono altri

Le scuole di giornalismo sono il problema della professione giornalistica? Certo che no: chi lo pensa è ingenuo, o non conosce a fondo il mercato editoriale italiano, o è in malafede e per qualche ragione ha interesse a sparare su queste strutture.La verità è che non sono le scuole – coi loro 200-300 nuovi praticanti all'anno – che alimentano l'inflazione, immettendo sul mercato un numero di cronisti superiore al necessario. Il problema vero sono in primis le retribuzioni da fame dei precari e dei freelance – con buona pace del ministro Fornero che recentemente in Commissione lavoro al Senato ha dichiarato di «non vedere la ragione» di una legge sull'equo compenso giornalistico. E in secondo luogo l'impervia via di accesso alla professione: perché all'iscrizione all'albo dei pubblicisti, o all'esame per diventare professionisti, si arriva quasi sempre dopo essere stati bellamente sfruttati per anni e anni. Centinaia di persone pur di ottenere il tesserino arrivano anche a fingere di essere retribuite, scrivendo gratis - e pagandosi addirittura le ritenute di tasca propria - pur di poter presentare agli Ordini la richiesta di iscrizione all'albo pubblicisti. E poi ci sono i cosiddetti "praticanti d'ufficio", che rappresentano (stappate bene le orecchie, voi che accusate gli allievi delle scuole di inflazionare il mercato) ogni anno oltre il 50% del totale dei nuovi professionisti. È questo che crea il cortocircuito nella professione, unitamente a un mercato in caduta libera: sempre meno giornali venduti, sempre meno spettatori, sempre più scarsi introiti pubblicitari: ergo sempre meno soldi in cassa, editori sempre meno inclini ad assumere e a pagare.Le scuole di giornalismo hanno, in effetti, il problema che costano un occhio della testa. Però non sono la malattia: sono semmai il sintomo della malattia che ha colpito il sistema dei giornali, delle radio, delle tv e sopratutto oggi del web, e che anno dopo anno si aggrava. Esse si propongono di fornire ai giovani aspiranti giornalisti un percorso formativo completo, che li metta in grado di produrre informazione di qualità nel rispetto delle leggi e seguendo la deontologia. L'accesso viene regolato attraverso selezioni e prove scritte e orali per garantire che - a differenza di ciò che accade nel "libero mercato" - possano avere la chance di diventare giornalisti anche coloro che, pur meritevoli, non hanno amici o parenti in qualche redazione e non possono quindi contare su segnalazioni o raccomandazioni. Il problema delle scuole scoppia però una volta espletata questa procedura (sperabilmente) meritocratica di accesso: perchè i vincitori della selezione possono iniziare il loro praticantato solo a condizione di pagare una retta. E questa retta, come dimostra l'inchiesta di Marianna Lepore pubblicata nei giorni scorsi sulla Repubblica degli Stagisti, varia dai "soli" 4mila euro all'anno di Bari ai 10mila euro all'anno di alcune scuole romane. Soldi che ovviamente nella maggior parte dei casi sono le famiglie a dover tirar fuori, aggiungendo poi anche una quota in più per vitto e alloggio in caso l'aspirante cronista debba trasferirsi in un'altra città. Un canale di accesso che dunque si configura come "classista", perchè riservato pressoché solo a chi proviene da famiglie abbienti: il sistema potrebbe essere controbilanciato da una forte quota di posti coperti da borse di studio ma in realtà quelle esistenti sono pochissime. Dagli ultimi dati risulta che solo un allievo su cinque riesce a beneficiarne (una settantina su poco meno di trecento), e nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di borse di studio a copertura parziale, e non totale, della retta.C'era una volta, a Milano, una scuola completamente gratuita. La prima scuola di giornalismo d'Italia, il glorioso "Ifg De Martino" [nell'immagine a fianco un particolare della copertina della pubblicazione uscita in occasione del suo 25esimo anno di attività], fondato negli anni Settanta proprio con lo scopo di garantire ai meritevoli di poter diventare professionisti pur senza avere "santi in paradiso". L'Ifg era gratis per i partecipanti, e lo è rimasto fino al 2007. Ora è accorpato al master della Statale, e costa circa 7mila euro all'anno. Chi scrive ha frequentato l'ultimo dei bienni gratuiti, il 15esimo, e sempre difenderà la preparazione dignitosa fornita dalle buone scuole, che non ha proprio nulla da invidiare a quella conquistata - con una dicitura ormai retorica - da chi, assunto o semiassunto in qualche redazione, ha avuto e ha la chance di farsi le ossa sul campo, consumandosi la scuola delle scarpe. Anche perché gran parte degli allievi delle scuole ha avuto ed ha alle spalle mesi o anni di campo, e ricorre alla scuola solamente perchè dopo tanti sforzi si rende conto che è l'unica via per arrivare all'albo.E poi comunque sul campo ci vanno anche i praticanti delle scuole: innanzitutto con le testate interne, per le quali lavorano in classe durante i mesi di formazione, e poi attraverso i periodi di stage in redazione "vere". Stage che rappresentano il secondo dei grandi problemi del meccanismo di funzionamento delle scuole: devono essere per forza svolti perchè questo tipo di praticantato sia considerato valido, ma si rivelano sopratutto un gran vantaggio per gli editori. Che di colpo possono disporre di decine e decine di giovani praticanti, affamati di esperienza e di contatti, già formati alla professione grazie alle competenze apprese alla scuola di giornalismo. Praticanti che non hanno però, a differenza di quelli contrattualizzati, nessun diritto: tantomeno alla retribuzione. Praticanti che possono essere inquadrati come stagisti, nel quadro delle leggi vigenti in materia, e quindi utilizzati senza nessun obbligo di erogare una indennità.Questa situazione ha contribuito a creare un pregiudizio verso gli allievi delle scuole, visti non solo come quelli che «si comprano il praticantato» ma anche come disponibili a lavorare gratis, e dunque concorrenti sleali di precari e freelance. Quel che spesso si dimentica è che dopo il biennio di praticantato, l'esame di Stato, l'iscrizione nell'albo dei professionisti, i ragazzi delle scuole si trovano nelle stesse identiche condizioni di tutti gli altri giornalisti precari, professionisti o pubblicisti. Una situazione insostenibile, fatta di 544 euro al mese di retribuzione media per i giornalisti freelance under 40 (il dato è quello ufficiale dell'Inpgi gestione separata), di testate che pagano pochi euro ad articolo e spesso facendo aspettare mesi (e qui ci sono le belle inchieste del collettivo Errori di stampa e di altri coordinamenti regionali). Il dramma del precariato giornalistico agisce dunque come una livella: lungi dall'essere privilegiati, gli ex allievi delle scuole si ritrovano anzi per certi versi ancor più cornuti e mazziati degli altri – perchè dopo aver fatto investire alle proprie famiglie migliaia e migliaia di euro per una formazione specifica non trovano sul mercato acquirenti disposti a pagare il giusto per queste competenze. Il gioco delle testate, purtroppo anche le più grandi, è infatti ormai quasi sempre quello del massimo ribasso: far lavorare non chi sa farlo con più professionalità, bensì chi è disposto a farlo per il meno possibile. Innescare guerre tra poveri è dunque controproducente, e molto miope. L'obiettivo comune di Ordine, sindacato e collettivi di precari dell'informazione dovrebbe essere quello di riportare le testate giornalistiche a fare contratti di praticantato. Quei famosi "articoli 35" che ad oggi sono praticamente estinti. E a fare una lotta senza quartiere agli editori sfruttatori, vigilando in maniera capillare (cdr, svegliatevi una buona volta: non siete stati eletti solo per perdere tempo alle riunioni sindacali in orario d'ufficio o ai convegni) e sopratutto a sanzionare in maniera esemplare chi non paga. Secondo il semplice principio che il giornalismo è una professione come un'altra e deve permettere a chi la svolge di pagarsi affitto e bollette: e pertanto un giornalista non pagato, semplicemente, non può essere un giornalista.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Le scuole di giornalismo sono ormai solo per i figli dei ricchi?- Giornalismo, le scuole muovono quasi 2 milioni di euro all'anno: tutti i numeri- Giornalisti praticanti, intervista a Roberto Natale della Fnsi: «L'accesso alla professione va riformato al più presto»E anche:- Equo compenso per i giornalisti, sfuma l'approvazione della legge ma i freelance non demordono- Giornalismo, al Festival i problemi della professione- Giornalisti a tutti i costi, il business dei mille corsi- Enzo Carra: «Dal 2013 equo compenso per i giornalisti freelance»- Giornalisti precari, il problema non è il posto fisso ma le retribuzioni sotto la soglia della dignità

Mae-Crui, il ministero degli Esteri avrebbe già i fondi per l'indennità agli stagisti: ecco dove

Il caso dei tirocini Mae-Crui non è risolto. Certo, è vero, i 555 studenti e neolaureati selezionati attraverso il secondo bando 2012 partiranno regolarmente: la sospensione è stata ritirata, con l'assicurazione da parte del ministero del Lavoro a quello degli Esteri che se nei prossimi mesi verrà introdotto l'obbligo di erogare una "congrua indennità" agli stagisti, quest'obbligo non verrà applicato retroattivamente - e dunque il Mae non sarà costretto a spese impreviste.Ma il problema rimane. Innanzitutto perchè il Mae-Crui avrà altri bandi, a cominciare dal terzo bando 2012 che dovrebbe uscire a settembre e aprire circa 600 posizioni per stage che si svolgeranno tra il gennaio e l'aprile del 2013. Dunque bisogna attrezzarsi ora, con anticipo, per evitare di ritrovarsi nella stessa situazione appena vissuta. Poi perchè per i prossimi bandi, in effetti, la nuova normativa sugli stage e sulla congrua indennità potrebbe (dovrebbe) essere finalmente operativa. E infine perchè, legge o non legge, è ora che il ministero degli Esteri affronti il problema: è indegno che ogni anno, da ormai un decennio, ospiti attraverso il Mae-Crui quasi 2mila tirocinanti all'anno – su un organico di ruolo che secondo un documento del 2005 era pari a 5.166 dipendenti a tempo indeterminato, più 772 unità di personale di altre amministrazioni e 2.716 risorse esterne, per un totale di 8.654 addetti, di cui 5.360 all'estero – senza prevedere per loro uno straccio di rimborso spese. Mandandoli in giro per il mondo (in uno degli oltre trecento uffici all’estero tra le 126 ambasciate, i 97 consolati, gli 89 istituti di cultura, le 9 rappresentanze permanenti presso gli organismi internazionali) completamente a carico delle famiglie. Che come al solito si ritrovano a dover sostenere il peso dei costi di trasporto, vitto, alloggio, talvolta addirittura assicurazione sanitaria. Quindi è ormai non più rinviabile affrontare il problema e trovare una soluzione. E naturalmente, in tempi di spending review, é doveroso farlo trovando le risorse già all'interno dei bilanci, senza cioè aumenti di spesa: vale a dire senza generare «nuovi o maggiori oneri per lo Stato». La Repubblica degli Stagisti già due anni fa aveva calcolato che per garantire 500 euro al mese a tutti i giovani Mae-Crui in forza presso la Farnesina e altre località europee, e 1000 euro al mese agli stagisti inviati verso destinazioni extraeuropee, servirebbe un fondo tra i 3 milioni e 500mila e i 4 milioni di euro. Non molto se si pensa che il Mae dispone annualmente di un bilancio di circa 2 miliardi di euro, tra bilancio effettivo e Aps, l'aiuto pubblico allo sviluppo.La Repubblica degli Stagisti ha dunque reperito e studiato alcuni documenti inerenti il bilancio del Mae. Scoprendo che uno in particolare, intitolato Nota integrativa alla legge di bilancio per l’anno 2012 e per il triennio 2012 – 2014 del Ministero degli Affari Esteri, esplicita il «Piano degli obiettivi per missione e programma». Proprio sulla base di questo documento è oggi in grado di suggerire al ministero, al governo e al Parlamento un modo per reperire immediatamente e senza spese aggiuntive i 4 milioni di euro necessari per i rimborsi.Nell'obiettivo 27 («Programmazione e coerenza della gestione delle risorse umane e finanziarie ed innovazione organizzativa») c'è una descrizione che accanto ad impegni generici (come per esempio la «programmazione e coerenza della gestione delle risorse umane e finanziarie») e altri che non riguardano i giovani («liquidazione del trattamento economico spettante al personale e rimborsi per viaggi e trasporti» oppure «contenzioso del personale e procedimenti disciplinari») contiene anche una voce molto interessante: la «preparazione degli aspiranti alla carriera diplomatica». Per questo obiettivo sono previsti sanziamenti in c/competenza per la realizzazione dell'obiettivo pari a 35 milioni e mezzo di euro per il 2012 e il 2013 e 36 milioni e mezzo per il 2014. E cosa sono i tirocinanti Mae-Crui se non potenziali "aspiranti"? Parte di quei 35 milioni di euro dunque potrebbero essere destinati alla loro indennità.C'è anche un'alternativa. L'obiettivo 38 infatti («Promozione del Sistema Paese»), ancor più corposo negli stanziamenti (177 milioni e spicci per il 2012, 174 milioni per il 2013 e quasi 173 milioni per il 2014), accanto anche qui ad azioni che c'entrano poco con i giovani (dal «curare la diffusione della lingua, cultura, scienza, tecnologia e creatività italiane all'estero» al «coordinarsi con gli enti di diritto italiano con compiti in materia di credito ed investimenti all'estero») al punto F recita: «curare le attività relative a borse di studio e scambi giovanili». Dato che molto spesso l'indennità per gli stagisti/tirocinanti viene inquadrata proprio come "borsa di studio", anche qui non sarebbe difficile estrapolare i 4 milioni necessari a garantire a tutti i Maecruini un rimborso dignitoso.Che fare dunque con queste informazioni? Agire. L'azione più forte sarebbe quella di formulare un emendamento alla legge di assestamento di bilancio. Questa legge si occupa di "aggiustare" il bilancio alla metà di ogni anno, ed è in preparazione proprio in questi giorni. Per fare un emendamento di questo tipo, però, necessiterebbe una cooperazione sincera e immediata del ministero degli Esteri, che dovrebbe con tempestività rendere noto a quali capitoli di spesa del bilancio, e precisamente a quali voci di spesa all'interno dei capitoli, afferiscono le risorse citate dal documento Nota integrativa e in particolare indicate per gli obiettivi 27 e 38. Informazioni essenziali sarebbero poi la rimodulabolità o non rimodulabilità delle voci, e sopratutto il dettaglio se le risorse di queste voci e di questi capitoli siano già totalmente impegnate o se siano (in parte o del tutto) non impegnate. Senza queste informazioni riuscire a formulare un emendamento sarebbe praticamente impossibile: ecco perché questa strada è percorribile solo con un sostegno diretto e leale del Mae.Un'altra via, meno immediatamente incisiva ma più politica e ugualmente importante, è poi quella di impegnare il governo ad agire in questo senso non attraverso l'obbligo della legge di assestamento di bilancio, ma con azioni future. Questa via può essere percorsa attraverso la presentazione in Parlamento di un ordine del giorno o di una risoluzione da parte di uno o più parlamentari (più fossero, meglio sarebbe), che se approvato impegnerebbe il governo ad agire nel senso indicato.Questo quindi è l'appello della Repubblica degli Stagisti a tutti i politici, i tecnici, i funzionari che hanno a cuore le condizioni di vita e di lavoro dei giovani: agite secondo le vostre prerogative, fate tutto quello che è in vostro potere per aiutare il ministero degli Esteri – spontaneamente o spintaneamente – a reperire i fondi necessari per il rimborso dei "maecruini". In generale, non dimenticate mai che c'è sicuramente spazio e modo nel bilancio del Mae, come in quello di molte altre pubbliche amministrazioni, di reperire i fondi necessari a prevedere finalmente una dignitosa indennità per i tirocinanti senza bisogno di sacrifici insormontabili. La questione del compenso potrebbe sembrare poco importante rispetto all'aspetto formativo di queste esperienze: ma è importante considerare che in questo momento di profonda crisi del consumo "retribuire" – anche in modo modesto – i 150-200mila stagisti che fanno ogni anno tirocini negli enti pubblici italiani, attingendo a fondi già disponibili dentro i bilanci (basta saperli trovare!), sarebbe un modo per iniettare nel circuito economico qualche risorsa, rallentare l'erosione dei risparmi delle famiglie, e iniziare - finalmente - a ripartire. A tutti i lettori, specialmente agli stagisti ed ex stagisti Mae-Crui, la Repubblica degli Stagisti infine tiene a ricordare che ciascun cittadino ha un potere di parola e di pressione, e chiede di sostenere questo appello scrivendo ai propri politici di riferimento per incentivarli ad occuparsi di questo importante tema.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Ministero degli Esteri, 555 stage Mae-Crui bloccati e non si capisce il perché- Mae-Crui sospesi: una pressione per essere esonerati dal (futuro) obbligo di compenso agli stagisti?E anche:- Mae-Crui, la vergogna degli stage gratuiti presso il ministero degli Esteri: ministro Frattini, davvero non riesce a trovare 3 milioni e mezzo di euro per i rimborsi spese?- Ministero degli Esteri, ancora niente rimborso per i tirocini malgrado i buoni propositi della riforma- Stage, il ddl Fornero punta a introdurre rimborso spese obbligatorio e sanzioni per chi sfrutta- Quanti sono gli stagisti negli enti pubblici? 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