Categoria: Approfondimenti

Servizio volontario europeo: centinaia di opportunità tra volontariato e formazione

Nel 2007 il programma europeo Gioventù in Azione, istituito da Commissione europea, Parlamento europeo e dagli Stati membri dell'Unione, ha istituito un'opportunità di volontariato a costo zero per giovani tra i 18 e i 30 anni. La mission dello SVE (Servizio Volontario Europeo) è promuovere la cittadinanza attiva dei giovani dell'Unione Europea, offrendo loro l'opportunità di svolgere un'attività non lucrativa a beneficio della collettività: in concreto, si tratta di un'esperienza che permette ai ragazzi di conoscere una differente realtà culturale e perfezionare le loro competenze linguistiche. Sono circa 1.400 i volontari italiani che, dal 2007 al 2010, hanno fatto questa esperienza, con una media di 350 partecipanti all'anno.Ma quali sono le caratteristiche dello SVE e come vi si può accedere? Si tratta di un progetto di volontariato destinato a giovani di età compresa tra i 18 e i 30 anni, che possono trascorrere un periodo dai due ai dodici mesi (variabile a seconda del progetto scelto) in un Paese europeo o in anche extraeuropeo (tra quelli partner dell'iniziativa).Enti e associazioni di questi Paesi presentano un progetto le cui caratteristiche ricordano da vicino quelle dei progetti di Servizio Civile Nazionale: si tratta di progetti legati ad attività con i bambini, con categorie svantaggiate (anziani, disabili, ecc), oppure progetti di promozione culturale o tutela dell'ambiente. Ogni progetto ha una durata variabile, prevede un numero variabile di volontari e può essere o meno rinnovato a discrezione dell'ente stesso e dei fondi a disposizione: una volta approvato dal programma Gioventù in Azione, il progetto viene inserito in un database consultabile liberamente dagli aspiranti volontari, allo scopo di invididuare quello più vicino alle loro attitudini e interessi.Anche se è ufficialmente considerato attività volontaria non remunerata, di fatto prevede alcune agevolazioni economiche: in primo luogo la partecipazione allo SVE è completamente a carico dell'ente ospitante, ossia il volontario è spesato di tutti i costi del viaggio di andata e ritorno, dell'alloggio, della copertura sanitaria, deltrasporto locale e della formazione linguistica e specifica per le attività previste nel progetto. Il volontario percepisce inoltre un pocket money mensile, variabile in base al costo della vita del Paese di destinazione e alle spese vive previste dal progetto: l'importo varia dai 60 € mensili della Romania ai 140 € mensili della Danimarca. L'elenco dettagliato del rimborso Paese per Paese è consultabile nella "Guida al programma Gioventù in Azione" sul sito di Agenzia Giovani (pag. 68-71). Si tratta dunque di un'attività di volontariato che - pur non facendo ricevere uno stipendio vero e proprio - consente ai giovani di vivere questa esperienza formativa e di lavoro totalmente (o quasi) a costo zero.Attenzione, però. Anche se l'omonimia può generare confusione, lo SVE è un percorso molto diverso da quello del Servizio Civile Nazionale. Le principali differenze sono due: la prima è che il Servizio Civile Nazionale è regolato da un bando che viene pubblicato in genere una volta l'anno, con un numero ben preciso di progetti e di posti disponibili. Nel caso dello SVE non esiste un bando né un numero fisso di progetti né di posti a disposizione, ma i progetti e il relativo numero di volontari variano a seconda del periodo, degli enti ospitanti e delle attività specifiche. La seconda differenza è che per accadere al Servizio Civile Nazionale è obbligatorio fare domanda per un solo progetto, pena l'esclusione da tutti i progetti; a seguire c'è una selezione e viene stilata una graduatoria dei candidati selezionati. Viceversa, chi vuole partecipare allo SVE può fare domanda a un numero potenzialmente illimitato di associazioni: le organizzazioni che fanno da intermediarie fra enti e volontari consigliano ai ragazzi di fare un numero non inferiore ai 60-70 domande, per aumentare così le probabilità di essere ricontattati. Nello SVE non ci sono selezioni né graduatorie, la dinamica che lo regola è di fatto molto simile a quella di una normale ricerca di lavoro: si contattano più enti possibili nella speranza di essere richiamati.Per partecipare allo SVE è necessario prendere contatti con l'ente di invio della propria città, che di norma è l'ente che si occupa a livello cittadino e/o regionale delle attività di volontariato: l'elenco completo delle organizzazioni di invio è consultabile sul Database europeo degli enti SVE accreditati, inserendo i dati nei campi "Country", "Town" e "Type of accreditation" (in quest'ultimo punto selezionare "Sending organisation").Qualche esempio: a Roma se ne occupa l'associazione Oikos, a Torino Informagiovani, a Milano  Ciessevi (vedi foto). Si è aiutati nella scelta del progetto e nel contatto con il potenziale ente ospitante, e si è supportati in tutte le pratiche burocratiche in vista della partenza. È possibile consultare il database delle associazioni sulla pagina dedicata nel sito dell'Unione Europea: analogamente al Servizio Civile Nazionale, si può ricercare il progetto di proprio interesse per Paese o per attività, valutando ciò che è più affine alle proprie attitudini e capacità.Quando si può fare domanda? Nell'arco dell'anno sono previste cinque scadenze per la presentazione dei progetti da parte delle associazioni, ciascuna delle quali in vista di un diverso periodo di partenza: 1 febbraio (per partenze dal 1 maggio al 30 settembre), 1 maggio (dal 1 settembre al 31 gennaio), 1 ottobre (dal 1 dicembre al 30 aprile).Marta TraversoPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Servizio civile, si parte: 19mila giovani tirano un sospiro di sollievo per il rientrato allarme scatenato dalla sentenza "antidiscriminazione"- «Aprire l'accesso al servizio civile agli stranieri? Attenzione, può portare cortocircuiti». Parla Claudio Di Blasi dell'associazione Mosaico- Aspiranti eurostagisti, ecco le migliori opportunità di tirocinio nelle istituzioni Ue di qui alla primavera

Più spazio in politica alle istanze delle nuove generazioni: ma come?

Quanto peso politico hanno le nuove generazioni nel nostro Paese? Se n'è discusso nei giorni scorsi all’università Cattolica di Milano nell'ambito del convegno dal titolo: «Come dar peso al futuro. Far contare di più il voto dei giovani?». A margine delle relazioni introduttive presentate da Alessandro Rosina e Paolo Balduzzi, professori rispettivamente di demografia e scienze delle finanze, si è tenuta una tavola rotonda moderata dal direttore della Repubblica degli Stagisti Eleonora Voltolina in cui sono state discusse e messe a confronto le proposte di Tito Boeri, Luigi Campiglio, Massimo Bordignon e Beppe Severgnini. Secondo l’analisi di Alessandro Rosina e Paolo Balduzzi [nella foto accanto], ideatori del concetto di degiovanimento e promotori dell'omonimo sito, in Italia è in corso una forte contrazione demografica della fascia di popolazione che ha tra i 16 e i 30 anni - oggi circa 9,7 milioni di persone - contro un progressivo aumento della popolazione rientrante nella fascia di età tra i 60-74 anni, che attualmente sono circa 10 milioni. Solo dieci anni fa i giovani erano 13 milioni, mentre gli anziani circa 8 milioni. Ciò significa che alle porte della cosiddetta «Terza Repubblica» gli elettori più maturi hanno un peso 1,3 volte superiore a quello dei giovani. La classe dirigente italiana, composta prevalentemente da over 60, si è dimostrata sinora poco attenta alle istanze delle nuove generazioni. Rispetto ai loro coetanei nel resto del mondo occidentale, i Millennials italiani sono i meno rilevanti sul piano politico ed elettorale. L’inevitabile deriva gerontocratica del sistema politico italiano sembra sostenuta anche dai vincoli anagrafici per l’elettorato passivo e attivo. Per essere eletti in Parlamento infatti sono stabiliti dei requisiti minimi di età pari a 25 anni per la Camera e 40 anni per il Senato, vincoli tra i più alti al mondo [vedi tabella sotto].Il progressivo invecchiamento della popolazione riguarda anche gli altri paesi europei, rendendo urgente la necessità di garantire spazio alle richieste delle nuove generazioni nelle agende politiche. Un esempio tra tutti è costituito dall’Austria, dove l’elettorato attivo è stato abbassato a 16 anni. Favorevole ad una soluzione di questo tipo è Tito Boeri, docente di economia del lavoro all'università Bocconi, che ha ricordato l’importanza di una riduzione in Italia anche delle soglie d’età per l’elettorato passivo in vista di una riforma in chiave federale del Senato. Un’altra possibilità per dare maggiore spazio ai giovani in politica è la ponderazione del voto alle aspettative di vita residua: più speranza di vita si ha davanti, più il voto conta. Così, ha spiegato Rosina, si assegnerebbe maggiore responsabilità a chi vivrà nel futuro le conseguenze delle scelte di oggi.In questa direzione viaggia la proposta di Luigi Campiglio, professore di Politica economica presso l’università Cattolica, che ricorda la totale mancanza di rappresentanza politica dei minorenni. Possibile soluzione a questo vuoto di democrazia, secondo una tesi sostenuta ugualmente dal giornalista Beppe Severgnini, è la facoltà per i genitori degli under 18 di esprimere, oltre al proprio voto, anche un voto aggiuntivo per ciascun figlio minorenne. Quale che sia la strategia capace di incentivare un maggior coinvolgimento dei giovani nella vita politica, essa dovrebbe essere supportata da una riforma della legge elettorale, fondamentale dopo il fallimento in termini di rappresentatività di quella ora in vigore. Immaginare nuove soluzioni e proposte non solo permetterebbe ai più giovani di partecipare attivamente alle scelte della collettività ma servirebbe anche ad accrescere la fiducia nelle istituzioni e nello Stato.  E Anna Granata, psicologa e autrice del libro «Sono qui da una vita» (pubblicato dalla casa editrice Carocci nel 2011), nel suo intervento ha sottolineato che queste riflessioni assumono particolare rilevanza se associate ad una categoria di giovani la cui voce fatica ancora di più a trovare spazi di espressione: le seconde generazioni. Coloro che non sono nati in Italia, ma di fatto ci vivono da una vita,  o che sono nati qui ma da genitori immigrati, sono ormai quasi 1 milione di ragazzi: circa il 5,3% della popolazione è senza accesso al diritto di voto a causa del complesso meccanismo per l’ottenimento della cittadinanza. Tuttavia c’è un elemento che li accomuna ai coetanei che il passaporto italiano ce l'hanno dalla nascita: essere percepiti, in Italia, come «giovani all’infinito», troppo spesso considerati ancora alle «prime armi» ed eternamente «figli» alle soglie dei 40 anni. Questa percezione contribuisce ad allontanare i giovani dalla partecipazione politica creando un sentimento di deresponsabilizzazione nei propri confronti e verso quelli dello Stato. «I giovani non sono una categoria a parte» ha ricordato Alessandro Rimassa, coautore del libro Generazione 1000 Euro e direttore del centro ricerche dello Ied: «I loro problemi sono quelli di tutto il Paese. E a chi dà loro pacche sulle spalle, dicendo che hanno ancora tempo e che devono aspettare il loro turno, dovrebbero spezzare i polsi».Per uscire dalla crisi bisogna quindi ripensare il futuro, coinvolgendo maggiormente i giovani nelle scelte politiche, senza mai dimenticare l’importante ruolo che svolge il lavoro per la conquista di dignità e indipendenza - elementi fondamentali nell'ottica dell'impegno e della partecipazione politica.La domanda che ha ispirato il convegno è aperta a tutti con l’invito a partecipare al sondaggio: si può votare attraverso una pagina Facebook oppure iscrivendosi alla Newsletter della Repubblica degli Stagisti. La parola passa a voi lettori, partecipate e dite la vostra su come conferire più peso alle istanze politiche che provengono dai giovani.Le opzioni:1. Abbassare il voto ai 16 anni, come si fa in Austria (almeno alle amministrative)2. Estendere il diritto al voto anche ai figli degli immigrati (a quelli che non hanno ancora la cittadinanza dopo i 18 anni)3. Agevolare maggiormente la possibilità di voto di chi vive per studio o lavoro all'estero4. Rimuovere i vincoli di 25 e 40 anni per accedere a Camera e Senato5. Dare ai genitori la possibilità di votare anche per i figli minorenni6. Togliere l'elettorato passivo agli over 607. Ponderare il voto in base all'aspettativa di vita residua (più futuro davanti si ha e più il voto conta)8. Tutte queste cose assieme, serve un cambiamento radicale9. Nulla di questo: è giusto che i giovani italiani contino poco, sono troppo immaturiLorenza MargheritaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche :- Come far contare di più i giovani in politica?- «Non è un paese per giovani», fotografia di una generazione (e appello all'audacia) - Dar voce ai giovani, dar voce alle donne: l'impegno della Repubblica degli StagistiE anche:- Caro Celli, altro che migrare all'estero: è ora che i giovani facciano invasione di campo e mandino a casa i gradi vecchi- Trentenni italiani, la sottile linea rossa tra umili e umiliati nel libro «Giovani e belli»- La lezione di Rita Levi Montalcini: i giovani devono credere in se stessi nonostante tutto e tutti

Centri per l’impiego, la riforma del lavoro riuscirà a rilanciarli? Per ora servono solo al 3% dei disoccupati

Tra i punti chiave messi sotto i riflettori nel disegno di legge Fornero, dall'articolo 59 al 65, è esposto un lungimirante anche se ancora poco definito tentativo di riforma delle politiche attive: le azioni volte all’implementazione del cosiddetto workfare, esatto contrario delle politiche assistenzialiste del welfare, hanno lo scopo di proporre interventi in grado di favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. L’intento è di riportare in primo piano l’attività degli organismi pubblici preposti alla gestione dell’occupazione. Sulla base del decentramento normativo a favore delle Regioni e delle Province intrapreso con il decreto legislativo 469/1997 (la cosiddetta riforma Bassanini), la successiva riforma del mercato del lavoro (il decreto legislativo 276/2003, attuazione della legge Biagi) ha stabilito che l’avviamento al lavoro non è più monopolio dello Stato, aprendo le porte all’intermediazione privata ed istituendo, al posto degli uffici di collocamento, i centri per l’impiego (cpi). Le funzioni riconosciute a entrambi gli organismi si articolano sull’offerta di servizi d’intermediazione, formazione e orientamento. In particolare i 539 cpi presenti sul territorio nazionale si occupano di aggiornare l’archivio anagrafico degli iscritti in cerca di lavoro, certificano lo stato di disoccupazione e promuovono l’incontro tra domanda e offerta di lavoro - anche a livello europeo con il servizio Eures - coinvolgendo circa 10mila impiegati che indirizzano i loro servizi a un milione e mezzo di persone. Inoltre, a far da ponte tra i due sistemi di collocamento, pubblico e privato, dall’ottobre 2007 è stato creato il nuovo portale Cliclavoro in cui sono confluiti i dati contenuti negli archivi della Borsa nazionale del lavoro.I cpi però non sono riusciti a diventare un vero punto di riferimento: secondo gli ultimi dati Isfol-Plus, nel 2010 circa il 3% di chi cercava lavoro lo ha trovato rivolgendosi a queste strutture, mentre oltre il 30% ha utilizzato con successo il canale informale costituito da parenti e amici. Ciò significa che appena tre disoccupati su cento sono riusciti a ricollocarsi grazie ai servizi per l’impiego. Questi dati hanno reso urgente un ripensamento delle strutture pubbliche per il collocamento, direzione percorsa dal ddl Fornero, che ha alimentato un acceso dibattito. Chi propende per una riforma dei cpi in chiave anglosassone, con un maggior affidamento all’intermediazione gestita da attori privati, non sembra considerare l’incidenza, sull’insuccesso italiano, della scarsità di risorse impiegate: nel periodo a cavallo tra il 2006 e il 2010, il nostro paese ha incrementato gli investimenti in progetti di politiche attive, passando dall’1,3% (vedi tabella accanto) del Pil all’1,85% (dato Isfol-Plus 2010) ma questo sforzo non è stato sufficiente.  In media sono stati spesi poco più di 5,2 miliardi di euro, importo modesto se confrontato con i 19,3 miliardi di euro investiti per i sussidi passivi di sostegno al reddito. Anche il rapporto tra il numero di addetti ai lavori e bacino d’utenza dei servizi erogati dai cpi si attesta ben sotto la media europea. In Italia sono impiegate meno di 10mila risorse, mentre in Paesi popolosi quanto il nostro, come Francia e Germania, si contano rispettivamente il triplo e il sestuplo di addetti ai lavori. Nei cpi del nostro Paese ci sono addirittura meno dipendenti di quelli attivi in Svezia, la cui popolazione è di circa 9 milioni di abitanti contro i nostri 60. Ma quali prospettive si aprirebbero con la riforma? Il disegno di legge vuole conferire nuova vitalità ai cpi, raffinando le occasioni di incontro tra chi offre o cerca lavoro. L’articolo 59, al comma 1, introduce nuovi standard nazionali per gli obblighi di erogazione dei servizi da parte dei centri e, contemporaneamente, prescrive una maggiore attenzione sia al contesto produttivo territoriale sia alle competenze professionali del disoccupato.Inoltre, sull’esempio di Danimarca, Svezia e Germania, all’articolo 60 è presentato un programma di monitoraggio e valutazione delle attività dei cpi anche ai fini dell’accesso ai finanziamenti del Fondo sociale europeo. In pratica è prevista la costituzione di una banca dati predisposta dall’Inps (nuovo soggetto autorizzato all’intermediazione) dove i cpi inseriranno quotidianamente dei report sulla proprie attività nei confronti dei beneficiari di ammortizzatori sociali, per creare una piena convergenza tra politiche attive e passive.Infine il ddl tocca uno dei punti fondamentali per la riuscita dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro: il reinserimento attraverso una valida riqualificazione professionale. Come già previsto dalla L. 247/2007 è nuovamente delegato all’esecutivo – con termine di sei mesi dall’entrata in vigore della riforma - il compito di adottare il riordino della normativa riguardante la fruizione dei servizi, inclusi quelli di formazione, offerti dai centri per l’impiego.I cpi possono giocare un ruolo fondamentale nel favorire i meccanismi di flessibilità in entrata e in uscita che l’impianto del ddl ha strutturato. La sfida da raccogliere attraversa la coerenza globale dei contenuti di tutta la riforma, alla luce del futuro post-crisi che aprirà le porte ad un mercato del lavoro sempre più globalizzato.Lorenza MargheritaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Stage attivati dai centri per l'impiego: ecco la radiografia annuale dell'Isfol- Centro per l'impiego di Frosinone: il posto «magico» dove uno stagista su due trova lavoro- A Ichino piacciono i Jobrumors: «I siti che riportano le occasioni di lavoro sono preziosi per il mercato e lo rendono trasparente»

Cause di lavoro, col rito speciale durata ridotta da 6 anni a uno e mezzo. Basterà?

Il disegno di legge Fornero prevede un nuovo rito speciale per le cause riguardanti i licenziamenti. L’obiettivo è fornire un canale “rapido” per risolvere le controversie sul tema. Nella versione attuale della norma la procedura sarebbe costituita da quattro gradi di giudizio scanditi da scadenze accelerate per le prime udienze, e caratterizzati da un'elevata discrezionalità del giudice nell'eliminare tutti gli elementi non essenziali alla formulazione del giudizio. Secondo le prime stime, la nuova procedura potrebbe tagliare i tempi sulle cause per licenziamento dalla media attuale di 6 anni (Cassazione inclusa) a un anno e mezzo. Ma c'è già chi si dice scettico sulle reali possibilità di funzionamento del rito speciale. E non solo perché, al termine, una sentenza favorevole ai lavoratori potrebbe portare al pagamento da parte del datore di lavoro di un'indennità compresa tra 12 e 24 mensilità nonché al reintegro nel posto di lavoro nella maggior parte dei casi. Ecco in dettaglio come funzionerebbe il procedimento. Nel caso dei licenziamenti per cause economiche (ovvero, per giustificato motivo oggettivo e quindi motivati da ragioni inerenti l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il suo regolare funzionamento) il primo passo è la conciliazione obbligatoria, in cui le parti, con il supporto degli avvocati, cercano di raggiungere un accordo preliminare alleggerendo il lavoro dei giudici e riducendo il numero delle cause. Il secondo step, o il primo per i licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, è la fase del ricorso vero e proprio al Tribunale del Lavoro, attraverso il quale il lavoratore può opporsi alla decisione dell’azienda. In questo caso il giudice sarebbe tenuto a fissare l’udienza preliminare entro 30 giorni dal deposito del ricorso.Severo il giudizio di Franco Toffoletto [foto a fianco], avvocato attivo esclusivamente nel campo del diritto del lavoro e socio dello studio legale Toffoletto De Luca Tamajo e soci: «Questo è il passaggio più importante del rito speciale che invece, nei gradi successivi, torna ad essere simile al rito normale con alcune semplificazioni. Il problema è che non è nemmeno previsto un termine per la costituzione del datore di lavoro, ma viene stabilito solo il termine massimo di 30 giorni per la fissazione dell’udienza. In questo modo il giudice può fissarla anche, ad esempio, dopo 48 ore dal deposito del ricorso rendendo praticamente impossibile la difesa del datore». Che secondo l'attuale normativa, invece, ha come minimo 20 giorni per redigere la propria difesa perchè l'udienza non può essere fissata prima di trenta giorni dalla notifica del ricorso.Secondo Toffoletto la conseguenza diretta è una disparità inammissibile di trattamento tra le parti (lavoratore e datore di lavoro) che mina i principi del contraddittorio: «È chiaro che non si dà materialmente il tempo di preparare la difesa; è difficile capire come può svolgersi una seria istruttoria in tempi così rapidi. Non si considera minimamente che le cause di licenziamento possono essere anche molto complesse. Nessun tribunale, in Italia, è in grado di gestire un rito del genere».La volontà di snellire le procedure è evidente dal modo in cui è formulato il passaggio nel ddl: il giudice, di fatto, ha un alto grado di discrezionalità nel decidere quali siano le formalità essenziali al contraddittorio (numero di testimonianze, di prove, ecc.) e può omettere tutte le altre. «Ma le formalità, in un processo, sono sostanza. Come si fa a determinare quelle non essenziali? Più che un processo civile sembra un processo incivile» decreta Toffoletto.Anche Maurizio Santori, giuslavorista e docente presso l’università Luiss di Roma, individua degli elementi anomali nell’articolo 17 del ddl: «Non è prevista per il datore di lavoro la possibilità di difendersi con un atto scritto, contrariamente a quanto accade per il lavoratore. Manca la tutela del diritto di difesa del soggetto datoriale. Per il resto c’è poco di nuovo: questo rito urgente è modellato sul procedimento di urgenza per i casi di condotta antisindacale del datore di lavoro. Già l’articolo 700 del codice di procedura civile comprime gli spazi di difesa del datore di lavoro in favore della rapidità del procedimento. Ma compressione non può significare azzeramento».La fase successiva è quella di opposizione all’accoglimento o al rigetto del ricorso, sempre presso il medesimo Tribunale del lavoro, da depositare entro 30 giorni dalla comunicazione della decisione. Il termine perché il giudice fissi l’udienza di discussione, questa volta, è di 60 giorni. Come rileva Santori, «qui si cita espressamente la difesa scritta, il che fa pensare che nel passaggio precedente del ddl sia stata esclusa non per svista, come sarebbe auspicabile, ma volontariamente».Dopodichè si passa al reclamo davanti alla Corte d’Appello («termine bizzarro, perché di solito il reclamo si fa allo stesso giudice», nota ancora Santori), ancora da depositare entro trenta giorni dalla comunicazione della decisione, con udienza di discussione entro 30 giorni, e infine si passa alla Corte di Cassazione, entro 60 giorni dalla decisione d'appello con udienza fissata entro sei mesi. In totale, quindi, il rito prevede quattro gradi di giudizio. Il ddl ad ogni modo non fissa i termini entro i quali possono essere fissate le udienze successive alla prima, il che non esclude che i tempi di ogni fase si dilatino ugualmente di diversi mesi, «se non di anni», come teme Toffoletto.Se il giudice appura che non sussistono gli estremi per il licenziamento per giusta causa, perché il fatto non esiste o il lavoratore non lo ha commesso, condanna il datore di lavoro alla reintegrazione e a pagare al lavoratore un’indennità non superiore a 12 mensilità di stipendio. Quando il giudice decide che non sussista una motivazione valida per il licenziamento, ma per altre ipotesi, dichiara terminato il rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro a pagare un'indennità compresa tra le 12 e le 24 mensilità. Per i licenziamenti di natura economica, è il giudice a decidere se disporre la reintegrazione o meno nel caso in cui le cause economiche siano manifestatamente inesistenti, altrimenti condanna a un'indennità risarcitoria. «Cosa vuol dire “manifesta” insussistenza? O le cause esistono o non esistono. Comunque è evidente che qui i sindacati hanno fatto bene il loro lavoro, e che i lavoratori sono ben tutelati», commenta Santori.Quale sarà, in concreto, l’effetto del rito abbreviato per i lavoratori? Toffoletto si dice scettico sui risultati finali del ddl nella sua forma attuale: «Francamente non so come funzionerà questo rito speciale. Probabilmente, come già accade, ogni giudice si comporterà in maniera diversa e aumenteranno l’incertezza, i costi e l’inefficienza dei processi». Santori, perplessità a parte, dà invece un giudizio complessivamente positivo: «Sicuramente si accelera molto rispetto alle procedure attuali. I tempi perché le sentenze passino in giudicato, cassazione inclusa, potrebbero ridursi da sei anni a un anno e mezzo circa. E a beneficiarne saranno sia i datori di lavoro sia i lavoratori, perché per entrambi è bene avere la certezza del diritto il più rapidamente possibile».di Andrea CuriatPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani- Riforma del lavoro, il testo apre a nuove linee guida nazionali sugli stageE anche:- Riforma Fornero, cosa non va secondo i sindacalisti esperti di precariato- Abolire gli stage post formazione: buona idea ministro, ma a queste condizioni

Ministero degli Esteri, ancora niente rimborso per i tirocini malgrado i buoni propositi della riforma

Il ministero del Lavoro punta all'abolizione dei tirocini gratuiti, quello degli Esteri no. O perlomeno non con tutta questa fretta. Mercoledì 2 maggio sono stati attivati 560 progetti promossi nell'ambito del primo bando - sui tre previsti per il 2012 - della Farnesina in collaborazione con la Fondazione Crui e 67 università. Venerdì 4 scadono invece i termini di candidatura per il secondo, che ne ha messi in programma 555. In entrambi i casi si tratta di attività gratuite: i bandi, che offrono la possibilità di tre mesi di formazione in centinaia sedi del Mae, non prevedono infatti alcun rimborso.E questa non è una novità. Ma la riforma del lavoro della quale si discute da settimane non ha in programma l'abolizione dei tirocini gratuiti? Il testo presentato alle Camere dal ministro Elsa Fornero è molto chiaro in questo senso. L'articolo 12  prevede infatti che entro sei mesi dall'entrata in vigore della riforma il governo in collaborazione con le Regioni emani un decreto legislativo stabilendo, tra le altre cose, la «previsione di non assoluta gratuità del tirocinio, attraverso il riconoscimento di una  indennità, anche in forma forfetaria, in relazione alla prestazione svolta». La questione è in discussione in questi giorni, con grandi resistenze da parte della conferenza delle Regioni. Possibile però che sia lo stesso governo a non conformarsi allo spirito di una legge che ha proposto al Parlamento?«Le riforme non si anticipano, si seguono», tagliano corto dall'ufficio stampa della Fondazione Crui, assicurando che «il prossimo bando terrà conto della normativa». E rifiutando di mettere la Repubblica degli Stagisti in contatto con i responsabili del progetto. Più fortuna con il ministero: «È chiaro che non possiamo fare altro che applicare il provvedimento. Se interverrà una modifica ci adegueremo», spiega Daniele Di Ceglie, referente del Mae-Crui per la Farnesina. Insomma: nonostante sia stato proprio il governo a proporre di abolire gli stage gratuiti, i singoli ministeri non hanno intenzione di anticipare la norma. Cosa che invece rappresenterebbe un segnale politico nei confronti di coloro che chiedono di non rendere obbligatorio il rimborso spese.Eppure per la Farnesina prevederlo non richiederebbe una spesa inaccessibile. Questo ministero ha a disposizione ogni anno un budget di oltre 2 miliardi di euro: se decidesse di garantire 500 euro per gli stage in Europa, che sono i due terzi del totale, e di mille per quelli in Paesi extraeuropei, in totale servirebbero più o meno tre milioni e mezzo di euro. Nel 2010 la Repubblica degli Stagisti aveva rivolto un appello all'allora ministro Franco Frattini, rimasto però senza risposta. Oggi, secondo De Ceglie, bisognerebbe addirittura «cambiare la legge 196 del 1997, in base alla quelle l'unico onere è quello della sottoscrizione di un'assicurazione ed è posto in carico alle università». In realtà la normativa in questione non vieta affatto di erogare un emolumento agli stagisti, semplicemente non lo prevede come obbligatorio: darlo o non darlo è una libera scelta. Nella prassi sono i soggetti ospitanti ad offrire una borsa agli stagisti: lo stesso dipartimento della Funzione pubblica ha emanato nel 2005 una direttiva proprio per ricordare che le legge 196/97 «ha previsto la possibilità di ammettere al rimborso, totale o parziale, degli oneri finanziari, ivi comprese le spese sostenute per il vitto e l’alloggio dei giovani tirocinanti» da parte delle pubbliche amministrazioni che ospitano stagisti. Più raramente è il soggetto promotore ad erogare un rimborso, svolgendo una funzione in un certo senso "suppletiva": nel caso specifico del Mae-Crui alcuni atenei, rendendosi conto che uno stage all'estero comporta grandi spese, hanno deciso di istituire una borsa. Ma si tratta di una minoranza.In definitiva, non ci sono ostacoli normativi che impediscano di prevedere un rimborso per i tirocinanti Mae-Crui. È solo una questione di volontà politica. Tanto che già in passato qualche dirigente del ministero aveva sollevato il problema, rimanendo però inascoltato. «Sul piano personale posso anche dire che non è carino, ma come funzionario io applico la legge» commenta De Ceglie. Che condanna «in maniera esecrabile i casi di sfruttamento» ed è convinto che la Farnesina si comporti bene. Ma senza rimborso i tirocini Mae-Crui non rischiano di restare riservati solo ai più ricchi? «Noi offriamo una possibilità, tocca ai ragazzi valutare le loro disponibilità economiche e darsi da fare» spiega, aggiungendo: «Non li condanniamo certo alle miniere di sale, hanno anche tempo per fare altro». In altre parole per affrontare i costi di uno stage senza rimborso - che richiede come minimo un biglietto aereo di andata e ritorno e tre mesi di affitto - i partecipanti dovrebbero anche trovarsi «dei piccoli lavoretti». Del resto «gli orari sono flessibili» e poi «gli istituti di cultura offrono la possibilità di tenere dei corsi di lingua». Affidati magari a chi ha studiato architettura e nulla è tenuto a sapere di come si insegna l'italiano.Ma come si può conoscere se la legislazione dei Paesi ospiti consenta ad uno straniero di lavorare? Dal sito dell'Istituto diplomatico è possibile scaricare una guida alla stesura del proprio curriculum e la «Bussola del tirocinante», un opuscolo che per ogni Paese che ospiti uno stage Mae-Crui offre informazioni sul viaggio, i documenti necessari e la situazione sanitaria. Questo nella convinzione che «chi non è abbiente può scegliere una sede non costosissima, purché si informi prima». Oppure rinunciare.I tirocini il cui bando è scaduto oggi saranno attivati il 3 settembre, quando con tutta probabilità la riforma sarà già legge. Quasi sicuramente mancherà ancora il decreto legislativo coi «principi fondamentali e requisiti minimi dei tirocini», ma cosa succederà ai 555 ragazzi selezionati per i progetti? Avranno diritto a un rimborso spese oppure no?Per i laureati e i laureandi che hanno deciso di investire tempo e denaro per un'esperienza internazionale queste sono domande più che legittime. Ma che, al momento, non trovano risposta. «Non è molto produttivo parlare di cose che non si possono prevedere» chiude Di Ceglie: «non sappiamo nemmeno se il testo sarà licenziato dal Parlamento in questa forma. Nel momento in cui la riforma prenderà corpo in un testo chiaro, il ministro valuterà il da farsi». C'è da augurarsi che, dopo averla votata in CdM, il titolare degli Esteri Giulio Terzi di Sant'Agata [nella foto] decida di applicare la riforma del lavoro. Magari senza aspettare il decreto che dovrà fissare i requisiti minimi dei tirocini di formazione. Per garantire, da subito, un giusto rimborso spese ai ragazzi e alle ragazze che prendono parte a questi progetti. Come peraltro già fanno tante aziende private e anche tanti enti pubblici.Riccardo SaporitiSe hai trovato interessante questo argomento, leggi anche:- Stage, il ddl Fornero punta a introdurre rimborso spese obbligatorio e sanzioni per chi sfrutta- Regioni e riforma del lavoro, è guerra al governo sull'articolo sui tirocini- Simoncini risponde: «Ecco perché noi Regioni chiediamo di eliminare l'articolo sugli stage»E anche:- Riforma del lavoro, inutile senza quella degli stage- Mae-Crui, la vergogna degli stage gratuiti presso il ministero degli Esteri: ministro Frattini, davvero non riesce a trovare 3 milioni e mezzo di euro per i rimborsi spese?- Le università «virtuose» del Mae-Crui: tutti i dettagli sui rimborsi spese e le borse di studio per i tirocini in ambasciate, consolati e istituti di cultura

Interinali, 226mila sono under 30: «Buona flessibilità e diritti» garantisce Assolavoro

Una volta si chiamavano «interinali», oggi la dicitura corretta è «lavoratori in somministrazione»: nelle pieghe della riforma Fornero ci sono significative novità anche per quanti arrivano in azienda tramite una delle agenzie per il lavoro autorizzate a fornire manodopera a soggetti sia privati sia pubblici. La peculiarità di questo contratto, normalmente a tempo determinato, consiste proprio nel fatto che il lavoratore è assunto direttamente dall'agenzia, pur svolgendo un'attività «nell'interesse nonché sotto la direzione e il controllo dell'utilizzatore» cioè dell'azienda (articolo 20 del decreto legislativo 276/2003), che a propria volta è legata al soggetto somministratore da un contratto di tipo commerciale. Nonostante alcuni limiti imposti al loro impiego, nel 2011 i lavoratori somministrati hanno raggiunto quota 515mila (+10% sull'anno precedente) e tra questi il 44% erano giovani fino a 29 anni. Che cosa potrebbe cambiare per loro con la riforma giunta ora all'esame della commissione Lavoro del Senato lo spiega alla Repubblica degli Stagisti Agostino Di Maio, direttore di Assolavoro, l'associazione nazionale che rappresenta oltre il 90% degli operatori presenti sul mercato italiano. «È importante superare il pregiudizio  diffuso in passato verso la somministrazione» premette Di Maio «che è l'unica forma di flessibilità in grado di garantire al lavoratore gli stessi diritti, le stesse tutele e la stessa retribuzione dei dipendenti dell'azienda presso cui svolge una missione». Dato che la stragrande maggioranza di questi rapporti ha però durata prefissata, anche il lavoro interinale è finito nel mirino del ddl Fornero. Che all'articolo 3 stabilisce che per il computo dei 36 mesi, oltre i quali il contratto di lavoro a termine si trasforma in tempo indeterminato, si debba tener conto anche dei periodi di lavoro eventualmente svolti in somministrazione per una stessa impresa. «Bisogna distinguere tra un contratto a termine e un contratto di somministrazione a tempo determinato» sottolinea Di Maio (nella foto). «In caso di mancato rinnovo da parte dell'azienda, il lavoratore a termine resta solo,  mentre alla fine della missione il lavoratore in somministrazione trova nell'agenzia servizi utili al suo reinserimento». Vero: ma se per tre anni un'azienda continua ad utilizzare la stessa persona mediante contratti a tempo o interinali, non è evidente che di quel lavoratore ha bisogno in maniera stabile? «Questo atteggiamento sanzionatorio può avere senso per i contratti a termine, che per l'impresa sono sicuramente più vantaggiosi. Ma non nel caso della somministrazione che ha comunque dei costi aggiuntivi per la parte datoriale». L'associazione ha dunque intrapreso una serrata battaglia su questo aspetto della riforma, che nella versione definitiva quasi certamente vedrà esclusa la somministrazione dal computo dei 36 mesi - dato che «sia il Pd che il Pdl si sono espressi favorevolmente».  Resta invece da vedere se il settore riuscirà ad ottenere anche l'esenzione dal costo aggiuntivo che a partire dal 1 gennaio 2013 si applicherà ai contratti di durata prefissata per finanziare la nuova Aspi. «L'aggravio dell'1,4% colpisce direttamente la formazione, uno dei nostri punti di forza. Per quanto riguarda la somministrazione a termine questa percentuale viene infatti ritagliata dall'aliquota del 4% che le agenzie impiegano oggi per la formazione». La questione non è di poco conto se si considera che soltanto lo scorso anno le agenzie hanno versato a Formatemp - l'ente bilaterale preposto - circa 140 milioni di euro, corrispondenti appunto al 4% del monte retributivo derivante dalle missioni dei lavoratori a termine, garantendo così una formazione a più di 185mila persone, per la metà delle quali vige peraltro un obbligo di placement successivo ai corsi. Se la norma fosse già stata in vigore, calcola l'associazione, nel 2011 non sarebbe stato possibile collocare più di 30mila interinali. Ma non tutti gli articoli del ddl vengono per nuocere al lavoro a termine: il punto B dell'articolo 3, esclude infatti il primo contratto a tempo determinato, se di durata non superiore a 6 mesi, dall'obbligo della causale, ovvero dall'indicazione  delle ragioni tecniche, produttive, organizzative o sostitutive con cui il datore è sempre tenuto a giustificare l'apposizione di un termine ad un contratto di lavoro subordinato. «Occorre fare di più» è la replica di Di Maio, che per il settore auspica ovviamente una maggiore deregolamentazione delle assunzioni a tempo. C'è da dire che dal 2010 l'obbligo della causale è già venuto meno per le persone in mobilità e più di recente, con il decreto legislativo n. 24 del 2 marzo 2012, anche per i lavoratori così detti svantaggiati e per quanti percepiscono ammortizzatori sociali da almeno sei mesi.Per quanto riguarda più da vicino i giovani, un'importante novità è costituita invece dall'apprendistato in somministrazione, un istituto nuovissimo a cui  il ddl Fornero fa esplicito riferimento nell'articolo 5. Già previsto nel relativo testo unico del settembre scorso, dal 6 aprile l'apprendistato in somministrazione è diventato operativo grazie ad un accordo firmato da Assolavoro, Cisl-Felsa e Uil-Temp, con l'esclusione della  Nidil Cgil.  D'ora in poi l'apprendista potrà dunque svolgere i tre anni formativi come "somministrato", anche per più datori di lavoro. Le singole missioni non potranno tuttavia avere durata inferiore a 12 mesi e, dopo il primo anno di contratto, in mancanza di un ingaggio l'agenzia dovrà corrispondere all'apprendista un'indennità di circa 700 euro mensili per un periodo di 10 mesi; durante i quali sarà anche chiamata a garantire la continuità formativa del lavoratore. Quale sia l'appeal di questo contratto lo spiega bene Di Maio: «Le aziende si liberano così da incombenze burocratiche e si affidano alle agenzie per la formazione». Non solo: perché in questo modo per l'impresa viene anche meno qualsiasi obbligo circa la stabilizzazione di questi lavoratori. Alla fine del percorso vige infatti un vincolo stringente di conferma per gli apprendisti somministrati, che dovranno essere assunti a tempo indeterminato in una percentuale non inferiore al 50%: ma anche in questo caso l'obbligo ricadrà per intero sulle spalle dell'agenzia. Ilaria CostantiniSu questo argomento leggi anche:  - Apprendistato: contratto a tempo indeterminato oppure no?- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani- Riforma Fornero, cosa non va secondo i sindacalisti esperti di precariato E anche:  - Apprendistato: coinvolge pochissimi laureati e spesso non garantisce vera formazione- Luci e ombre del contratto di apprendistato - una buona occasione, ma preclusa (o quasi) ai laureati

Lavorare gratis: anche il cinema sfrutta gli stagisti

«Si lavora gratis per anni. Molti anni. Finché non sei proprio... grande». Dimenticate i lustrini, i red carpet, i flash dei fotografi. Dietro le quinte del cinema la realtà è quella dello sfruttamento della manodopera. A denunciarlo è Irene Iaccio [nella foto a destra], 27 anni, napoletana trapiantata a Roma che ha lasciato il cinema dopo un anno e mezzo. Motivo? Semplice: «Lavorando gratis non si mangia». Eppure sono in tanti a farlo. Nel 2011 Enpals, la cassa pensionistica dei lavoratori dello spettacolo, contava 85mila impiegati nel cinema. Un dato che il coordinamento Cresco (che raggruppa le realtà che lavorano nella produzione e nella diffusione della scena contemporanea - quindi compagnie di produzione, sale, teatri, residenze, festival, rassegne, artisti, critici, operatori dello spettacolo dal vivo) ritiene invece maggiore: il numero reale degli addetti oscillerebbe tra 120 e 140mila. Tra questi c'era anche Irene, che ha accettato di raccontare la sua esperienza alla Repubblica degli Stagisti: «Tutte le figure professionali legate alla produzione non vengono pagate. Succede perfino agli attori, ovviamente quelli meno affermati». Ma di quante persone si tratta? «L'ultimo film al quale ho lavorato mi ha visto impegnata alla scenografie, io e altri due, poi ce n'erano tre ai costumi. Diciamo che si arriva ad essere anche una decina di persone». Tutte 'assunte' a zero euro. Difficile definire una media dei lavoratori impiegati nella realizzazione di un film, molto dipende dalle dimensioni della produzione: quelle più grosse possono arrivare ad occupare una cinquantina di persone tra assistenti alla regia, scenografi, macchinisti, costumisti, elettricisti e fotografi. E non è detto che tutti vengano retribuiti. «Se il budget è basso, non essere pagati è la regola». E se il film piace al pubblico e incassa oltre ogni aspettativa? «Tendenzialmente non c'è mai una redistribuzione dei ricavi». Così che il successo di un film, per chi ci ha lavorato gratis, diventa solo un motivo in più per masticare amaro.Il fenomeno è diffuso: «Nessuno di quelli che hanno fatto il corso con me al Centro sperimentale di cinematografia ha mai lavorato in forma retribuita. Nemmeno due lire». Il Csc è una scuola che offre corsi di formazione della durata di tre anni, al costo di 1.500 euro l'anno. «Io ho lasciato dopo un anno e mezzo, perché non dava prospettive». È stato durante questo periodo che Irene ha avuto occasione di lavorare gratis - così come continuano a fare i ragazzi iscritti come lei all'istituto. Loro mantengono il silenzio per il semplice motivo che vogliono rimanere nel mondo del cinema. Irene invece ha fondato «ilgattohanuovecode», un collettivo di produzione di audiovisivi web-oriented che si occupa di produrre contenuti di ogni genere: da quelli per la Rete alle riprese di spettacoli ed eventi dal vivo, fino ai filmini dei matrimoni. Mettersi in proprio, oltre ad uno stipendio, le ha dato anche la libertà di raccontare la sua esperienza. «La parola merito, nel cinema, non esiste. E nemmeno la carriera, al massimo puoi dire che hai conosciuto qualcuno che ti fa lavorare: è un meccanismo esplicito, non c'è nulla di nascosto». Una conferma al racconto di Irene arriva dal rapporto «Professionisti: a quali condizioni?», pubblicato da Ires nella primavera dell'anno scorso. Secondo questa ricerca il 64,9% dei lavoratori del settore della cultura e degli spettacoli, tra i quali rientrano anche quelli del cinema, afferma che le conoscenze servono molto per trovare un'occupazione; più o meno la stessa percentuale ritiene importantissimo il passaparola tra i datori di lavoro.«Di solito, almeno una persona per ogni settore della produzione viene regolarizzata. Gli altri non vengono pagati, oppure gli vengono riconosciuti i contributi Enpals per una sola giornata. È capitato anche a me, per un film per il quale ovviamente avevo lavorato per molto più tempo». Come si spiega il fatto che le case cinematografiche possano permettersi di far lavorare gratis le persone? «Non è che ci voglia tutta questa competenza: occuparsi delle scenografie spesso si riduce a spostare dei mobili in una stanza, chiunque può farlo». Anche se questo non giustifica che venga fatto gratis. Comunque, anche quando c'è, lo stipendio di chi opera nella cultura non è certo tra i più alti. Sempre secondo il rapporto Ires, nel 2009 tra i lavoratori con contratto di lavoro dipendente uno su tre ha dichiarato un reddito inferiore ai 15mila. Ancor peggio va a chi è inquadrato come autonomo: qui due su tre stanno sotto a quella soglia, e ben un quarto si ritrova a dover spesso chiedere aiuto alla famiglia.Davvero è possibile che stipendi di questa misera entità siano in grado di far saltare i bilanci delle case cinematografiche? «Ora che si utilizza la tecnologia digitale i costi si sono ulteriormente ridotti. I contributi statali potrebbero essere utilizzati per pagare chi lavora». Contributi? Sì, questa prassi è così comune che la seguono anche alcune delle realtà che ricevono sovvenzioni pubbliche. Ogni anno, infatti, attraverso il Fondo unico per lo spettacolo, il ministero dei Beni culturali sostiene la cinematografia italiana. Lo scorso anno il settore ha ricevuto 75 milioni e 800mila euro, una parte dei quali è stata destinata alla produzione. In particolare, secondo il recente rapporto «Il cinema italiano in numeri» realizzato da Anica e dal Mibac, 10 milioni e mezzo di euro hanno finanziato 21 pellicole ritenute di interesse culturale, mentre 7 milioni e mezzo hanno contribuito alla realizzazione di 40 opere prime e seconde. Per il 2012 il governo ha stanziato oltre 76 milioni di euro: ma solo le briciole arriveranno ai giovani che tentano di avviare un percorso professionale nel mondo del cinema.Da quanto le cose vanno in questo modo? «Io ho iniziato quattro anni fa a lavorare in questo settore, ma ho il sospetto che sia sempre stato così». Anche perché ci sono tante persone disposte a lavorare gratis. «Questo è un mestiere molto ambito, sono in tanti a voler fare cinema: ecco perché si accettano queste condizioni». Irene no, si è trovata un altro lavoro. Ma non ha dimenticato. E così, quando qualche settimana fa ha ricevuto una mail di una casa di produzione che cercava stagisti a costo zero per le riprese romane del film «Vi perdono» di Valeria Golino iniziate a metà aprile (il film ha anche ottenuto un contributo di 200mila euro dal ministero), ha deciso di rompere il silenzio. Pubblicando sul blog «ilgattohanuovecode» lo scambio di comunicazioni con i responsabili della produzione. A chi cercava tra gli studenti e i diplomati del Csc degli stagisti per le riprese, l'ex scenografa ha ribattuto: «Mi sembra che lei abbia piuttosto necessità di forza lavoro a titolo gratuito per far fronte ad esigenze che con tutto hanno a che fare meno che con la formazione degli allievi. Potrà smentirmi spiegando nel dettaglio quale sarebbe l'offerta formativa oppure indicando la retribuzione che avete pensato per il periodo di lavoro». La smentita non è arrivata. E così la giovane ha deciso di raccontare: «Credo che sia la strada più semplice. Il primo passo è parlarne, poi i giudizi sulla vicenda li lascio a chi legge, così che ognuno si faccia un'idea. L'importante è che non rimanga un discorso tra gli addetti ai lavori».Riccardo SaporitiSe hai trovato interessante questo articolo leggi anche:- Stage gratuiti, Caterina versus Flash Art: il botta e risposta con Giancarlo Politi. E il web si rivolta- Io, schiavo per tre anni in una piccola casa editrice- Stage gratuiti e lavoro nero, così sopravvive la microeditoriaE anche:- Emergenza stage anche in Usa, un giornalista si chiede: come sarebbe un mondo senza più stagisti?- Pasquale Carrozzo, animatore del blog dei praticanti commercialisti: «Per evitare lo sfruttamento servono più controlli»

Riforma del lavoro, ma l'associazione in partecipazione non doveva essere abolita?

Catene di intimo, profumerie, agenzie di viaggi, erboristerie, rivendite di divani, accessori, abbigliamento, centri estetici e librerie. È qui, secondo i dati raccolti dalla campagna Dissociati! della Cgil, che si concentrano oggi gran parte degli associati in partecipazione. Un miniesercito che nel 2010 ha raggiunto quota 52.500 lavoratori, di cui circa un quarto under 30, in maggioranza donne, concentrati per lo più tra Lombardia, Emilia Romagna e Toscana. Tecnicamente si tratta di lavoratori autonomi, inquadrati da un contratto che li assimila a "soci" delle imprese commerciali presso le quali svolgono in realtà mansioni di semplici dipendenti, in cambio di una (solitamente poco conveniente) partecipazione agli utili aziendali.Una flessibilità così cattiva da aver indotto il ministro Fornero ad ipotizzare una sostanziale scomparsa dell'istituto: preservato «solo in caso di associazioni tra familiari entro il 1° grado o coniugi», si leggeva nelle linee guida della riforma del lavoro approvate dal Consiglio dei ministri il 23 marzo scorso. Peccato che questo lodevole intento sia stato fortemente diluito: il disegno di legge attualmente all'esame della commissione Lavoro del Senato stabilisce infatti solo un massimo di 3 associati per ciascuna impresa, fatta eccezione per i coniugi, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado (art.10). «Ma con tre associati, più poniamo l'associante e un paio di familiari, si riesce a gestire tranquillamente un negozio con più vetrine» fa notare Roberto D'Andrea, 32 anni, della segreteria nazionale Nidil. Insieme alla Filcams, attiva nel settore del commercio, la sigla che rappresenta le nuove identità lavorative della Cgil ha avviato lo scorso novembre una campagna volta proprio a contrastare l'impiego di questi contratti, diffusi soprattutto nel commercio. «Sono già arrivate un centinaio di denunce, per lo più anonime, soprattutto da commesse e commessi impiegati in grandi catene» quantifica il sindacalista. Con la formula del franchising l'azienda "madre", proprietaria del marchio commerciale, ha in effetti il vantaggio di non essere responsabile dei contratti di lavoro stipulati dai rivenditori affiliati.   Lo scandalo dei grandi marchi era giunto però all'orecchio del ministro del Lavoro. «Gli elementi raccolti con la campagna sono serviti  a porre con chiarezza il problema al tavolo della riforma» ricorda D'Andrea. Che cosa sia accaduto dopo 23 marzo non è dato sapere, anche se non è un mistero che Rete Imprese avesse dato «un giudizio negativo su questo aspetto della riforma». Certo è che sul punto il governo ha innestato una significativa marcia indietro.Perché il contratto in questione è in molti casi un contratto capestro per il lavoratore e in assoluto uno dei più convenienti per i commercianti. Basta dare un'occhiata alle retribuzioni degli associati, che in media non arrivano 9mila euro in un anno. A livello previdenziale sulle loro spalle è inoltre caricato il 45% dei contributi da versare alla gestione separata dell'Inps, quando ad esempio il contratto a progetto prevede una ripartizione di 2/3 a carico del datore di lavoro e solo di 1/3 per il parasubordinato. A differenza delle false partite Iva - tra le quali possono esserci anche professionisti che svolgono mansioni tali da giustificare il ricorso al lavoro autonomo - gli associati sono poi impiegati per lo più in mansioni esecutive e ripetitive, tipiche cioè del lavoro dipendente. «Né il sindacato, né l'ispettorato si è mai trovato dinanzi ad un vero associato» spiega ancora il sindacalista: «in Italia esistono già infiniti modi per fare impresa e il ricorso a questo contratto è di fatto una modalità per non assumere le persone, come suggerisce tra l'altro una giurisprudenza ormai consolidata anche di Cassazione».  Ma la controindicazione principale dell'associazione in partecipazione consiste nel rischio d'impresa che scarica sul lavoratore: perché se l'azienda va male o se, grazie all'aiuto di un commercialista abile, gli utili si abbassano, l'associato può anche vedersi negare lo stipendio, o peggio essere chiamato a ripianare eventuali perdite. «A Napoli, dopo un furto nel negozio, ad una nostra iscritta è stato chiesto di contribuire a ripagare il danno. Ad un'altra iscritta di Bologna che aveva deciso di fare causa all'azienda, è stato presentato un conto di 11mila euro».L'unica novità  introdotta dalla riforma a tutela di questi lavoratori riguarda la certezza della sanzione per il datore che utilizza impropriamente il contratto «senza che vi sia stata un’effettiva partecipazione dell’associato agli utili dell’impresa o dell’affare, ovvero senza consegna del rendiconto». Se il testo non subirà ulteriori modifiche, d'ora in poi il falso associato dovrebbe essere inquadrato con un contratto a tempo indeterminato; mentre ora la parte datoriale ha la possibilità di assumerlo con tipologie contrattuali ben più convenineti, se in grado di dimostrare la natura non subordinata del rapporto di lavoro. «Puntiamo a tornare alla bozza originale del ddl» conclude D'Andrea. «Per giovedì 10 maggio è stata intanto indetta una manifestazione nazionale contro il precariato, per il quale questa riforma fa davvero poco». Nel frattempo la campagna contro i falsi associati va avanti. Un'intesa tra la Nidil e direzione provinciale del lavoro di Napoli consentirà agli ispettori di effettuare controlli mirati sul territorio sulla base delle denunce giunte al sindacato. Un modello che potrebbe essere presto replicato in altre città. Quanto ai grandi marchi del franchising, non appena il quadro normativo sarà definito, la Cgil chiederà alle case madri di impegnarsi a stipulare contratti commerciali solo con quelle imprese che utilizzano "veri" lavoratori dipendenti: inquadrandoli come tali.Ilaria CostantiniPer saperne di più su questo argomento leggi anche:- False partite Iva, con la riforma 350mila sono a rischio assunzione... o estinzione- Riforma del lavoro, quanto porterebbe in tasca ai precari la MiniAspi?- Con l'Aspi sussidio di disoccupazione anche ai precari: ma solo se cercano lavoroE anche:- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani- Riforma Fornero, cosa non va secondo i sindacalisti esperti di precariato- Regioni e riforma del lavoro, è guerra al governo sull'articolo sui tirocini

Indennità una-tantum per cococo e cocopro: più che un ammortizzatore, una beffa

Arriva l’indennità una tantum per i collaboratori coordinati continuativi (coloro che sono inquadrati come «cococo» e «cocopro») disoccupati, ed è subito polemica. L’intento è anche nobile: garantire una forma di assistenza sociale a una categoria di lavoratori sostanzialmente priva di diritti e tutele. E di certo è sempre meglio aggiungere qualcosa che togliere ulteriormente. Ma i parametri sono talmente stringenti, e le cifre tanto ridotte, che il provvedimento previsto dal disegno di legge Fornero, attualmente all'esame del Senato, rischia di sembrare una vera e propria beffa per i precari.Nella versione attuale del testo «l’indennità è pari a una somma del 5 per cento del minimale annuo di reddito» (fissato dall'Inps a 14.930 euro per il 2012), «moltiplicato per il minor numero tra le mensilità accreditate l’anno precedente e quelle non coperte da contribuzione».   Potranno accedervi i cococo e cocopro che abbiano operato in regime di monocommittenza (vale a dire, per un solo datore di lavoro nell’anno precedente); che abbiano conseguito un reddito non superiore a 20mila euro; che abbiano versato almeno quattro mensilità di contributi presso la gestione separata dell’Inps nell’anno precedente (per il primo anno di applicazione, il 2013, ne basterà una); che siano stati disoccupati per almeno due mesi ininterrotti nell'anno precedente. L'ammontare dell'indennità, quindi, non dipende dalla retribuzione dei collaboratori, ma dalla durata del loro contratto: un cocopro che guadagnasse 1.000 euro per 4 mesi, ricorrendo le altre condizioni, otterrebbe la stessa una tantum di un cocopro che avesse percepito il triplo o il quadruplo, 3mila euro o anche 4mila, sempre per 4 mesi.Secondo una stima elaborata da Patrizio Di Nicola, esperto di lavoro atipico, l’indennità potrebbe riguardare potenzialmente meno del 10% dei parasubordinati: circa 90mila lavoratori, quando gli iscritti alla gestione separata dell'Inps sono oltre un milione e mezzo. Ipotizzando che nel corso del 2013 un terzo di questi parasubordinati perdesse il lavoro, stima Di Nicola, l'indennità con questi paletti potrebbe essere erogata solamente a meno 30mila persone e con importi pro capite ridottissimi - compresi tra 750 e 4.500 euro l'anno. Esborso totale: solo 72 milioni di euro, contro i 250 fruttati all'Inps dall'aumento dell'1% dell'aliquota previdenziale per la categoria, sempre secondo le stime di Di Nicola.Non che le forme attuali di sostegno ai cococo disoccupati (un contributo pari al 30% del reddito dell’anno precedente entro un tetto massimo di 4mila euro) abbiano dato risultati migliori. Tra il 2009 e il 2010, stando a dati Inps, sono stati erogati appena 25 milioni di euro (su uno stanziamento da 100 milioni) a meno di 10mila lavoratori, con una media del 70% di domande respinte.I calcoli di Di Nicola vengono sostanzialmente confermati anche da Maurizio Del Conte, docente di diritto del lavoro per la Bocconi: «La formulazione del ddl è un po’ astrusa, ma basta fare un po’ di conti per accorgersi che l’importo dell’indennità sarà veramente modestissimo. In pratica, il totale sarà pari al 5% del minimale moltiplicato al massimo per sei mesi». Secondo Del Conte, «veniamo da una situazione in cui i lavoratori a progetto non hanno praticamente nessuna delle tutele garantite ai lavoratori subordinati. L’una tantum vorrebbe essere un ammortizzatore sociale, ma non permette certo ai collaboratori disoccupati di vivere con dignità tra un periodo di disoccupazione e l’altro, né di programmare serenamente il proprio futuro lavorativo. Il termine è un po’ forte, ma verrebbe quasi da definirla come una forma di elemosina».Ma ci sono anche altre ombre sulla riforma di Fornero. Prima di tutto, la natura dell’una tantum: da intendersi per lavoratore o per periodo di disoccupazione? «La formulazione non è chiara ma si può supporre che, dopo aver percepito l’indennità, il lavoratore possa ottenerne un’altra solo dopo aver maturato daccapo i requisiti, difficilmente prima che siano passati almeno due anni», afferma Del Conte.Ancora da chiarire, infine, il limite della “disponibilità di risorse” introdotto dal ddl, e a cui è subordinata l’erogazione dell’indennità. Spiega ancora Del Conte: «Non è l’unica norma, purtroppo, che ha questa clausola di salvaguardia. In sostanza c’è un plafond limitato di cui ancora non è chiaro l’ammontare. L’indennità verrà probabilmente erogata a chi la chiederà per primo, e poi si andrà avanti fino ad esaurimento delle risorse. È il discorso che si fa anche per gli esodati. Se il numero di richiedenti dovesse eccedere le stime del governo, a un certo punto un cococo si sentirà rispondere: mi dispiace, sono finiti i soldi». E fine anche dell'elemosina... pardon, dell'indennità.di Andrea CuriatSe vuoi saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani- Riforma del lavoro, il testo apre a nuove linee guida nazionali sugli stageE anche:- Riforma Fornero, cosa non va secondo i sindacalisti esperti di precariato- Abolire gli stage post formazione: buona idea ministro, ma a queste condizioni

Con l'Aspi sussidio di disoccupazione anche ai precari: ma solo se cercano lavoro

Ammortizzatori sociali: cosa cambierebbe se il disegno di legge Fornero venisse approvato? La legge 223 del 1991 stabilisce le regole in base a cui i lavoratori hanno diritto a ricevere - in caso di disoccupazione, cassa integrazione e altre condizioni di mobilità - un sussidio economico e un supporto nella ricerca di un nuovo lavoro.Se il ddl entrerà in vigore, le varie forme di sussidi di disoccupazione e gli assegni di mobilità previsti dalla normativa precedente saranno accorpati dal 2017 in due strumenti, Aspi («Assicurazione Sociale per l'Impiego») e MiniAspi. Entrambe le misure sono destinate ai lavoratori dipendenti, pubblici e privati, con contratto a tempo indeterminato, determinato, part-time o di apprendistato (escluse invece le forme di contratto atipico). L'Aspi verrebbe erogata a chi ha due anni di anzianità assicurativa e che ha lavorato per almeno cinquantadue settimane nell'ultimo biennio; la Mini Aspi a chi ha lavorato in un periodo compreso da tredici settimane a sei mesi nell'ultimo anno. Secondo l'articolo 37 comma 3 del ddl Aspi e MiniAspi durerebbero fino a dodici mesi - con a proroghe per casi specifici, per esempio la frequenza di un corso di riqualificazione professionale: in caso di una o più proroghe, la somma sarebbe inferiore rispetto all'indennità erogata inizialmente, nello specifico del 10 % alla prima proroga, del 30 % alla seconda e del 40% alla terza e successive. L'articolo 35 illustra invece un'indennità una tantum per i disoccupati il cui ultimo impiego è stato con contratto di collaborazione coordinata e continuativa e iscritti alla gestione separata dell'Inps.Come nella normativa ancora in vigore, il ddl tiene conto anche dei requisiti di decadenza, ossia le condizioni per cui viene meno la fruizione degli ammortizzatori sociali, illustrati negli articoli 30 e 62. Si decadrebbe dal ricevere Aspi e MiniAspi in caso di perdita dello stato di disoccupazione (perché si è firmato un contratto di lavoro o si è avviata un'attività autonoma) o di raggiungimento dei requisiti per il pensionamento, ma anche rifiutando una o più opportunità di lavoro o formazione proposte dal centro per l'impiego.Cosa significa quest'ultimo punto? Che se una persona iscritta al centro per l'impiego riceve un'offerta per partecipare a un corso di formazione o di riqualificazione professionale, oppure un'offerta di lavoro con contratto subordinato, e rifiuta questa opportunità (oppure accetta ma non frequenta il corso o non si reca regolarmente sul luogo di lavoro) automaticamente non ha più diritto a ricevere il sussidio. In particolare, la decadenza si applica se il lavoratore rifiuta di partecipare a opere o servizi di pubblica utilità mentre è disoccupato, oppure se rifiuta un'offerta di impiego «professionalmente equivalente» alle sue mansioni precedenti e la cui retribuzione è - come si legge all'articolo 62 comma 2b del ddl - «non inferiore al 20% rispetto all'importo lordo dell'indennità cui ha diritto», e ove il luogo di lavoro o la sede del corso - comma 3 - «si svolgono in un luogo che non dista più di 50 chilometri dalla residenza del lavoratore, o comunque che è raggiungibile mediamente in 80 minuti con i mezzi di trasporto pubblici».La Repubblica degli Stagisti ha chiesto un'opinione su questa "clausola di non rifiuto" a Patrizia Avellani, segretaria Camera del lavoro di Genova: «Le criticità non sono legate tanto alla parte economica, poiché dalle tabelle allegate alla relazione tecnica essa risulta in linea o lievemente superiore rispetto all'attuale indennità, piuttosto all'incertezza sul reperimento delle risorse per il suo finanziamento. Per quanto riguarda l'universalità vengono escluse alcune figure professionali, i requisiti richiesti non allargano di fatto la platea dei lavoratori. Ovviamente quando andrà a regime, nel 2016, e di fatto verrà cancellata la mobilità in deroga, avremo grossi problemi di sostegno al reddito per tutti quei lavoratori coperti oggi dalla deroga. La durata, rispetto all'attuale indennità, viene di fatto dimezzata, e in presenza di grave crisi occupazionale ciò rischia di diventare un problema drammatico. Le prime conseguenze si stanno già verificando: le aziende in crisi stanno accelerando i processi di mobilità e fuoriuscita dei lavoratori al fine di utilizzare le norme attualmente in vigore».Cosa accade invece all'estero? Nei Paesi dell'Unione europea il diritto a ricevere l'indennità è strettamente collegato al salario maturato nell'ultima esperienza lavorativa, ma non tutti garantiscono in contemporanea un "salario minimo" per gli inoccupati (ossia chi non ha mai lavorato), come del resto l'Italia, o per chi dimostra di vivere in condizioni di indigenza. Tutti i Paesi dell'Ue pongono la disponibilità al lavoro come requisito fondamentale per accedere agli ammortizzatori sociali: questo perché i fondi devono essere erogati a chi si trova in uno stato di "disoccupazione involontaria", ossia è rimasto senza impiego, risulta iscritto al collocamento ed è alla ricerca attiva di una nuova collocazione. In Germania, dove si applica un sussidio tra il 60 e il 67% rispetto all'ultimo stipendio e un reddito minimo di 359 euro mensili a chi è in cerca del primo impiego, è requisito indispensabile per accedere ai sussidi il dimostrare che si sta cercando un lavoro e l'accettare un eventuale impiego che viene proposto. La stessa cosa avviene in Paesi come Francia, Spagna e Inghilterra, dove l'importo dell'indennità varia a seconda dell'età o dei contributi maturati nell'ultimo biennio. La Finlandia impone addirittura che la persona che richiede i sussidi stia ricercando un lavoro full time, mentre in Svezia e Paesi Bassi bisogna dichiarare di non aver rifiutato opportunità di lavoro tra il momento in cui si è diventati disoccupati e quello in cui si è fatta richiesta del sussidio.È giusto imporre l'obbligo di cercare lavoro per legge? Certamente, a fronte di risorse pubbliche sempre più scarse, è opportuno rendere il sussidio di disoccupazione una misura limitata nel tempo. Un "tampone" deputato esclusivamente ad aiutare una persona nel momento di transizione da un lavoro all'altro non può diventare uno "stipendio di Stato", erogato per anni, magari a persone che non intendono trovare un nuovo impiego. Il problema però si porrà per quelle persone che durante il periodo di disoccupazione non si sentiranno offrire nessuna proposta di nuovo lavoro. E questa è un'altra sfida della riforma, ancora tutta da valutare: rivitalizzare e riorganizzare i servizi rivolti a chi cerca lavoro, a cominciare dall'attività dei centri per l'impiego sparsi per il territorio.Marta TraversoPer saperne di più su questo argomento, leggi anche gli articoli- Stage, il ddl Fornero punta a introdurre rimborso spese obbligatorio e sanzioni per chi sfrutta- Riforma del lavoro, il ministro Fornero: «Non andrà in vigore prima del 2013»