Categoria: Approfondimenti

Riforma del lavoro, quanto porterebbe in tasca ai precari la MiniAspi?

Con la riforma del lavoro elaborata dal ministro Fornero anche l'indennità di disoccupazione non sarà più la stessa. Se il disegno di legge ora al vaglio del Parlamento non sarà modificato, il nuovo ammortizzatore sociale per chi perde il lavoro in maniera involontaria - escluse quindi le dimissioni o le risoluzioni consensuali dei rapporti di lavoro - si chiamerà Aspi («assicurazione sociale per l'impiego», articolo 22 del ddl), e avrà una variante in forma ridotta: la MiniAspi (art. 28). Che, dati i requisiti molto stringenti per accedere all'Aspi, si prospetta essere il nuovo paracadute per i precari in senso assoluto, quelli cioè che in un anno riescono ad accumulare pochi mesi di lavoro. La differenza sostanziale con il regime precedente consiste sia nel tempo necessario a maturare l'indennità, sia nel requisito della permanenza dello stato di disoccupazione, indispensabile - secondo l'attuale disegno di legge - affinchè si instauri il diritto a percepire l'assicurazione. Superato il regime transitorio che si concluderà nel 2017, gli aventi diritto riceveranno infatti la MiniAspi mentre sono ancora disoccupati, e non più l'anno successivo come in passato. Inoltre basterà aver lavorato per un periodo di 13 settimane negli ultimi dodici mesi (nel caso dell'Aspi le settimane sono invece 52 nell'ultimo biennio, mentre gli anni di contribuzione devono essere almeno due - requisito assente per la versione ridotta). Ma a chi spetta l'indennità? In entrambi i casi - Aspi e MiniAspi - a lavoratori dipendenti con contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, inclusi dipendenti della pubblica amministrazione, artisti e apprendisti. Restano fuori invece cococo, titolari di contratti a progetto e operai agricoli. Come si articolerà in concreto la MiniAspi? La Repubblica degli Stagisti, con l'aiuto di Andrea Candidori della direzione risorse umane di Groupama, ha tracciato alcune proiezioni di sussidio per tre tipologie di lavoratori con diversi periodi di contribuzione. Il primo esempio è quello di un lavoratore con contratto a tempo determinato che abbia lavorato da settembre a novembre del 2013, quindi per tre mesi, con un lordo mensile di 900 euro e un contratto che prevede 14 mensilità. In questo caso, così come previsto dall'articolo 28 del ddl, il lavoratore avrà diritto al 75% della busta paga (se lo stipendio fosse stato invece superiore ai 1.180 euro, l'indennità sarebbe cresciuta del 25% «del differenziale tra la retribuzione mensile e il predetto importo», si legge nel ddl). Ipotizzando che abbia percepito un totale di 3.450 euro (tra straordinari e ratei di aggiuntiva, quindi tredicesima e quattordicesima), il lavoratore maturerebbe un'indennità pari a 861,84 euro al mese (l'imponibile va infatti diviso per le settimane di contribuzione e moltiplicato poi per il numero 4,33). Per quanto riguarda la durata del miniAspi, il ddl stabilisce che l'indennità «è corrisposta per un numero di settimane pari alla metà delle settimane di contribuzione dell'ultimo anno». Il contrattista di tre mesi avrebbe quindi diritto alla MiniAspi per 6 settimane e mezzo: il secondo mese l'indennità sarà dunque dimezzata, per un totale di 488 euro. Un secondo caso è quello di un lavoratore a tempo determinato che abbia lavorato per nove mesi, con uno stipendio di 1.500 euro lordi mensili su 14 mensilità. Partendo da un imponibile di 15.750 euro, il calcolo questa volta va fatto aggiungendo il differenziale del 25%, in quanto la retribuzione supera i 1.180 euro mensili. Il lavoratore percepirebbe dunque 1.119 euro al mese per 19 settimane e mezzo, quindi quasi cinque mesi. Terzo caso è quello di un apprendista che abbia lavorato per sei mesi, pagato mille euro lordi al mese, con quattordicesima, per un totale di 8mila euro di reddito. In questo caso al lavoratore andrebbe un sussidio di 999 euro mensili per tre mesi.Non tutto è perduto poi per i lavoratori coordinati e continuativi. A dar loro un po' di respiro dovrebbe arrivare la una tantum prevista dall'articolo 35 del disegno di legge, che in base alle promesse del governo potrebbe diventare finalmente 'strutturale' e non più estemporanea come avvenuto finora. I requisiti: aver lavorato in regime di monocommittenza e non aver percepito più di 20mila euro, aver maturato un periodo di disoccupazione di almeno due mesi non stop, almeno quattro mensilità versate presso la Gestione separata nell'anno precedente e almeno un mese di lavoro nell'anno in corso. Un esempio: il titolare di un contratto a progetto di quattro mesi che avesse guadagnato meno di 20mila euro prenderebbe 2.986 euro (il calcolo è realizzato sul 5% del minimale annuo di reddito, fissato per il 2012 a 14.930 euro in base all'art. 1 della legge 233/1990, poi «moltiplicato per il minor numero tra le mensilità accreditate l’anno precedente e quelle non coperte da contribuzione», come indica il ddl). L'una tantum in questo caso, in quanto superiore a mille euro, verrebbe corrisposta in tre rate mensili in ottemperanza al dettato del comma 3 dell'articolo 35 del ddl. In sostanza la cosa importante da sapere è che questo tipo di sussidio non dipenderebbe dal fatto che il collaboratore abbia avuto uno stipendio mensile di mille piuttosto che di tre-quattromila euro, ma dal numero di mesi in cui è stato impiegato. Tutto questo naturalmente a patto che il Parlamento non intervenga sul capo IV° del disegno di legge: se così fosse, le proiezioni potrebbero cambiare anche in maniera rilevante.Ilaria MariottiPer saperne di più su questo argomento leggi anche:- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani- Riforma Fornero, cosa non va secondo i sindacalisti esperti di precariatoE anche:- Regioni e riforma del lavoro, è guerra al governo sull'articolo sui tirocini- Stage, il ddl Fornero punta a introdurre rimborso spese obbligatorio e sanzioni per chi sfrutta

In Italia un giovane su tre è senza lavoro. Ma è davvero così?

Un giovane su tre è disoccupato. Giornali e televisioni hanno semplificato così i dati contenuti nel rapporto Istat «Occupati e disoccupati. Media 2011», diffuso all'inizio di aprile. Chi ha parlato di disoccupazione record, chi di conflitto generazionale. Ma Assolombarda, l'unione degli industriali milanesi, ha smentito seccamente questa notizia sostenendo che in realtà gli under 24 senza lavoro sono meno del 10%. Il punto è che hanno ragione entrambi: dipende solo da come si vogliono leggere i dati.Effettivamente scorrendo i numeri forniti dall'Istituto nazionale di statistica sembrerebbe proprio che l'allarme lanciato dai media sia più che fondato. Il prospetto 9, tabella dedicata al tasso di disoccupazione nella fascia di età tra i 15 ed i 24 anni, parla di un 29,1% di disoccupati. Una percentuale che nel Mezzogiorno si attesta addirittura al 40,4% e che, per le ragazze del Sud, tocca il 44,6%. In pratica, una su due è senza lavoro. Numeri che fanno notizia e che hanno così attirato l'attenzione dei media.Ma Assolombarda sul proprio webmagazine ha spiegato che «le persone tra i 15 ed i 24 anni che non trovano lavoro sono complessivamente 483mila». Una cifra pari «all'8% dei 6 milioni e 53mila italiani che rientrano in questa fascia di età». Fornendo anche una spiegazione tecnica: «Per calcolare il tasso di disoccupazione si considera solo la ‘popolazione attiva’, cioè quella che ha un lavoro o lo cerca attivamente. In una fascia di età in cui la grande maggioranza è impegnata nello studio, la popolazione attiva è di soli 1 milione e 660mila individui, contro i quasi 4 milioni e mezzo di ‘inattivi’ da un punto di vista lavorativo».Ma allora chi ha ragione? I giornali che parlano di un terzo di giovani disoccupati o gli industriali che riducono questa quota a meno del 10%? «Nei nostri comunicati stampa non scriviamo mai che un terzo dei giovani è disoccupato e lo spieghiamo ai giornalisti in conferenza stampa. Proviamo anche a correggere le agenzie, ma è difficile fermare una notizia quando diventa virale», spiega alla Repubblica degli Stagisti Francesca della Ratta della divisione Formazione e lavoro di Istat. La questione, chiarisce l'analista, sta nella modalità con cui si calcola il tasso di disoccupazione.Stando alle «definizioni statistiche internazionali», questo dato non viene rapportato all'intera popolazione di età compresa tra i 15 e i 24 anni, ma solo a quella attiva, che rappresenta il 27,4% del totale. Si tratta, in buona sostanza, di quel milione e 660mila persone cui fa riferimento Assolombarda. Per popolazione attiva si intendono quei giovani che sono entrati o cercano di entrare nel mercato del lavoro. Da un punto di vista statistico, rientrano in questa definizione coloro che, nella settimana in cui Istat ha effettuato l'intervista, hanno svolto almeno un'ora di lavoro, hanno cercato un'occupazione oppure hanno dichiarato che la inizieranno entro tre mesi. E appunto il 29,1 per cento di questi soggetti, di questi ragazzi e ragazze considerati popolazione attiva, è risultato essere disoccupato. In numeri assoluti, si tratta di quelle 483mila persone delle quali parlano gli industriali milanesi. Istat del resto calcola i disoccupati in questo modo non solo rifacendosi agli standard internazionali, ma anche per sottolineare  «la partecipazione al mercato del lavoro, perché si tratta di un indicatore economico di un certo interesse», come spiega della Ratta. Prendere in considerazione persone che rientrano nella fascia di età ma che non cercano di entrare nel mondo del lavoro, banalmente perché stanno finendo le scuole secondarie piuttosto che l'università, renderebbe meno significativo il dato. Detto brutalmente, non ha senso considerare disoccupata una persona che nemmeno sta cercando un'occupazione, nel caso specifico perché è concentrata sugli esami universitari. Quindi per chiarire una volta per tutte si potrebbe dire così: è disoccupato un terzo dei giovani italiani nella fascia d'età 15-24 anni che cercano attivamente lavoro.Il dato rimane comunque interessante: un terzo dei giovani che tenta di entrare nel mondo del lavoro si trova di fronte a una porta sbarrata. Una situazione preoccupante, che diventa ancora più grave se si considera che oltre ai disoccupati ci sono anche tanti giovani che cercano un accesso al mondo del lavoro attraverso il tirocinio. «Quando si parla dei neet, che di solito la stampa etichetta come dei 'fannulloni', si dimentica che tra questi potrebbero esserci molte persone che non risultano essere studenti né lavoratori perché sono impegnate in uno stage», sottolinea della Ratta, anticipando alla Repubblica degli Stagisti che nel 2012 verrà introdotta anche una domanda relativa ai tirocini. Così che il prossimo anno si avrà il primo dato ufficiale relativo a quanti siano gli stagisti in Italia.Riccardo SaporitiSe hai trovato interessante questo articolo, leggi anche:- Cresce la disoccupazione giovanile europea. Scarpetta, dirigente Ocse: «necessari più sussidi per i precari»- Regioni e riforma del lavoro, è guerra al governo sull'articolo sui tirociniE anche:- Riforma Fornero, cosa non va secondo i sindacalisti esperti di precariato- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani

False partite Iva, con la riforma 350mila sono a rischio assunzione... o estinzione

Sono professionisti ma anche commesse e muratori; svolgono mansioni da dipendenti, ma non hanno nessuna autonomia di orario e di sede. Sulle loro prestazioni il datore di lavoro, spesso unico, ha potuto finora risparmiare parecchio. Le false partite Iva sono l'emblema di quella cattiva flessibilità che la riforma Fornero si propone di combattere, e stavolta con norme davvero severe. Tanto da aver messo in allarme non solo imprese e studi professionali, ma anche i diretti interessati. Spaventati dalla possibilità di vedere interrotti quei rapporti che, nel bene e nel male, negli ultimi anni hanno consentito a molti di loro di restare sul mercato. Secondo l'Ires in Italia sono attive circa sei milioni e mezzo di partite Iva, suddivise tra un milione di società di capitale, oltre un milione di artigiani e commercianti, tre milioni e mezzo di professionisti non regolamentati e più di un un milione di iscritti ad albi professionali. È tra queste attività individuali che secondo le stime dell'Isfol si anniderebbero circa 400mila falsi autonomi.«Le nuove norme potrebbero in effetti rappresentare un deterrente per il datore di lavoro», ammette Laura Calderoni, 37 anni [nella foto], una delle fondatrici di ivaseipartita, noto blog animato da architetti e ingegneri atipici. «Ma è necessario ripartire da un principio di legalità e la riforma è un primo segnale di contrasto al fenomeno». Per individuare i falsi autonomi, il disegno di legge arrivato in commissione Lavoro al Senato prevede che si debba tenere conto della compresenza di due di tre indici presuntivi: ovvero una collaborazione di durata superiore a sei mesi nell'arco dell'anno, che comporti una postazione di lavoro presso una delle sedi del committente e da cui il collaboratore tragga almeno il 75% dei corrispettivi annuali (anche nel caso in cui le fatture siano emesse a soggetti diversi ma riconducibili alla stessa attività imprenditoriale). Quando almeno due di queste condizioni siano verificate, l'art. 9 del ddl stabilisce che il prestatore d'opera sia da considerarsi un collaboratore parasubordinato, e come tale inquadrato dall'impresa che, in caso di rivalsa da parte del lavoratore, sarà anche costretta al versamento dei 2/3 dei contributi pensionistici ad essa spettanti per questo tipo di contratto. In mancanza di uno specifico progetto, necessario d'ora in poi per attivare il cocopro, l'impresa potrebbe essere addirittura costretta ad inquadrare il falso autonomo come dipendente a tempo indeterminato. Di qui il timore di molte associazioni di professionisti come Acta, che riunisce i consulenti del terziario avanzato, operanti per lo più al di fuori degli ordini professionali: «Prima di affidare una commessa, d'ora in poi il committente dovrebbe accertarsi che il consulente non rientri nelle fattispecie indicate. Nel dubbio preferirà probabilmente rivolgersi ad una società», spiega Anna Soru, 53 anni, presidente di Acta.«La sanzione non è automatica» chiarisce tuttavia Laura Calderoni: «sarà necessario che il lavoratore  denunci la propria condizione di falso autonomo: a quel punto dovrà essere il datore di lavoro a dimostrare il contrario».Se riuscirà a passare indenne dall'iter parlamentare - cosa che appare ormai improbabile - la norma agirà da subito nei confronti dei rapporti aperti dopo la sua entrata in vigore, mentre per quelli preesistenti le imprese avranno un anno di tempo per regolarizzarsi.Discorso a parte meritano tutte quelle partite Iva costituite da professionisti iscritti agli albi professionali, per i quali il testo prevede una parziale esclusione dal nuovo regime qualora svolgano attività «per l'esercizio delle quali è necessaria l'iscrizione in appositi albi professionali». Il dispositivo non brilla per chiarezza, ma precisa che l'iscrizione ad un albo  non è «di per sé circostanza idonea a determinare l'esclusione dal campo di applicazione» della legge. Il che lascia presupporre che gli iscritti alle professioni regolamentate potranno di fatto continuare a lavorare come false partite Iva, ma solo nel caso in cui svolgano mansioni per le quali sia indispensabile l'appartenenza ad un ordine: in caso contrario saranno invece soggette alla nuova normativa. «In questo modo si creano grosse ambiguità», osserva la Calderoni, «moltissime mansioni svolte dagli architetti all'interno degli studi non sono previste dall'ordine». Come dovranno regolarsi in questi casi i professionisti resta per il momento uno dei punti più oscuri della riforma.Ma il destino degli iscritti e dei non iscritti alle professioni regolamentate si divide anche in materia di contributi pensionistici: l'articolo 36 del ddl prevede infatti che soltanto per gli iscritti alla gestione separata dell'Inps - e dunque per i professionisti non appartenti agli ordini - l'aliquota salga progressivamente dall'attuale 27% fino al 33% nel 2018, «mentre i professionisti iscritti agli albi   continueranno a versare alle rispettive casse professionali intorno al 14%. Una differenza abissale» protesta la presidente di Acta.La ratio che ha portato ad una distinzione così netta tra le due categorie non trova peraltro riscontro nella realtà in cui si muovono oggi gran parte dei professionisti italiani. «Per entrambi le condizioni di lavoro sono notevolmente peggiorate», spiega infatti Daniele Di Nunzio, 34 anni, uno dei ricercatori Ires che lo scorso anno ha seguito per l'istituto di ricerca della Cgil una delle indagini più complete mai realizzate sull'argomento. I quasi 4mila professionisti che hanno risposto al questionario online «mostrano un forte grado di subordinazione rispetto al datore di lavoro, con il quale hanno difficoltà a contrattare lo stipendio ma anche l'orario», racconta ancora Di Nunzio. Oltre che poco autonomi, molti professionisti appaiono poi letteralmente poveri: più del 20% degli iscritti e il 25% dei non iscritti dichiara di aver guadagnato meno di 10mila euro netti nel 2009.«Sul problema si deve intervenire» ammette Anna Soru, «con questi criteri si rischia però di creare un serio danno anche a chi vuole continuare a svolgere la propria attività da autonomo».Ma quanti liberi professionisti rischierebbero di scomparire con la riforma Fornero? «Le stime esistenti indicano una percentuale di false partite Iva compresa tra il 5 e il 15%, su un totale di 4 milioni e mezzo di posizioni individuali». Escludendo il milione di professionisti parzialmente esentati in quanto appartenenti ad ordini professionali, si parla quindi di circa 350mila posizioni a rischio estinzione, per i pessimisti; o assunzione, per gli ottimisti.Ilaria CostantiniPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani- Riforma Fornero, cosa non va secondo i sindacalisti esperti di precariato- Regioni e riforma del lavoro, è guerra al governo sull'articolo sui tirocini E anche:- Stage, il ddl Fornero punta a introdurre rimborso spese obbligatorio e sanzioni per chi sfrutta- Riforma del lavoro, il testo apre a nuove linee guida nazionali sugli stage- Abolire gli stage post formazione: buona idea ministro, ma a queste condizioni

Apprendistato: contratto a tempo indeterminato oppure no?

L'apprendistato è un contratto a tempo determinato o indeterminato? L'annosa questione, da tempo dibattuta, si ripropone leggendo la bozza di riforma del mercato del lavoro approvata dal consiglio dei ministri il 23 marzo. Perché quella che dovrebbe essere la principale porta di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro in quel testo viene definita prima in un modo e poi in un altro.L'apprendistato è un contratto che può essere sottoscritto da un giovane di età compresa tra i 16 ed i 29 anni, ha una durata massima di 6 anni e prevede che il lavoratore svolga un determinato numero di ore di formazione. Il ministro Elsa Fornero considera questa tipologia contrattuale uno dei pilastri della sua riforma: nel disegno di legge pubblicato il 4 aprile viene definita come la «modalità prevalente di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro».Ma più che il ddl, in questo frangente è il testo del documento del 23 marzo a interessare. Vi si legge infatti che l'apprendistato dovrebbe essere sempre più inteso come «il punto di partenza verso la progressiva instaurazione di rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato». Il che lascerebbe supporre che si tratti di un contratto a tempo determinato. Eppure, poche pagine oltre, cambia tutto.Una delle modifiche all'attuale struttura delle norme sull'occupazione riguarda infatti un aumento del costo del lavoro delle diverse di alcune tipologie di contratti temporanei che nelle intenzioni del governo dovrebbe incentivare le aziende ad assumere a tempo indeterminato. Ebbene, nel testo in questione si legge che «l'aliquota aggiuntiva non si applicherà agli apprendisti» visto che essi sono «titolari di contratto a tempo indeterminato». Ma allora l'apprendistato è un tempo determinato o indeterminato?La Repubblica degli Stagisti ha cercato di chiarire la questione interpellando ad alcuni giuslavoristi. «Il contratto di apprendistato è sempre stato considerato come un rapporto di lavoro a tempo indeterminato che ha la peculiarità di permettere un licenziamento immotivato al termine della parte formativa, senza bisogno da parte del datore di lavoro di addurre giusta causa né giustificato motivo» afferma Gianguido Balandi [foto a sinistra], ordinario di Diritto del lavoro e preside della facoltà di Giurisprudenza dell'università di Ferrara. Cosa accada lo spiega nel dettaglio Angelo Pandolfo, che insegna Diritto del lavoro alla Sapienza di Roma: «Alla fine dell'apprendistato il datore di lavoro può recedere dal rapporto. Ma se da parte dell'azienda c'è quella che si definisce "inerzia", allora questo continua automaticamente. Ed è a tempo indeterminato». Quanto spesso avviene il passaggio al tempo indeterminato? Stando all'ultimo rapporto Isfol, coloro che hanno iniziato a lavorare con un contratto di apprendistato nel 2005 sono riusciti, dopo cinque anni, a trasformare questo rapporto in un tempo indeterminato nel 44,9% dei casi.Per queste ragioni la proposta di riforma non prevede un aumento del costo del lavoro di un apprendista. Ma servirà far crescere quello dei contratti precari per convincere i datori di lavoro a preferire forme di contratto più stabili? «Il problema rimane tutto intero», contesta Claudia Pratelli [foto a destra] del dipartimento per le politiche giovanili della Cgil. «Restano in piedi tutte le oltre 40 tipologie contrattuali precarie che conoscevamo»: insomma, se l'obiettivo fosse stato quello di combattere il precariato sarebbe servito abolirne almeno qualcuna. In più «l'aumento del costo del lavoro vale per i contratti a tempo determinato, ma non per i parasubordinati» - ovvero contratti a progetto, collaborazioni coordinate e continuative, occasionali. Anzi, per queste categorie «il rischio è che l'aumento del costo contributivo si scarichi sulle buste paga nette». Chi lavora in queste condizioni infatti non ha un salario definito in base ai contratti nazionali. E quindi le aziende potrebbero ridurre i loro compensi, scaricando su di loro l'aumento del costo del lavoro.«Non solo non si è disincentivato l'utilizzo dei contratti precari» chiude Pratelli «ma contemporaneamente si produce un effetto perverso legato all'abbattimento del compenso netto». Senza essere riusciti a trasformare l'apprendistato nella principale via d'ingresso dei giovani nel mercato del lavoro.Riccardo SaporitiSe ti ha interessato questo articolo, leggi anche:- Apprendistato: coinvolge pochissimi laureati e spesso non garantisce vera formazione- Luci e ombre del contratto di apprendistato - una buona occasione, ma preclusa (o quasi) ai laureati- Apprendistato questo sconosciuto – Tiraboschi: «No allo stage come "contratto di inserimento": per quello ci sono oggi altri strumenti»E anche:- Riforma Fornero, cosa non va secondo i sindacalisti esperti di precariato- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani- Contratti di apprendistato in calo, nasce un sito per rilanciarli

Giornalisti a tutti i costi, il business dei mille corsi

Diventare giornalisti con un corso intensivo di 200 ore in formula weekend. È una delle promesse dei tanti corsi e master che, in cambio di laute quote di partecipazione, assicurano ai partecipanti stage in uffici stampa e in piccole e grandi testate giornalistiche. Ufficialmente in Italia sono attive in questo momento soltanto 12 scuole riconosciute dall'Ordine dei giornalisti: durano due anni, danno agli allievi la possibilità di svolgere il praticantato e di sostenere alla fine l'esame di Stato con cui si diventa giornalisti professionisti. Al di là di questi percorsi riconosciuti esiste tuttavia un fitto sottobosco di opportunità formative appositamente pensate da società e agenzie private per quanti sognano di lavorare all'interno di una redazione. Con quali prospettive occupazionali? «Alcuni ex allievi sono stati trattenuti: molti con una proroga del tirocinio, altri con vere e proprie proposte contrattuali», spiega al telefono la società romana Rolls Service, una delle tante contattate dalla Repubblica degli Stagisti nella veste di un utente interessato - in questo caso, al corso in giornalismo della promozione culturale in partenza a maggio. Per 1.600 euro ai corsisti vengono offerti 7 sabati di lezione, 150 ore di studio con tutoraggio, ma soprattutto due mesi di job training. Non ci vuole molto a capire quale sia l'attrattiva principale per il potenziale utente. «Ultimamente abbiamo stipulato una convenzione con la Repubblica online» sottolineano infatti dalla segreteria di Rolls Service.Il programma del master in ufficio stampa e giornalismo multimediale della Ieros Management, che si terrà sempre a Roma a partire da maggio, spiega ancora meglio il "valore" assunto ormai da un'esperienza di stage nel settore. Gli interessati sono infatti chiamati a scegliere tra due diverse formule: una a 1.495 euro che include soltanto le 10 giornate di corso e una a 2.887 euro con cui, oltre alle lezioni, si acquista anche lo stage. Per chi non avesse la voglia, o la possibilità, di calarsi nei panni di stagista, Ieros propone in alternativa una collaborazione occasionale con un'azienda partner retribuita con 1.000 euro «una tantum» (indipendentemente cioè dalla durata della collaborazione). È vero che alla fine si ottiene un bello sconto sul costo del corso, ma agli allievi si sta chiedendo di fatto di pagarsi un'esperienza lavorativa.«100% stage garantiti» assicura sul proprio sito anche Eidos Communication, agenzia di comunicazione e scuola di alta formazione romana che attualmente promuove due "executive master": uno in comunicazione e giornalismo della moda a 6.100 euro, l'altro in giornalismo radiotelevisivo a 6.300 euro (iva esclusa). Dal prossimo settembre 21 aspiranti giornalisti televisivi saranno così impegnati per 10 week end in aula, per poi passare tre mesi di stage in redazioni, uffici stampa e comunicazione. Tra i partner figurano anche Mediaset, La7, SkyTg24 e il Messaggero. «La percentuale di placement è variabile, ma per le precedenti edizioni siamo intorno al 30%». Con quali contratti? «Abbiamo avuto sia collaborazioni esterne che contratti di lavoro veri e propri» garantiscono gli organizzatori. Per quanto difficili da verificare, numeri simili appaiono a dir poco ottimistici rispetto a quelli disponibili ad esempio per gli allievi delle scuole di giornalismo convenzionate con l'Odg: secondo il presidente nazionale Enzo Iacopino solo il 10% degli ex studenti risulta oggi assunto a tempo indeterminato. Gli altri continuano a ricorrere un contratto dopo l'altro e, più spesso, devono accontentarsi di semplici collaborazioni, per lo più mal retribuite. A dare lustro ai corsi privati sono in molti casi proprio i nomi di professionisti eccellenti: tra i docenti del master Eidos compaiono ad esempio due giornalisti del Tg5, due del Messaggero, un vicedirettore Rai. L'anno scorso anche Marco Travaglio ha fatto una breve apparizione all'interno del master in giornalismo d'inchiesta. Ma una volta esaurita la fase di aula, con testimonial più o meno noti, come funzionano i tirocini? Dalla segreteria Eidos si apprende che «per gli iscritti con più di trent'anni non possiamo garantire lo stage: i nostri partner preferiscono profili con età inferiore. In alternativa garantiamo però tre mesi aggiuntivi di collaborazione giornalistica». A differenza di molti altri corsi, questo offre infatti agli interessati la possibilità di una collaborazione (assicurano: «retribuita») di sei mesi con alcune testate online, valida per raccogliere una parte degli articoli necessari per ottenere il tesserino da pubblicista. I trentenni scartati dalle aziende avranno comunque una magra consolazione, dato che dal prossimo 13 agosto è probabile che per diventare pubblicisti si debba svolgere il praticantato e superare un esame di Stato analogo a quello dei professionisti. L'aspirante giornalista dovrà inoltre essere laureato, mentre la maggioranza dei corsi in questione è aperta anche a diplomati.Navigando tra i siti specializzati si trovano poi annunci per workshop e master online, oltre a numerose offerte per esperti in uffici stampa, comunicazione strategica, copywriter... Valutare la qualità formativa di queste iniziative non è semplice. A parte lo stage in redazioni sempre più affollate di tirocinanti, è bene tenere presente che nella maggior parte dei casi ai partecipanti è garantito soltanto un attestato di frequenza finale, il cui valore dipende strettamente dal prestigio di cui gode l'ente formativo. Da questo punto vista l'occasione migliore appare il master in informazione multimediale e giornalismo economico organizzato a Milano da novembre prossimo dal Sole 24 Ore. Che è peraltro indirizzato prioritariamente a chi è già giornalista (pubblicista o addirittura professionista) e prevede una frequenza di trenta giorni spalmati su cinque mesi. Il Sole 24 Ore non rende però noto il costo, nè nella pagina nè nella brochure ufficiale del master: dice solo di aver stabilito una partnership con una banca che permetterà agli studenti di accedere a un "prestito d'onore" per l'intera quota di iscrizione «a condizioni molto agevolate con pagamento della prima rata dopo 6 mesi dalla fine del master». Le condizioni del prestito parlano di una cifra massima di 50mila euro, da restituire in 84 rate da circa 783 euro. È certamente probabile che la cifra per questo master sia inferiore: ma perchè non attuare una politica di trasparenza?A proposito di trasparenza, RdS ha apprezzato una piccola iniziativa promossa nella capitale da "Professione Reporter", un corso organizzato in 50 ore di lezione e un mese circa di stage (600 euro) da Kartabianca, che nei giorni scorsi ha dato la possibilità di partecipare gratuitamente alla prima lezione di corso. Interpellati sugli obiettivi dell'iniziativa, gli organizzatori anzichè promettere mirabolanti percentuali di placement hanno onestamente spiegato che «si tratta di un'esperienza utile ad orientare i partecipanti, aiutandoli a capire prima di tutto se questo lavoro fa davvero per loro». Almeno un po' di realismo.Ilaria CostantiniPer saperne di più su questo argomento leggi anche: - Giornalisti precari, il problema non è il posto fisso ma le retribuzioni sotto la soglia della dignità- Approvate le linee guida per la riforma dell'Ordine dei giornalisti: fino al 13 agosto si continua a diventare pubblicisti senza esame (e senza intoppi)- Riforma dell'Ordine dei giornalisti: verso un ponte di due anni per salvare i pubblicistiE anche:- Disposti a tutto pur di diventare giornalisti pubblicisti: anche a fingere di essere pagati. Ma gli Ordini non vigilano?- La testimonianza di Franca: «Dopo una serie di stage logoranti, la scelta di pagarmi da sola i contributi da pubblicista»- L'avvocato Gianfranco Garancini: «Chi falsifica la documentazione pur di entrare nell'albo dei giornalisti pubblicisti commette reati penali»

Diario di un precario sentimentale, Assunta Buonavolontà sbarca in libreria

Tra i tanti libri sulla precarietà usciti negli ultimi tempi, Diario di un precario (sentimentale), edito da Ediesse, ha il dono dell’ironia, a tratti anche della comicità. In poco meno di 200 pagine l'autrice Maria Antonia Fama racconta la storia di Assunta Buonavolontà (caso esemplare di nomen omen), brillante neolaureata in Scienze della comunicazione in cerca di impiego e alle prese con le inevitabili disavventure del caso. Porte sbattute in faccia, colloqui di lavoro improbabili e peripezie per sopravvivere con pochi euro al mese. Vedendo che i suoi sforzi nella ricerca di occupazione risultano vani Assunta, fuorisede calabrese trapiantata nella capitale, cade anche in uno stato di "semidepressione": e allora eccola a passare le sue giornate sul divano di un appartamento in condivisione, infilata nel triste pigiama-tuta (un regalo della mamma «per la vita casalinga»), a fantasticare sul suo vero sogno di gloria: quello di diventare attrice. Destinato a infrangersi contro la cruda realtà. «Lo sai tra le mie amiche chi si è trovata meglio di tutte?» scrive Assunta sul diario «Quella che è diventata modella. Già perché ormai essere modella è un prerequisito. Io ho studiato anni per fare l’attrice: soldi buttati». Meglio la chirurgia estetica: «Liposuzione e sollevamento glutei; stiramento dei tendini, per sollevarmi un paio di centimetri; ceretta definitiva del cuoio capelluto dall’attaccatura dei capelli fino a metà cranio per sollevare la fronte». E naturalmente pure «per risollevare le sorti». Anche lo stato di subordinazione delle donne nella società trova spazio nel libro. «Le nostre mamme bruciavano i reggiseni: la liberazione sessuale, l’aborto, il divorzio…» scrive l’autrice: poi sono arrivati gli anni Ottanta insieme alla caduta dei regimi comunisti, ed ecco i McDonald's e i sexy shop fioccare ovunque. «Noi che in quegli anni ci siamo nate, ci siamo ritrovate un po’ così, come i paesi dell’Est dopo la fine del comunismo: più occidentalizzati dell’Occidente. Ma che colpa abbiamo noi se siamo cresciute con Non è la Rai?». Leggerezza e brio sono i due capisaldi di questo libro-commedia dedicato a un argomento tutt’altro che da ridere. Assunta Buonavolontà ce la mette proprio tutta per costruirsi un avvenire. Dà ripetizioni a bambini viziati di buona famiglia, fa da badante a un’anziana, frequenta il cpi («centro di permanenza infinita», lo ribattezza al posto di centro per l’impiego). Passa addirittura un periodo a vendere apparecchi aspira calzini. E si imbatte anche nell’amore, quello di un filosofo dottorando che però dovrà imbarcarsi verso mete lontane, in cerca di un futuro migliore. Un epilogo amaro, a cui si legherà anche il destino della protagonista...Diario di un precario sentimentale è nato come radiogramma nel 2009 su Radio Articolo 1, e poi l'anno successivo è diventato uno spettacolo teatrale, di cui l'autrice è anche interprete. Il libro riserva nuove sorprese rispetto alla messa in scena, strappando un sorriso a chi – se precario e disoccupato - non ha più tanta voglia di piangersi addosso. Una prossima presentazione è prevista mercoledì 11 aprile a Milano, alle 21 alla libreria popolare Tadino in via Tadino 18. Il 24 aprile sarà invece allo spazio Combo di Perugia. Ilaria MariottiPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Diario di una precaria (sentimentale), in scena il dramma ironico di una disoccupata- «Alice senza niente», in un romanzo la vita nuda e cruda dei giovani squattrinati precari italianiE anche:- Se potessi avere mille euro al mese, il libro che racconta l'Italia sottopagata  

Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partire

Sei minuti per presentare il proprio progetto di impresa, un quarto d'ora per chiarire i dubbi della platea, una serata per convincere gli investitori. Il tutto tra una fetta di pizza e l'altra. Questa è Storming pizza, l'innovativa modalità di selezione dei progetti da finanziare scelta da H-Farm, incubatore di impresa con sede a Cà Tron, frazione di Roncade, cittadina in provincia di Treviso.Gli autori delle idee migliori, quelle che convincono lo staff di H-Farm, sono invitati a traferirsi a Cà Tron. Qui trovano uno spazio per insediare i propri uffici, persone che si occupano di tutti gli aspetti burocratici e giuridici, ma soprattutto un finanziamento che può arrivare fino a 300mila euro. Il processo di selezione, pizza a parte, è però molto duro. «Noi riceviamo più di 500 proposte ogni anno, solo nel 2011 sono state 583», spiega Giuseppe Folonari, associate e responsabile del processo di selezione degli investimenti. «Io svolgo una prima scrematura tra le candidature, quindi invitiamo quelle che riteniamo essere le più interessanti a presentarsi durante uno Storming pizza».Un appuntamento formale in un contesto informale, che vede quattro, al massimo cinque idee di business salire sul palco, e poi tutti condividono la pizza. Un momento più rilassato, durante il quale gli aspiranti imprenditori possono prendere direttamente contatto con gli investitori. Con l'obiettivo di convincerne uno a prendere sotto la propria ala lo start-up. In caso di esito positivo, vengono avviati incontri di approfondimento, quindi il progetto viene sottoposto  al comitato investimenti. Se ottiene l'approvazione l'impresa entra a far parte dell'incubatore, ricevendo tutti i servizi e i finanziamenti offerti. Ovvero un ufficio con connessione Internet, un consulente legale, un commercialista, un servizio di segreteria. E naturalmente il contributo economico. Ma pochi ce la fanno: sono solo 32 le imprese finanziate da H-Farm nei suoi sei anni di vita. In altre parole, tra tutte quelle presentate allo Storming pizza, solo un'idea su cento si trasforma in un'impresa.Nato nel 2005 a nel trevigiano, questo incubatore di impresa conta oggi due sedi internazionali, aperte nel 2009 a Seattle negli Stati Uniti e a Mombai in India, più una di rappresentanza a Londra. «Il nostro target è legato ad iniziative nell'ambito digitale, più specificamente alle nuove tecnologie orientate agli aspetti sociali e comunicativi», spiega Folonari. Non a caso, nel portfolio ci sono realtà come Grow the planet, un social network dedicato agli orticoltori, e Responsa, una sorta di enciclopedia delle domande, spazio collaborativo per accumulare conoscenza attraverso un servizio di Question&Answers, ovvero domande e risposte.L'attività svolta da H-Farm è una combinazione di finanziamento e di fornitura di servizi di accelerazione del business. Tra questi ultimi rientrano aspetti legati «all'amministrazione, la contabilità, la consulenza su aspetti legali, finanziari e sulla gestione del personale». L'ufficio stampa cerca poi di dare visibilità alle nuove imprese. Infine c'è il ruolo del mentor, colui che segue lo sviluppo dell'impresa dal suo ingresso nell'incubatore fino al distacco finale, che si concentra sul portare all'azienda clienti e possibili investitori. Questi servizi non sono gratuiti, ma richiedono il pagamento di un canone da parte delle realtà inserite all'interno della 'fattoria'. «Sostanzialmente, questa componente viene gestita in pareggio. Il vero business per noi arriva dalle exit delle società».H-Farm garantisce infatti alle imprese che entrano a far parte dell'incubatore un investimento a fondo perduto compreso tra i 30 ed i 300mila euro. Il finanziamento, erogato anche in più tranche, viene garantito per 12, al massimo per 18 mesi. Dopo tre anni di attività, «cediamo la nostra partecipazione nello start-up». Questo può avvenire sostanzialmente in due modi: o attraverso il coinvolgimento di un fondo, che garantisca un nuovo investimento, oppure con l'ingresso, nella neonata impresa, di un operatore industriale.  Per capire il funzionamento di questo meccanismo, e le dimensioni del giro d'affari, basti l'esempio di H-art, società fondata nel 2005 che si occupa di definire strategie di e-business: la cessione, avvenuta a febbraio del 2009, prevede un piano di pagamenti che, tra il 2012 ed il 2014, porterà nelle casse dell'incubatore di impresa una cifra compresa tra i 2 ed i 3 milioni di euro.Delle 32 le aziende che sono entrate a far parte della 'fattoria', ad oggi 5 sono arrivate al termine del loro percorso di sviluppo e sono state cedute, 2 sono fallite mentre le restanti 25 sono ancora nel portfolio di H-Farm. Ma altre ne arriveranno: è appena partito infatti lo Spring call 2012. Entro il 30 aprile chiunque avesse un'idea di business che rientri nel target di questo incubatore può presentare la propria candidatura. E prepararsi a convincere gli investitori, tra una fetta di pizza e l'altra.Riccardo SaporitiSe ti ha interessato questo argomento, leggi anche:- Imprenditoria giovanile, ecco chi la sostiene- Regione Piemonte, un milione di euro per chi sostiene i giovani imprenditoriE anche:- Ricerca e start-up, centinaia di opportunità di lavoro per giovani imprenditori e ricercatori- Prospettive per i giovani, in Italia si gioca solo in B e C. Per la serie A bisogna andare all'estero

Stage, nuove norme regionali: sì all'obbligo di rimborso in Toscana e Abruzzo, no in Lombardia

Alcune Regioni italiane dicono stop agli stage gratuiti, mentre in altre questa pratica continua ad essere legale. È la conseguenza paradossale della competenza regionale in materia di formazione, e quindi di tirocini formativi: a seconda della città dove un giovane fa il suo stage, già oggi può godere di differenti diritti. Primo tra tutti quello, importantissimo, di poter contare - o non contare - su un compenso per la sua prestazione. D'ora in poi dunque ci saranno stagisti di serie A, toscani o abruzzesi, che vedranno riconosciuto il valore del proprio tempo e impegno nell'ambito del tirocinio attraverso una gratificazione economica non più a discrezione del soggetto ospitante, ma garantita dalla legge; e stagisti di serie B, in Lombardia e altrove, che invece non potranno rivendicare nulla.Ad aprire la pista è stata la Regione Toscana [nella foto, il presidente Enrico Rossi], che già nel 2011 ha dato avvio all'iter per l'approvazione di una legge regionale che, tra le altre cose, introducesse per la prima volta in Italia, sul modello francese, l'obbligo di erogare un rimborso spese agli stagisti. Non a tutti a dir la verità: restano fuori i tirocini curriculari, quelli cioè svolti dagli studenti durante un percorso di studi (università, master, corsi di formazione). Ma la norma vale per tutti i tirocini extracurriculari. Dopo l'approvazione a fine gennaio della legge regionale che prescriveva «l’obbligo a carico dei soggetti ospitanti di erogare un importo forfetario a titolo di rimborso spese», in Toscana si è aperta la fase di redazione del regolamento che supporta questa legge dettagliando alcuni aspetti, tra cui appunto l'ammontare minimo del rimborso spese. «Per assicurare una adeguata tutela ai tirocinanti sono disciplinati gli obblighi e i compiti dei vari soggetti coinvolti nel rapporto di tirocinio, i diritti e gli obblighi dei tirocinanti, nonché i contenuti della convenzione stipulata fra il soggetto promotore e il soggetto ospitante» si legge nel testo, messo a punto nel corso del mese di marzo «ed è determinato l’importo forfetario a titolo di rimborso spese a carico dei soggetti ospitanti nella misura di 500,00 euro mensili lordi». Il 30 marzo il regolamento è stato pubblicato sul Burt (il Bollettino ufficiale della Regione Toscana), entrando in vigore il giorno successivo.E la Toscana ha già un emulo: anche la giunta regionale abruzzese ha recentemente emanato un documento con nuove «Linee guida per l'attuazione dei tirocini nella Regione Abruzzo». Il 12 marzo infatti, con la deliberazione n. 154, il presidente Gianni Chiodi (PdL) ha approvato oltre alle linee guida un allegato in cui al punto 1.16 («Facilitazioni benefici e rimborsi spese») è previsto che «Il soggetto ospitante deve garantire al tirocinante un rimborso spese il cui ammontare non può essere, in ogni caso, inferiore ad euro 600,00 mensili». Con una ulteriore aggiunta: «L'ammontare di tale rimborso deve essere comunque idoneo a coprire tutti i costi di trasporto sostenuti con mezzi pubblici per raggiungere la sede del tirocinio nonché il costo sostenuto dal tirocinante per il vitto, l'alloggio ed altre spese varie connesse al tirocinio».   Ma la regione che in assoluto ha più stagisti di tutta Italia è la Lombardia: da sola nel solo 2011 ne ha ospitati più o meno 90mila, sommando i 65mila "certi" delle imprese private - censiti ogni anno da Unioncamere Excelsior - a una stima di 10-20mila negli enti pubblici e di almeno 7mila nelle associazioni non profit. Un sesto degli stagisti di tutta Italia sono dunque in questa Regione, eppure la giunta guidata da Roberto Formigoni [nella foto insieme all'assessore al lavoro Gianni Rossoni] non ha ritenuto di doverli proteggere dallo sfruttamento. Approvando proprio nei giorni scorsi (il 20 marzo) un regolamento che, oltre a riportare a ben 12 mesi la durata massima dei tirocini extracurriculari (che invece il governo Berlusconi ad agosto, con l'art. 11 del decreto legge 138, aveva ridotto a 6) e a riparametrare la proporzione tra stagisti e dipendenti comprendendo tra questi non solo gli assunti a tempo indeterminato ma anche  i lavoratori «a tempo determinato o con contratto di collaborazione non occasionale della durata di almeno 12 mesi, i soci lavoratori o liberi professionisti associati», ignora completamente la questione della sostenibilità economica degli stage per i giovani. Tanto che c'è un solo riferimento al rimborso spese, nella parte dedicata alle convenzioni, dove si dice che esse che devono «prevedere obbligatoriamente le regole di svolgimento del tirocinio nonché i diritti e i doveri di ciascuna delle parti coinvolte, ivi compresa la previsione del valore del rimborso spese o indennità di partecipazione eventualmente spettante al tirocinante». Eventualmente.«I suggerimenti che i sindacati avevano formulato in via unitaria per migliorare il testo sono stati ignorati» si rammarica Fulvia Colombini, segretaria Cgil Lombardia, al telefono con la Repubblica degli Stagisti: «E non si pensi che il fatto di non aver previsto un compenso obbligatorio a favore degli stagisti, come invece è stato fatto in altre regioni, sia stata una dimenticanza: si tratta di una precisa scelta politica». Una scelta che condanna quindi le decine di migliaia di stagisti che svolgono periodi formativi in Lombardia a restare alla mercé dei soggetti ospitanti (aziende private, enti pubblici, organizzazioni non profit), che potranno continuare a decidere autonomamente se erogare un compenso oppure no.Per evitare questa leopardizzazione dei diritti, specialmente in una fase delicata come quella della transizione dalla formazione al lavoro, la Repubblica degli Stagisti si appella ancora una volta al ministro Fornero e al viceministro Martone. È più che mai necessaria e urgente una definizione di standard minimi nazionali per la gestione dei tirocini, a cominciare dall'introduzione di un rimborso spese obbligatorio (e non solo per i tirocini extracurriculari, ma anche per quelli curriculari). Nel testo-bozza di riforma, che in questi giorni il governo sta trasformando in un vero e proprio ddl su cui poi Camera e Senato saranno chiamati a pronunciarsi, si legge che il governo Monti ha intenzione di elaborare «misure rivolte a delineare un quadro più razionale ed efficiente dei tirocini formativi e di  orientamento, al fine di valorizzarne le potenzialità in termini di occupabilità dei giovani e prevenire gli abusi, nonché l’utilizzo distorto dell’istituto, in concorrenza con il contratto di apprendistato. Ciò tramite la previsione di linee guida per la definizione di standard minimi di uniformità della disciplina sul territorio nazionale». Ma bisogna dire al più presto in cosa il governo pensa di far consistere queste linee guida, se pensa per esempio di includere anche l'obbligatorietà di un rimborso spese minimo a favore degli stagisti, o il divieto di fare stage extracurriculari. Altrimenti le Regioni continueranno a legiferare ognuna per conto proprio, come già hanno iniziato a fare, condannando i giovani alla pessima prospettiva del "città che vai, diritti che trovi".Eleonora VoltolinaPer saperne di più leggi anche:- Tirocini, il costituzionalista: «Lo Stato potrebbe fare una legge quadro»- Riforma del lavoro, il testo apre a nuove linee guida nazionali sugli stage- La Toscana approva la nuova legge sugli stage: per la prima volta in Italia il rimborso spese diventa obbligatorioE anche:- Stage in Sicilia, primo passo verso la legge di iniziativa popolare- Chi c'è dietro la nuova legge della Regione Toscana sugli stage? Un gruppo di ventenni

Emergenza stage anche in Usa, un giornalista si chiede: come sarebbe un mondo senza più stagisti?

Cos’è esattamente uno stage e che impatto ha sulla nostra vita? Le conseguenze economiche politiche e sociali degli internship per chi li fa e per tutti gli altri sono al centro del libro Intern nation: how to learn nothing and earn little in the Brave new economy di Ross Perlin, pubblicato pochi mesi fa dalla Verso [nell'immagine a destra]. Perlin è un giornalista e scrittore newyorkese 29enne. Dopo aver studiato a Princeton, Tsinghua University e Stanford, sta ora svolgendo in Cina ricerche per la sua tesi di dottorato in linguistica alla University of London.Intern nation, un libro sorprendentemente simile a quello scritto in Italia nel 2010 da Eleonora Voltolina (La Repubblica degli Stagisti – Come non farsi sfruttare, edizioni Laterza) nasce da un’inchiesta durata tre anni su una pratica dilagante e non regolamentata che solo in America coinvolge ogni anno da uno a due milioni di giovani. «Ho scritto questo libro per esplorare un unico tema: gli stage sono un nuovo modo di lavorare, una pratica recente e dinamica con enormi conseguenze per l’istruzione superiore, l’accesso al mondo dei colletti bianchi, l’ineguaglianza sociale e il futuro del mondo del lavoro».L’internship è un fenomeno storicamente recente (i primi negli Stati Uniti apparvero all’inizio del secolo scorso ed erano dedicati agli studenti di medicina) ma utilissimo per le industrie dato che fa loro risparmiare ogni anno 600 milioni di dollari. Infatti per un’azienda mettere in piedi un programma di stage significa «una continua fornitura di lavoratori specializzati e non pagare contributi e costi d’assunzione». Questo tipo di internship è però illegale secondo il Fair labor standars act, la legge che regola i rapporti professionali negli Stati Uniti. Come da noi, anche in America può non essere previsto un rimborso spese a favore del tirocinante, a patto che si offra formazione. Ma solo ed esclusivamente formazione: senza insomma che lo stagista diventi produttivo. Il punto è che pochi conoscono questa legge e che non c’è controllo; secondo Perlin [nella foto], «il non rinforzare il FLSA da parte del governo rientra in un disegno più grande di lasciar decadere le protezioni del New deal in nome della deregolamentazione del mercato del lavoro». «Il fallimento di misurare od occuparsi del problema dell’esplosione degli stage è sintomatico» continua l’autore: «semplicemente leggi e regolamenti non sono al passo con i tempi. L’indifferenza dei sindacati rivela la loro apatia e la loro mancanza di una posizione solida nel mondo dei colletti bianchi».Non vigilano neanche le università americane, pur obbligando i propri studenti a fare internship per potersi laureare (nel 1992 solo il 17% dei laureati aveva fatto uno stage, quindici anni dopo erano già il 50%); e ormai sotto questa etichetta si trova di tutto. L’occasione è troppo ghiotta perché le aziende se la lascino sfuggire - specie in periodo di crisi economica. Così Perlin descrive come un colosso del calibro della Disney grazie al suo College program ogni anno riesca reclutare ben 8mila studenti. Questi ragazzi sciamano da tutti gli Stati Uniti verso i famosi parchi divertimenti, dove si trovano a fare i commessi, servire hamburger e patatine ai turisti o raccogliere immondizia. La formazione che si ottiene è di tale pochezza che molti abbandonano il programma prima della fine - ma migliaia di altri continuano a iscriversi, incantati dalla possibilità di mettere nel curriculum il nome di un’azienda prestigiosa.Perlin immagina un mondo senza internship: negli uffici non ci sarebbe nessuno a fare fotocopie, portare il caffè o gestire la posta, le associazioni no profit dovrebbero scegliere se destinare fondi a un impiegato o a una buona causa, i politici si troverebbero senza portaborse… Se però è indubbio che governi e università devono vigilare e iniziare a considerare gli stagisti come lavoratori, anche i ragazzi per primi devono cambiare mentalità e rendersi conto della propria importanza. Pretendere gli stessi diritti degli impiegati li aiuterebbe a farsi valere in tribunale contro ditte scorrette e otterrebbero benefit come l’assicurazione medica, fondamentale in un regime di sanità privata come quello americano. Cresciuti con l’idea che l’internship sia necessario per laurearsi e lavorare, spesso si sentono fortunati quando ne ottengono uno anche senza rimborso. Invece è necessario non accontentarsi e pretendere una giusta paga, non solo per sé ma anche per tutti quelli che sono stati licenziati e sostituiti da stagisti e per chi l’internship non la può fare perché deve mantenersi. Idealmente riuniti in un’associazione internazionale, Perlin spera in uno sciopero mondiale che faccia capire a tutti e agli stagisti per primi quanto siano fondamentali oggi nell’economia.Valentina NavonePer saperne di più su questo argomento leggi anche gli articoli:- Nicola Zanella, autore del libro "Il brainstorming è una gran caxxata": «Gli stage servono a far lavorare gratis la gente» - La Repubblica degli stagisti di Eleonora Voltolina- Stage gratuiti o malpagati, ognuno può fare la sua rivoluzione: con un semplice «no»

Donne e libere professioni, un binomio ancora difficile

Correva l'anno 1919 e per la prima volta le donne venivano ammesse all'esercizio delle libere professioni e al pubblico impiego. È passato quasi un secolo - e che secolo - eppure la strada per la piena affermazione lavorativa della donna è ancora lunga. Tra i dieci ordini nazionali con più iscritti, nel 2011 solo uno - quello dei consulenti per il lavoro - è stato presieduto da una donna, Marina Calderone [sotto, durante la cerimonia di insediamento]: con un consiglio, però, tutto al maschile. Il testo di  riforma sulle libere professioni, parte della più ampia legge di conversione sulle liberalizzazioni definitivamente approvata la settimana scorsa dal Parlamento, del resto non apre spiragli di cambiamento: nessuna misura ad hoc per incentivare il lavoro delle libere professioniste. Una buona occasione per riparlare, a dispetto del principio dell'ubi maior minor cessat, di una questione nella questione: «Libere professioni al femminile» (Palomar, 78 pagine) di Letizia Carrera, 42 anni, da dieci ricercatrice in Sociologia all'università di Bari, che zooma nel mondo del lavoro femminile alla ricognizione dei punti di criticità e dei mutamenti nel mondo delle partite iva in rosa. Avvocate (perché «intervenire sul "sessismo linguistico" significa incidere sulla realtà stessa»), commercialiste, architette, consulenti per il lavoro, giornaliste, ingegnere, psicologhe: oggi le giovani donne italiane in teoria posso fare il mestiere che vogliono. Sì, ma a quale prezzo?«Ho sempre la figura di una moneta, che gira e gira su se stessa, e bisogna solo sperare che non cada, perché da una parte c'è la carriera e dall'altra la vita familiare»: così racconta un'avvocata, una delle ottanta voci femminili raccolte nel libro. Che è appunto frutto di una ricerca sul campo, commissionata al comitato Pari opportunità dell'università di Bari dalla consigliera regionale di parità Serenella Molendini e condotta in Puglia tra il 2010 e il 2011. La Carrera, membro del comitato ed esperta di questioni di genere (ha firmato anche «Donne e lavoro» e «Le donne distanti. Tempi luoghi modi della partecipazione politica») incrocia dati teorici e dati empirici di prima mano per evidenziare i maggiori freni all'affermazione delle donne in questo particolare segmento del settore autonomo. Come per tutto il mondo del lavoro, il sesso tutt'oggi influenza le scelte formative, scrive Carrera. Se tra gli iscritti all'albo nazionale degli psicologi oltre l'80% sono donne (ma a presiedere il consiglio è un uomo, e uomini sono anche vicepresidente, tesoriere e segretario), tra gli ingegneri la percentuale crolla al 12. Poco meglio le avvocate, solo il 19% del totale, e le commercialiste, meno di un terzo. Insomma, le donne continuano a studiare per fare mestieri da donna, più compatibili con l'immagine sociale di caregiver, titolare del lavoro di cura e dell'assistenza, che con quella maschile di breadwinner: chi, letteralmente, porta il pane a casa. Del resto, meno tempo per il lavoro vuol dire meno guadagni, e anche nel settore autonomo il gender pay gap - il differenziale salariale tra uomini e donne - è una realtà. «La libera professione ti occupa tutta la giornata, non stacchi mai. Appena ho avuto l'opportunità sono passata in azienda» racconta una programmatrice, che si è così sollevata anche dall'onere di costruire e mantenere un pacchetto clienti, elemento cruciale di una qualsiasi libera professione. Per il quale la diffidenza maschile è tutt'altro che un lontano ricordo: «Mi chiedono di fare un lavoro ma poi non lo posso firmare, perché mi dicono che il committente vuole un uomo» afferma un'ingegnera. Non mancano comunque le voci fuori dal coro, come quella di una giornalista (nubile) secondo cui è «solo una questione di volontà. Se uno vuole farcela ce la fa! A volte penso che questa cosa delle donne sia un alibi». Se però il cliente scappa durante un'astensione obbligata per maternità (obbligata dalle circostanze, non certo dalla legge), altro che alibi. In fatto di figli, sono le libere professioniste più di tutte ad autoimporsi un aut aut: «Le donne si trovano a dover scegliere e quindi scelgono. Se ci tieni al lavoro non c'è spazio per altro, figurati per i figli. Rischi solo di essere una cattiva madre e di non riuscire neanche bene nel lavoro» riassume un'ingegnera 45enne. O, di rinvio in rinvio, il "momento giusto" passa («Non c'era tempo allora e ora ovviamente è tardi!» esclama una psicologa 48enne). Ma quanti neo papà, ad esempio, chiedono il congedo? Il ddl di riforma del mercato del lavoro approntato lo scorso venerdì dal ministro Fornero - o meglio, ministra - lo prevede in maniera obbligatoria per tutti i padri lavoratori al capitolo 7 ("Interventi per una maggiore inclusione delle donne nella vita economica"), per «favorire una cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli all’intero della coppia». Congedo obbligatorio, dunque, ma flash: solo tre giorni, contro il suggerimento dell'Europa che in più occasioni ha ipotizzato due settimane. Meglio poco che niente? In questo caso forse sì.La parità è sicuramente lontana ma, del resto, è solo parte della soluzione. Come sottolinea la consigliera Molendini, bisogna andare oltre: rivoluzionare il modello stesso di lavoratore e lavoratrice. Lavoro di cura e lavoro retribuito per il mercato non sono realtà conflittuali da tenere in equilibrio, ma parte di un tutto, per entrambi i sessi. Un "doppio sì" è possibile - sì alla maternità e alla paternità, sì al lavoro - ma solo a patto che lo Stato si faccia carico di serie misure di welfare, perché le esigenze di una nuova famiglia devono poter trovare risposta anche al di fuori delle vecchie famiglie, quelle d'origine dei genitori. Un aiuto prezioso, che non tutti però hanno la fortuna di avere.  Annalisa Di PaloPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Per risollevare l'economia bisogna ripartire dalle donne- L'apartheid del lavoro italiano al vaglio della Commissione europea: le ragioni di una denuncia- Sempre più numerosi i giovani che aprono la partita Iva: i consigli dell'esperto Dario Banfi a tutti gli aspiranti freelance