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Come può un cittadino straniero fare uno stage in Italia? Servono visto e permesso di soggiorno

“Vorremmo prendere un giovane in stage, lo abbiamo selezionato, ha molto talento ma... È americano”. Oppure indiano. O congolese. Insomma, non è un cittadino europeo. E qui si apre una voragine che rischia di inghiottire azienda e giovane, facendo sfumare l'opportunità di formazione. Già infatti non è facilissimo orientarsi in Italia, per chi voglia accogliere uno stagista, nel labirinto delle 21 normative regionali in materia di tirocini extracurricolari.Quando poi il candidato è straniero, le difficoltà aumentano; e di fronte a uno straniero residente al di fuori dell'Unione Europea, molti gettano la spugna perché la complessità delle procedure burocratiche e l'incertezza rispetto alle tempistiche diventa altissima.Come fare? Il ministero del Lavoro viene in aiuto del mondo aziendale e degli aspiranti stagisti stranieri con un vademecum per l’attivazione dei tirocini formativi rivolti ai cittadini stranieri residenti all’estero.Il documento, prodotto della Direzione Generale dell’Immigrazione e delle politiche di integrazione con il contributo di Anpal Servizi e consultabile nella sezione “Tirocini formativi” del portale istituzionale del Ministero del Lavoro, si propone di spiegare l’armonizzazione delle discipline territoriali in continuità con le “Linee guida in materia di tirocini per persone residenti all’estero” approvate nel 2014. Uno strumento informativo sul funzionamento e le potenzialità di questi che sono occasioni per realizzare un’esperienza professionalizzante a completamento di un percorso di formazione già avviato nel proprio Paese di origine e facilitare l'inserimento nel mondo del lavoro di tutti i cittadini di uno Stato non appartenente all’Unione Europea e residenti in un Paese terzo. Per lo straniero non comunitario già presente in Italia con un regolare permesso di soggiorno che abilita al lavoro valgono le stesse regole e condizioni previste per i tirocini formativi organizzati per gli italiani. Uno straniero non comunitario che invece si trova all'estero e che vuole attivare nelle aziende del nostro Paese un tirocinio deve, prima di tutto, rivolgersi alle Rappresentanze diplomatico-consolari italiane del Paese dove risiede per richiedere un visto di ingresso per motivi di studio/formazione, documento necessario per avviare la procedura che poi consentirà di svolgere il tirocinio. La procedura, che viene spiegata nel dettaglio sul vademecum e sul sito del Ministero, può richiedere fino a 90 giorni dalla data della richiesta del documento. Né il documento né il sito del ministero e dell’Inps indicano eventuali costi; sono però specificati i requisiti necessari per ottenere il visto. Tra questi c’è «la disponibilità dei mezzi di sussistenza» che deve essere comprovata «facendo riferimento al vitto, alloggio e all’indennità di partecipazione corrisposti al tirocinante».  Il tirocinio può essere attivato solo per determinati tipi di lavoro. Nel documento sono indicate le attività escluse che sono quelle per le quali non sia necessario un periodo formativo, le professionalità elementari caratterizzate da compiti generici e oppure le attività riconducibili alla sfera privata, come il lavoro domestico o quello della cura della persona svolto in un ambito familiare. Ogni tirocinio, come si legge nel vademecum, può avere una durata da un minimo di tre a un massimo di dodici mesi, comprese eventuali proroghe secondo quanto previsto dalla normativa regionale di riferimento. Una normativa piuttosto articolata. Alle regioni infatti spetta il compito di regolare tutto quello che riguarda la formazione professionale, in conformità con le Linee guida del 2014. L’ingresso in Italia dei soggetti coinvolti invece è disciplinato a livello nazionale dal Testo Unico dell’Immigrazione secondo cui un cittadino non appartenente all’Ue può entrare nel nostro Paese per fare un tirocinio extracurriculare “nei limiti del contingente triennale”. Limite che per il triennio 2020-2022 è stato di 7.500 unità in totale.La procedura di ingresso coinvolge diverse amministrazioni, ognuna con competenze diverse. Regioni e Province Autonome stabiliscono l’attuazione e la gestione dei tirocini, avvalendosi della Piattaforma informatica prevista dalle Linee guida 2014, dove inseriscono i dati del tirocinante e del progetto, che sono necessari al successivo rilascio del visto di ingresso e del permesso di soggiorno. Il primo è concesso dal ministero degli Esteri, il secondo da quello dell’Interno.  Il ministero del Lavoro invece monitora i dati relativi agli ingressi per tirocinio, ai fini della determinazione del contingente triennale.Ad essere coinvolte nel progetto, ovviamente, anche le strutture dove materialmente si svolge il tirocinio, che possono essere aziende, imprese e università sia pubbliche che private. “Soggetti ospitanti” che devono avere determinati requisiti: essere in regola con la normativa sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro e con le norme sul collocamento obbligatorio e non devono avere procedure di cassa integrazione straordinaria o in deroga in corso. Inoltre non si possono organizzare tirocini «per l’espletamento da parte del tirocinante di attività che rientrano tra quelle per cui l’azienda ha avviato, nella medesima unità operativa e nei 12 mesi precedenti, licenziamenti» oppure «in presenza di procedure concorsuali, salvo il caso in cui ci siano accordi con le organizzazioni sindacali che prevedono tale possibilità».Per i tirocinanti non sono previsti determinati requisiti, ma sono stabiliti però dei limiti entro i quali devono svolgere il tirocinio. Nel dettaglio, il tirocinante non può «sostituire il personale in malattia, maternità o ferie» e non può «svolgere più di un tirocinio» nella stessa azienda. Ha diritto a una indennità di partecipazione, il cui minimo viene stabilito dalle normative regionali, e alla copertura delle spese di vitto e alloggio a carico del soggetto ospitante. Oltre a corrispondere l’indennità, quindi, il soggetto ospitante è tenuto non solo ad assicurarsi che i suoi stagisti extraUE abbiano un alloggio, ma anche a pagarglielo. Il permesso di soggiorno per motivi di studio / tirocinio inoltre consente al tirocinante extra Ue di svolgere, per il periodo di validità, qualsiasi attività lavorativa nel limite di 20 ore settimanali, in aggiunta al tirocinio. Ma come si svolge nello specifico la procedura per l’attivazione del tirocinio? Si tratta di un procedimento abbastanza complesso. Dopo l’identificazione di tutti i soggetti coinvolti (promotore, ospitante e tirocinante), la documentazione viene inviata alla Regione di competenza che può approvare o rifiutare il progetto. Se il progetto viene approvato, il tirocinante riceve nel suo Paese tutti i documenti e, successivamente, compila e invia quelli necessari per la richiesta del visto.Accettato il visto, il tirocinante entra in Italia e richiede il permesso di soggiorno, che è appunto un documento diverso e ulteriore che serve per poter fare il tirocinio nel nostro Paese. Quello che lo straniero ottiene al consolato italiano del suo Paese non è dunque il documento “definitivo” che gli permette di stare in Italia. La persona straniera che ha ottenuto il rilascio del visto di ingresso ha l’obbligo, entro 8 giorni dal suo ingresso in Italia,  di richiedere il permesso di soggiorno per motivi di tirocinio alla Questura della Provincia in cui si trova. Nello specifico deve compilare e inviare alla Questura territorialmente competente un apposito modulo, reperibile gratuitamente presso tutti gli uffici postali, i Comuni e i Patronati. Una volta ottenuto anche il permesso di soggiorno può iniziare il suo tirocinio. Questo significa che finché lo straniero non ha il permesso di soggiorno non può iniziare il tirocinio, e dunque non parte la “responsabilità” del suo soggetto ospitante rispetto all'indennità mensile e al vitto e alloggio.Al termine del tirocinio, il cittadino extra Ue che sia in possesso di un permesso di soggiorno per studio / formazione ancora valido può richiederne la conversione in permesso di soggiorno per motivi di lavoro. La conversione potrà avvenire nei limiti delle “quote” assegnate, di anno in anno, agli Ispettorati territoriali del lavoro dal cosiddetto “decreto flussi”, che definisce modalità e tempistiche.E in effetti accade spesso: il maggiore utilizzo delle conversioni dei permessi di soggiorno per qualsiasi motivo si riscontra nelle conversioni dei permessi di soggiorno per studio, tirocinio e/o formazione in permesso di soggiorno per lavoro subordinato: 26,7% nel 2021, secondo il report pubblicato sul sito del ministero del lavoro. Percentuale che conferma come il tirocinio in Italia di cittadini stranieri sia un meccanismo potenzialmente efficiente di incontro domanda-offerta e possa consentire, inoltre, di sperimentare la mobilità circolare dei lavoratori e lo scambio di competenze tecniche e professionali tra sistemi produttivi, a sostegno di processi di innovazione e di complementarità produttive. Ma la burocrazia rischia di strozzarlo.Luisa Urbani

Anche Fiera Milano tra le aziende virtuose dell'RdS network: «Vogliamo investire sui giovani e sul loro talento»

Tutti conoscono il Salone del Mobile di Milano, oppure MiArt, o ancora lo Smau incentrato su innovazione e startup, Bit la Borsa internazione del turismo, o Milano Unica per il settore tessile… non tutti però conoscono chi sta dietro la titanica organizzazione di eventi del genere. Tra le organizzazioni che nel 2022 sono entrate a far parte del network della Repubblica degli Stagisti c’è proprio questa azienda: Fiera Milano. Attiva nel campo nell'organizzazione di manifestazioni fieristiche, congressi ed eventi che spaziano in tutti i settori - moda, sistema casa, meccanica strumentale, turismo, ospitalità professionale, agroalimentare, sicurezza, trasporto commerciale, arte e nautica… - Fiera Milano gestisce 4 milioni e mezzo di visitatori ogni anno distribuiti in 80 manifestazioni in Italia, 160 eventi, e 36mila espositori. Fa tutto questo contando sui suoi 600 dipendenti, praticamente tutti assunti a tempo indeterminato, e ospitando anche ogni anno alcune decine di stagisti.«La decisione di aderire alla Repubblica degli Stagisti è stata dettata dalla volontà di potenziare il nostro bacino di neolaureati» spiega Elisabetta Ramponi, che dal dicembre del 2021 è Head Talent Acquisition & Employer Branding del Gruppo Fiera: «Noi ricerchiamo sopratutto economisti e ingegneri. Sulla specializzazione degli ingegneri spaziamo: elettronici, edili, civili… Siamo aperti. Cerchiamo persone da far crescere all’interno della nostra struttura». Talvolta si aprono anche posizioni adatte a candidati con background umanistici, per esempio laureati in Lingue oppure in Lettere: «Se la persona deve andare a fare il suo stage in una segreteria, va bene la laurea in Lettere; ma se invece deve andare a fare un computo metrico degli appendimenti americani dobbiamo per forza prendere un economista. Dipende dalla famiglia professionale, talvolta servono specifiche skills e un background accademico particolare». L’aspetto imprescindibile è la conoscenza dell’inglese a un livello fluente: «Se un candidato ha fatto l’Erasmus in un Paese anglofono ben venga, ma non è un requisito essenziale». La procedura di selezione prevede un primo step con una phone interview, un’intervista telefonica che serve al team HR per filtrare e individuare le candidature più interessanti: se si passa questo primo filtro c’è un colloquio con Elisabetta Ramponi e l’HR business partner di riferimento della “linea”, e a volte anche un assessment. «I tempi dipendono da come si incastrano le agende» scherza Ramponi. Solitamente l’intero iter dura qualche settimana: «Ci diamo sempre un kpi metodologico, ma se a un certo punto c’è il Salone del Mobile non possiamo fissare nessun colloquio al manager!»Una volta selezionato, lo stagista viene assegnato a una delle “divisioni”, ciascuna delle quali si occupa di uno specifico filone di attività. «Noi per esempio facciamo smartworking a seconda delle famiglie professionali» racconta Elisabetta Ramponi: «L’IT ha dei giorni di smartworking, il marketing ne ha altri, l’HR ne ha altri: e gli stagisti seguono questo ritmo, sono in presenza quando gli altri sono in presenza, e svolgono le attività da casa nei giorni di smart working».La policy di Fiera Milano prevede una indennità mensile di 700 euro per tutti gli stagisti, sia curriculari sia extracurriculari, e in più la mensa aziendale e la possibilità di accedere gratis a tutte le manifestazioni. «I nostri stage durano 6 mesi più ulteriori 6; non prendiamo tantissimi stagisti, una cinquantina all’anno», escludendo ovviamente gli anni del Covid che hanno impattato moltissimo sulle attività fieristiche, bloccando a lungo le attività. «Lo stagista per noi è colui che non ha esperienza. Lo inseriamo in un cammino, gli assegniamo un mentor che lo accompagna nel percorso di training formativo, facciamo trimestralmente dei colloqui di feedback; e alla fine dello stage, se abbiamo l’headcount e se si è formato bene, valutiamo l’assunzione». «Alcuni stage sono a scopo di assunzione e altri no» specifica Ramponi, anche perché in Fiera Milano esiste in contemporanea anche un filone di assunzione diretta: «Abbiamo molte posizioni aperte “permanent” che sono aperte a candidati giovani». Questo vuol dire profili anche under 30, con qualche anno esperienza alle spalle, a cui possono essere proposti direttamente contratti di lavoro (e con stipendi molto interessanti, a partire da 30mila euro all’anno di Ral): «Per noi questi sono profili junior, specialist con tre anni di experience, maturata anche attraverso stage».Per trovare i candidati giusti Fiera Milano si muove «soprattutto attraverso LinkedIn e con ricerca diretta, cercando di attingere ai nostri atenei milanesi, che sono tanti e anche di grande prestigio!». Ai giovani Fiera Milano promette un ambiente di lavoro con «un ottimo balance tra uomini e donne» e la volontà di «investire su di loro e sul loro talento: sono il nostro futuro».

Niente assunzione dopo lo stage, la sentenza: per rivendicare un contratto bisogna avere le prove

Quando uno stage è in realtà un lavoro mascherato, e però poi alla fine del percorso formativo lo stagista viene lasciato a casa, si può provare a far causa: a portare in Tribunale la situazione e cercare di far attestare da un giudice che la collaborazione con l'azienda in questione non aveva i parametri dell'esperienza formativa, bensì quelli del lavoro subordinato. Per farlo, però, è necessario avere in mano delle prove che attestino tutto questo, perché deve essere l’ex stagista a dimostrare tutto.Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha chiarito i limiti di intervento nel caso si voglia intraprendere un’azione legale per richiedere un’assunzione nell’azienda in cui si è svolto uno stage, poi non concretizzato in un posto di lavoro. La sentenza è la numero 25508 del 30 agosto 2022 e arriva a diciotto anni dai fatti giudicati, che risalgono al 2004, quando la disciplina sui tirocini era peraltro un po' diversa da quella attuale. Con questa sentenza la Corte stabilisce che spetta al soggetto che intende rivendicare in giudizio l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato l’onere di fornire gli elementi di fatto corrispondenti alla fattispecie astratta invocata.«Quando si va davanti a un giudice si devono portare le prove: vinco una causa se convinco il giudice. E per convincerlo della subordinazione devo dimostrare che si è verificata», spiega alla Repubblica degli Stagisti Antonio D’Amore, professore a contratto di diritto del lavoro presso l’Università Bicocca a Milano: «Devo, quindi, dimostrare che nei comportamenti del datore di lavoro e in questo caso dello stagista si è verificata la subordinazione. Che c’è stato l’assoggettamento ai poteri datoriali, quindi il potere di specificare cosa devi fare, quando, dove. Che sia stato esercitato il potere di controllo del datore di lavoro, ovvero che i compiti siano stati svolti sotto le indicazioni dei superiori, e se questo non è avvenuto che sia stato applicato il potere sanzionatorio, cioè il diritto del capo di richiamarti. Sono compiti che il datore di lavoro esercita normalmente sul lavoratore subordinato e la Cassazione ha ribadito proprio questo concetto».Per capire il caso bisogna tornare indietro di qualche anno, precisamente al 2004, quando uno studente di un master universitario inizia uno stage di tre mesi, poi prorogato fino a un totale di dieci mesi di tirocinio, presso l’Aquedotto Pugliese spa, per “acquisire conoscenza reale delle funzioni dell’ufficio del personale”. Diciotto anni fa la disciplina in materia di tirocini non era quella attuale e il dibattito su una sua eventuale regolamentazione era cominciato da relativamente poco tempo.Il testo a cui si rifà questo stage è il decreto ministeriale 142 del 1998, tuttora in vigore, che seguiva alla legge Treu dell’anno precedente, e in cui già all’articolo 1 si precisava che i tirocini formativi e di orientamento servono per agevolare le scelte professionali ma non costituiscono rapporti di lavoro. Come i giudici precisano nella sentenza della Cassazione, lo stesso decreto dell’epoca prevedeva una durata non superiore ai dodici mesi per gli stage per gli studenti universitari, compresi coloro che frequentano corsi di perfezionamento o specializzazione, in cui rientra il caso specifico del giovane ricorrente che stava svolgendo un master presso l’università di Bari. Quindi formalmente tutto regolare: nessuna violazione della normativa per quanto riguarda la durata del tirocinio.  Quasi sette mesi dopo la fine dello stage curricolare – anche se è bene ricordare che nel 2004 non c’era nessuna differenza a livello normativo tra curricolari ed extracurricolari – dopo aver scoperto che un collega stagista era stato assunto a tempo determinato, l’ex tirocinante presenta «un’istanza di convocazione per un eventuale rapporto di collaborazione professionale e/o lavorativa». In pratica chiede all'azienda di essere convocato per farsi assumere. Non ricevendo risposta presenta una nuova domanda quasi un anno dopo, nel 2006, che viene respinta dalla società. A quel punto il giovane ritenendo, invece, che la sua assunzione fosse dovuta, avvia un procedimento giudiziale davanti al Tribunale, poi proseguito in Corte di appello fino ad arrivare in Cassazione.I giudici di primo e secondo grado sono stati concordi nel rigettare la richiesta dell’ex stagista, visto che in sede di istruttoria non era emerso nessun indice che mostrasse la subordinazione. Giudizio confermato in seguito anche dalla Corte di Cassazione, che spiega come dovesse essere il tirocinante a fornire gli elementi “corrispondenti alla fattispecie astratta invocata”. Legalese che in soldoni vuol dire che spettava all’ex stagista in fase di ricorso dimostrare perché il suo rapporto con l’ente ospitante in realtà era assimilabile a un rapporto di lavoro subordinato.«Nel momento in cui si comincia una causa e, in questo caso, si invoca la subordinazione, bisogna dimostrarla. I giudici per prima cosa chiedono alle parti “Come vi siete comportati?” Questo perché davanti al giudice dovrebbero dire la verità e l’articolo 1362 del codice dice che “il comportamento delle parti integra l’interpretazione del contratto”. Quindi nel loro comportamento effettivo le parti mostrano realmente quello che intendevano», spiega il professor D’Amore. «Se questo stagista non ha provato i poteri datoriali, l’assoggettamento al datore di lavoro che si è verificato nei fatti e nei comportamenti è ovvio che la Corte dica no, non ti posso riconoscere la subordinazione». Il professore aggiunge: «Da questa sentenza si legge che il giudice in primo grado ha interrogato il tutor e il responsabile del personale, quindi persone interne all’azienda in cui c’era lo stagista. Molto probabilmente non avranno avvalorato, né avevano interesse a farlo, la tesi dello stagista. E la Corte ribadisce che è giudice di legittimità, quindi non può valutare il merito della questione che va valutata in primo e secondo grado. E, infatti, va a rivedere le due precedenti sentenze e stabilisce che il ragionamento logico giuridico fatto dai giudici è fondato e per questo respinge il ricorso».Un altro punto che il professor D’Amore sottolinea è che dalle carte si legge che il giovane ex stagista, terminato il periodo regolare di stage presso l’Acquedotto pugliese, aveva pensato di chiedere un colloquio per essere assunto «perché era venuto a conoscenza che un’altra stagista era stata assunta a tempo determinato. Questa è la chiave di volta: essere assunti a tempo determinato dà una precedenza nelle assunzioni successive a tempo indeterminato, cosa che non dà invece l’aver fatto il tirocinio. Lo stagista, infatti, non ha neanche un contratto, la sua è una convenzione finalizzata alla formazione seppure sul luogo di lavoro. Da qui dobbiamo partire». Il fatto che l'altra stagista avesse avuto un contratto a tempo determinato per un periodo superiore ai sei mesi «secondo quanto previsto dal decreto legislativo 368 del 2001 che all’epoca era in vigore» avrebbe dato poi a questa ex stagista assunta a tempo una «legittimazione a invocare il diritto di precedenza alle assunzioni a tempo indeterminato, come poi forse è avvenuto quando l’acquedotto pugliese ha bandito il concorso seguente». Ma come siano andate poi le cose non è sicuro: «Dalla sentenza di Cassazione questo non lo sappiamo».C’è un ulteriore tassello da aggiungere, per quanto sia banale: il fatto che un’azienda abbia assunto post stage un tirocinante e non un altro non ha alcun valore a livello giudiziario, si tratta di una scelta legittima che ciascun datore di lavoro può fare autonomamente e come tale non può essere invocata come “dimostrazione” che avrebbe dovuto essere assunto anche lui. «Dipende dalla libertà negoziale delle parti, se non è piaciuto, non è stato assunto e non ha diritto poi ad alcuna precedenza. È stato lì per un anno, tanto tempo, se alla fine non è stato ritenuto idoneo ecco che non è stato assunto», spiega D’Amore. E, infatti, la Cassazione stabilisce nella sentenza, «È irrilevante che una collega abbia ottenuto un contratto a tempo determinato dopo la fine del tirocinio» soprattutto se il ricorrente non prova l’esistenza degli indici già richiamati». Ed è proprio riguardo alla presenza di questi elementi che il professor D’Amore lancia un monito: «Quando nel corso di un rapporto che subordinato non è, che può essere uno stage o una collaborazione coordinata, si ha sentore che le cose non stanno andando bene, munitevi delle prove, che siano documentali e testimoniali. Quindi: se vi scrivono delle mail in cui vi ordinano di fare questo e quello, o vi fanno fare cose che vanno oltre i compiti di uno stagista, siete stati richiamati, vi scrivevano continuamente, ecco prendetevele queste prove, perché queste sono quelle da portare davanti al giudice. E poi se ci sono altre persone che hanno lavorato nello stesso ufficio e poi sono andati via: quelli sono possibili testimoni, prendete i nomi. Altrimenti il giudice come si convince senza le prove?».Quello che è interessante capire a questo punto, al di là della singola sentenza, è se esistano o meno situazioni in cui uno stagista può rivendicare il diritto a un’assunzione alla fine del periodo di tirocinio, pur avendo firmato un contratto di stage in cui si parla di “attività formativa”. «Lo stage ha finalità formativa, ricordiamolo, al termine della quale finisce tutto» conferma il professor D’Amore: «Certo se dopo ti vogliono assumere si apre un altro capitolo. È ovvio che però» mentre lo stage è in corso «se io in quanto soggetto ospitante inizio a farti fare cose che esulano dalla formazione», continua nel suo ragionamento il professor D’Amore, «per esempio ti faccio fare le fotocopie o ti mando in posta a fare dei servizi o ti faccio scrivere delle relazioni che servono per la mia attività, o ti ho mandato dai fornitori, o ti ho richiamato – quindi se la finalità formativa viene snaturata perché tu fai tutt’altro – allora è ovvio che nei fatti si è sviluppato un rapporto di lavoro subordinato. E quindi devi esere pagato e inquadrato come tale. Però è necessario provarlo».  Quando i fatti sono accaduti era il 2004, due anni dopo è cominciata la causa. Sedici anni per ottenere una sentenza definitiva: è davvero così lungo il normale iter per ottenere una sentenza definitiva? «Normale non è» risponde D’Amore, perché sedici anni «sono veramente tanti anni. I tempi della giustizia in Italia purtroppo sono lenti. In questo caso ci sono voluti otto anni solo per il giudizio di primo grado, poi quattro per il secondo e quattro per la Cassazione. A parte per il primo grado, le altre tempistiche non sono lunghissime».Questa sentenza, però, non significa che un altro ex stagista magari con una causa simile in corso o con un tirocinio in svolgimento non possa rivendicare un diritto a ootenere un contratto di lavoro una volta concluso il periodo di formazione. Ma bisogna pensarci bene prima di intraprendere una strada del genere. «Se un giovane si rivolgesse a me per avere un consiglio sul procedere o meno con un’azione legale, per prima cosa direi: fammi vedere cosa hai da portare al giudice per convincerlo, le prove che hai tra le mani. Se non ha elementi convincenti non vale nemmeno la pena cominciare una causa. Per questo suggerisco sempre: se vi accorgete che qualcosa non va bene munitevi delle prove. Salvate le mail, per esempio, prima che vi chiudano l’account. Perché la prova documentale non può essere messa in discussione».  Marianna Lepore

84mila via dall'Italia nel 2021, 35mila sono giovani: «In Italia messi in riserva»

L'onda lunga della pandemia si abbatte anche sugli espatri, e così per il secondo anno consecutivo le partenze degli italiani verso l'estero segnano un calo. Gli espatriati 2021, si legge nel rapporto Italiani nel mondo – giunto alla diciassettesima edizione e pubblicato poche settimane fa – «sono stati 83.781, la cifra più bassa rilevata dal 2014, quando erano stati più di 94mila». Il trend di decrescita era già presente, ma l'impatto dell'emergenza sanitaria è stato più forte nella fase successiva rispetto a quella iniziale dello scoppio del Covid («si è trattato di una frenata dolce, diventata però brusca nei dodici mesi successivi»), facendo contrarre del 23% le iscrizioni all'Aire, l'anagrafe degli italiani all'estero che ha contato nel 2022 25.747 connazionali in meno sull'anno prima. Rispetto al 2020 la discesa diventa invece più marcata, raggiungendo il 36%.Il dato potrebbe però essere viziato: «Il primo problema che indicano gli italiani all'estero quando si chiede loro il perché non risultino iscritto all'Aire è quello dell'interruzione dell'assistenza sanitaria» segnala all'evento di presentazione dello studio curato dalla Fondazione Migrantes Toni Ricciardi [nella foto], coautore della pubblicazione, storico dell'emigrazione specializzato nell'emigrazione italiana in Europa che insegna all'università di Ginevra ed è appena stato eletto alla Camera in quota Pd.Molti italiani, pur di mantenere in patria il cosiddetto medico di base, necessario più che mai in tempi di emergenza sanitaria, decidono cioè di spostarsi in maniera non ufficiale, sottraendosi all'obbligo di registrazione all'Aire. Con il risultato che i flussi di mobilità irregolari, da sempre esistenti, «possano essere aumentati». Non bisogna dimenticare poi, si legge nel rapporto, «anche tutti quelli che partono per progetti di mobilità di studio e formazione» per i quali l'obbligo di iscrizione all'Aire non sussiste e che dunque sfuggono al conteggio.Ma al di là della esaustività dei dati, il numero di espatri resta comunque massiccio. E soprattutto permane il desiderio dei giovani di abbandonare il paese. L'identikit di chi se ne va dall'Italia resta infatti quello di un giovane, prevalentemente maschio (il 54,7% del totale), tra i 18 e i 34 anni (41,6% che diventa 23,9% tra i 35 e i 49 anni), celibe o nubile (66,8%), che va a vivere in un paese europeo in quasi l'80% dei casi. Sono sopratutto i giovani ad andarsene: quasi 35mila degli 84mila che hanno spostato la residenza all'estero nel 2021 sono infatti under 35. Hanno fatto e spese della pandemia «che si è abbattuta su di loro con tutta la sua gravità, rendendoli una delle categorie più colpite dalle ricadute sociali ed economiche». La mobilità è così irrefrenabile «perché l’Italia ristagna nelle sue fragilità e ha definitivamente messo da parte la possibilità per un individuo di migliorare il proprio status durante il corso della propria vita, accedendo a un lavoro certo, qualificato e abilitante». I giovani sono confinati per anni come «riserve di qualità e competenze», mentre il tempo scorre, denuncia il rapporto. Non c'è da stupirsi quindi se in oltre un quarto di secolo, dal 2006 al 2022, «la mobilità italiana è cresciuta dell’87% in generale, del 94,8% quella femminile, del 75,4% quella dei minori e del 44,6% quella per la sola motivazione 'espatrio'».Il nodo resta sempre quello del mancato ritorno di chi parte. E quindi della perdita di una popolazione giovane che fa le valigie e non solo va, ma rimane all'estero. All'origine, come sottolinea il rapporto, c'è «un tasso di occupazione per i 15-29enni pari, nel 2020, al 29,8%, e quindi molto lontano dai livelli degli altri paesi europei», che sfiorano il 50%. E al di sotto di tredici punti rispetto all'occupazione dei 45-54enni. La storia dunque si ripete. Dal punto di vista geografico non ci sono differenze sostanziali perché a dire addio all'Italia sono i giovani di tutte le regioni, quasi a pari merito con poco più di 45mila ragazzi provenienti del Nord, contro i 38.757 del centro sud, nonostante qui la disoccupazione colpisca maggiormente. Anzi, è proprio la 'ricca' Lombardia la regione che si spopola di più secondo il rapporto, seguita dal Veneto. L'Italia «è strutturalmente caratterizzata da mobilità in partenza e in arrivo» aggiunge Delfina Licata, sociologa e curatrice del rapporto, restando dunque un paese di emigrazione, e che non si è mai trasformato nel suo contrario, cioè un paese di immigrazione. Una frase che si sente dire ma che «è smentita dai fatti» commenta il dossier, perché dal nostro paese si continua a partire in cerca di fortuna. Tanto che la comunità degli italiani all'estero ha raggiunto i 5,8 milioni di iscritti ufficiali all'Aire, di cui 1,2 milioni in età compresa tra i 18 e i 34 anni, superando i 5,2 milioni di stranieri che risiedono invece sul territorio nazionale. Anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è intervenuto sulla questione con un messaggio inviato all'evento di presentazione: «Il nostro paese, che ha una lunga storia di emigrazione, deve aprire una adeguata riflessione sulle cause di questo fenomeno» ha detto «e sulle possibili opportunità che la Repubblica ha il compito di offrire ai cittadini che intendono rimanere a vivere o desiderano tornare in Italia».Una risposta, a dire il vero, la dà proprio lo studio: da tempo ormai «i giovani italiani non si sentono ben voluti», si legge nel Rim 2022. L'unica scelta «per la risoluzione di tutti i problemi esistenziali (autonomia, serenità, lavoro, genitorialità) è l’estero». Si crea così una spaccatura sempre più marcata tra due comunità di italiani: «una demograficamente in caduta libera che risiede e opera all’interno dei confini nazionali e un’altra, sempre più attiva e dinamica, che però guarda quegli stessi confini da lontano».Ilaria Mariotti 

Lavorare nei Paesi in via di sviluppo, candidature aperte per il JPO Programme delle Nazioni Unite

«La UN fellowship offerta dal governo italiano mi ha dato la possibilità di entrare nel mondo lavorativo delle Nazioni Unite. Dopo un'esperienza  a Beirut, presso il Resident Coordinator Office delle Nazioni Unite, ho lavorato come esperta in trasformazione digitale per UNDP. il JPO mi ha dato la possibilità di continuare il lavoro nelle Nazioni Unite con una maggiore stabilità contrattuale».  A parlare è Roberta Maio, 32 anni e una laurea in Scienze internazionali e diplomatiche all’università di Bologna. Il suo JPO è ancora in corso a Nairobi, Kenya, dove lavora presso l’Agenzia delle Nazioni Unite per gli Insediamenti Umani (UN-Habitat): «Mi occupo di trasformazione digitale e tecnologie applicate alle città per migliorare la vita dei cittadini nel mondo e rappresento l’Agenzia in vari forum internazionali in cui si discute di temi quali diritti digitali, digital divide, accesso alle tecnologie, legislazione e altro». L'interesse di Roberta Maio verso il mondo della cooperazione internazionale era cominciato presto, già durante l’università, e si era concretizzato in varie esperienze all’estero: a Vilnius, Lituania, in Erasmus; poi e a Melbourne, Australia; e ancora un Erasmus Plus a Bruxelles e un’esperienza nel settore privato con PwC sempre in ambito europeo.Chi intende fare un'esperienza simile alla sua ha tempo fino al prossimo 15 dicembre per inviare la candidatura e provare a entrare nel programma JPO, Giovani Funzionari delle Organizzazioni Internazionali, che consente appunto a giovani italiani di effettuare un’esperienza formativa e professionale nelle organizzazioni internazionali per un periodo di due anni. Il programma è promosso dalla Direzione generale per la Cooperazione allo sviluppo del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e l’Agenzia italiana per la Cooperazione allo sviluppo e curato dal dipartimento degli Affari economici e sociali delle Nazioni Unite (UN/DESA); l’application va inoltrata esclusivamente online attraverso il sito www.undesa.it. Non è ancora certo il numero di posizioni aperte, ma probabilmente saranno circa 40 i posti disponibili, in analogia con gli anni precedenti, con retribuzione corrispondente al livello P2 dei funzionari delle Nazioni Unite, pari a 60mila dollari annui, circa 63mila euro, ai quali va aggiunto un adeguamento che varia da Paese a Paese a seconda del costo della vita locale. Il contratto comprende, oltre al salario, l'assicurazione medica, i contributi pensionistici e altre indennità.Chi presenterà domanda dovrà competere con un numero molto ampio di candidati, almeno stando ai dati delle edizioni precedenti: per quella 2021/2022 sono state 1.843 le domande complessive, di cui il 67% di donne e il 33% di uomini, per un’età media di 28 anni e mezzo. La componente femminile appare quindi storicamente in netto vantaggio numerico rispetto a quella maschile.Requisiti necessari sono: data di nascita non precedente al 1 gennaio 1992 (1 gennaio 1991 per i laureati in medicina, 1 gennaio 1989 per i laureati in medicina che abbiano conseguito un diploma di specializzazione in area sanitaria); nazionalità italiana; ottima conoscenza della lingua inglese e italiana; laurea specialistica/magistrale o magistrale a ciclo unico, laurea triennale accompagnata da un master universitario.Conoscenza di altre lingue ufficiali delle Nazioni Unite o lingue parlate nei Paesi in via di sviluppo, possesso di ulteriori titoli accademici o corsi di formazione rilevanti, un’esperienza professionale, della durata di almeno due anni e possesso di alcune capacità e competenze quali orientamento al cliente, lavoro di squadra, comunicazione, responsabilità, pianificazione e organizzazione del lavoro sono caratteristiche che vengono tenute in considerazione nel valutare le candidature.Per fornire informazioni utili all’invio della candidatura gli organizzatori hanno programmato webinar dedicati, per i quali è necessaria la registrazione sul sito www.undesa.it. Il prossimo è in programma il 9 dicembre alle ore 17. I candidati prescelti dovranno poi seguire un corso obbligatorio promosso dalle Nazioni Unite incentrato su tematiche inerenti il lavoro che andranno a svolgere nelle organizzazioni internazionali.Che consigli darebbe Roberta Maio a chi vuole tentare questa strada? «Sicuramente il Programme predilige professionisti con almeno 3-5 anni di esperienza professionale a livello internazionale. Negli ultimi anni l'Onu sta cercando di attirare sempre più professionisti provenienti dal settore privato, insieme ai percorsi più direttamente associati ad una carriera internazionale quali istituzioni europee, Ong, think tank etc. La conoscenza avanzata delle lingue straniere è un prerequisito fondamentale e più sono le lingue conosciute, a livello minimo B2, maggiori sono le chances di essere selezionato. Un vantaggio per me è sicuramente stato quello della conoscenza del sistema ONU, che avevo acquisito tramite l'esperienza quale consulente in PwC per le Nazioni Unite e grazie alle esperienze professionali dirette nell'ONU, associata ad una conoscenza tecnica e settoriale nei temi digitali maturata sia all'interno delle UN che nel settore privato che era richiesta per la mia posizione. Avere avuto già un'esperienza lavorativa in ambito Nazioni Unite è senz'altro un requisito preferenziale. Alcune buone opportunità da considerare sono la UN Fellowship, l'UNV e le consulenze».E dopo il programma JPO cosa può stagliarsi all'orizzonte? «Sicuramente ambisco a continuare il mio lavoro come international civil servant nell'ambito del digitale e dell'innovazione, che sono da sempre i temi di cui mi occupo e che più mi appassionano» risponde Roberta Maio: «Al momento sono felice di lavorare nei Paesi a basso reddito e in via di sviluppo perché sono quelli in cui l'impatto ambientale causato dal riscaldamento globale, il digital divide e la necessità di progresso sono maggiori. In futuro vorrei contribuire all'integrazione di gruppi specifici spesso marginalizzati quali i rifugiati o le persone internamente disperse. Tramite le tecnologie digitali questi gruppi possono essere aiutati ad accedere ai servizi di base come sanità, igiene e educazione, digitali e offline; possono integrarsi nella comunità e comunicare con le autorità».Chiara Del Priore  

Stagisti anziani, i dati: quasi nessuno viene assunto. Nel settore pubblico e in Calabria sono tantissimi

Cosa si sa del fenomeno degli stagisti anziani? Ben poco, a parte il fatto che il loro numero è triplicato nell'ultimo decennio. La Repubblica degli Stagisti ha deciso allora di chiedere al ministero del Lavoro dei dati più precisi su chi sono, dove sono e dove vanno a fare stage non i classici giovani alle prime armi, bensì le tante persone adulte coinvolte ogni anno in attività di tirocinio.I dati esclusivi che abbiamo ottenuto ci permettono di tracciare finalmente un quadro più preciso. Gli stagisti over 35 complessivamente sono stati in Italia, nel 2021, più o meno 46mila. Il numero resta ancora inferiore al periodo pre-pandemia, considerando che nel 2019 i tirocini per questa fascia di età “over 35” erano stati oltre 54mila, ma è comunque in netta ripresa rispetto ai 38.400 del 2020.In particolare nel 2021 circa 37.300 sono stati gli stagisti tra i 35 e i 54 anni, in lieve maggioranza donne (53,5% del totale). A questi vanno aggiunti poco più di 8.400 stagisti con 55 anni o più, qui invece con una netta prevalenza di uomini: 5.467 contro 2.941, con una proporzione 65-35%.Ora però bisogna rispondere a domande più specifiche. Quali sono le Regioni dove sono più frequenti, e quali sono i settori dove i tirocinanti anziani vengono inseriti? Questi tirocini servono davvero per reinserirsi proficuamente nel mondo del lavoro?Ci concentreremo qui esclusivamente sui tirocinanti con più di 55 anni perché è questa la categoria più a rischio: si tratta di persone relativamente vicine alla pensione e che però, rimaste senza lavoro, anziché essere ricollocate con un vero contratto di lavoro vengono costrette a “ripartire dalla casella di via” attraverso questi percorsi “di formazione”. Per giunta, non essendo il tirocinio appunto un contratto, esso non prevede l’aspetto dei contributi previdenziali: un dettaglio forse trascurabile quando lo stagista ha venti o trent’anni, ma molto importante se invece ne ha cinquanta o sessanta.Secondo i dati inediti ottenuti dalla Repubblica degli Stagisti, il 22% delle 8.400 persone con oltre 55 anni che hanno fatto una esperienza di tirocinio in tutta Italia nel corso del 2021 ha svolto questa esperienza in una sola Regione: la Calabria. 22% vuol dire che, per ogni cinque stagisti anziani italiani, uno è calabrese. Si tratta di un dato non sorprendente (qui sulla Repubblica degli Stagisti denunciamo il malcostume calabrese di parcheggiare i cinquantenni disoccupati in stage da molti anni) ma comunque allarmante. In Calabria, per la precisione, ben 1.855 persone in questa fascia di età sono state avviate in stage nel 2021; la Lombardia segue a notevole distanza (1.211), insieme a Emilia Romagna (1.123), Veneto (894) e Piemonte (543).La Calabria è costantemente in cima a questa classifica anche considerando gli anni precedenti:  perfino nel 2020, anno di scoppio della pandemia e di crollo generale delle attivazioni di stage, in Calabria ne erano stati avviati poco meno di 2mila su persone over 55 (per la precisione 1.925), quasi il doppio rispetto alle Regioni successive in lista, l’Emilia Romagna (979) e la Lombardia (947); a seguire, molto distanziati, Veneto (678) e Piemonte (414).Idem per il 2019: la Calabria già svettava con 1.408 stagisti con più di 55 anni; con la Lombardia al secondo posto di questa particolare classifica con 1.265 tirocinanti anziani, seguita da Veneto (1.218), Emilia Romagna (1.193) e Piemonte (646). Tutte le altre Regioni avevano e hanno invece numeri molto più bassi. Tale concentrazione di tirocinanti anziani in Calabria appare irragionevole specialmente se si considera la densità di popolazione: sulle poco meno di 59 milioni di persone residenti in Italia oggi, solo meno di 1 milione e 850mila vivono in Calabria. Vuol dire il 3% della popolazione italiana. Ma pur avendo solo il 3% della popolazione italiana, la Calabria ha il 22% degli stagisti anziani di tutta Italia! Una disproporzione che dimostra come lo strumento del tirocinio venga abusato, in questo territorio, per supplire alla mancanza di opportunità di lavoro, e come una sorta di improprio “ammortizzatore di ultima istanza” per quelle persone che hanno esaurito le modalità “legittime” di sussidio di disoccupazione.Dunque una prima conferma che arriva da questi dati è che c’è un enorme problema-Calabria quando si parla di tirocinanti anziani.Attenzione inoltre a un’altra cosa: i tirocinanti over 55 nel 2019 sono stati 8.813, nel 2020 7.244 e nel 2021 8.408. Ma i tirocini attivati in favore di persone over 55 sono stati un po’ di più: per la precisione 9.783 nel  2019, 8.049 nel 2020 e 9.595 nel 2021. Questo perché il primo numero si riferisce alla quantità di tirocinanti (cioè le singole persone avviate a questo tipo di percorsi), e il secondo numero alla quantità di tirocini (cioè dei percorsi attivati). Quindi c’è chi fa più di un tirocinio nello stesso anno. La differenza tra numero di tirocini e numero di tirocinanti è comunque sufficientemente irrilevante da permettere, qualora ci siano dati espressi in una sola modalità e altri dati espressi nell’altra, di considerarli comunque confrontabili.Un altro tema fondamentale è: dove vengono mandate a fare il tirocinio queste persone prossime alla pensione?Gli stagisti anziani vanno per una schiacciante maggioranza in uno specifico settore: la “Pubblica amministrazione, Istruzione e sanità”. Qui sono stati infatti inviati 4.422 dei 8.408 stagisti over 55 del 2021. E’ una quantità decisamente sproporzionata rispetto al dato generale: dei 329.500 tirocini extracurricolari attivati in tutto il 2021 in tutte le classi di età, solo meno di 38mila sono stati quelli nel settore Pubblica amministrazione (che, in effetti, solitamente preferisce accogliere tirocinanti curricolari). L’11,5% del totale. Ma quando si tratta di tirocinanti over 55, magicamente questa percentuale si trasforma in 53%.Lo stesso vale per gli anni precedenti: dei 7.244 cinquantacinque-sessantacinquenni avviati a percorsi di tirocinio nel 2020, addirittura il 56% (oltre 4mila) erano stati inseriti proprio nel settore della Pubblica amministrazione. Dato simile anche nel 2019: 8.813 stagisti anziani, 47% finiti in qualche ufficio della pubblica amministrazione.Dire che il tema è urgente da affrontare è dire poco: qui siamo di fronte a una vera e propria emergenza. Ha senso far fare stage a persone over 50? Se ha senso, qual è l’obiettivo primario? Dar loro nuove competenze? Quanto dovrebbe durare al massimo uno stage per una persona di quell’età, considerando che ogni mese di stage è un mese in cui quella persona non percepisce una vera retribuzione e contributi per la pensione? E che dunque ogni mese in più va ad allargare il “buco” nella sua storia previdenziale, con conseguenze nefaste sulla pensione futura? E sopratutto, se l’obiettivo non è imprigionare questa persona in un tirocinio senza fine bensì permetterle di trovare un nuovo lavoro… Quanto spesso questo accade per le persone over 55? E quanto ha senso mandarle negli enti pubblici, se poi quegli enti pubblici non possono assumerle neanche volendo, perché le assunzioni nella pubblica amministrazione avvengono tramite concorso?E qui arrivano gli ultimi dati inediti ottenuti dalla Repubblica degli Stagisti. Innanzitutto, quando si parla di tirocinanti anziani, bisogna sapere che circa uno su tre fa uno tirocinio “finalizzato all’inclusione sociale”. Nel 2021 il 45,3% dei 9.595 tirocini totali attivati su over 55 era di questo tipo; e andando a ritroso, nel 2020 la percentuale era 43% (8.049) e nel 2019 il 32,7%.Tecnicamente si chiamano “tirocini di orientamento, formazione e inserimento/reinserimento finalizzati all’inclusione sociale, all’autonomia delle persone e alla riabilitazione” e sono pensati per aiutare le persone “prese in carico dal servizio sociale e/o dai servizi sanitari competenti”. A differenza dei tirocini extracurricolari normali, che solitamente hanno una durata massima di 12 mesi (poi ovviamente dipende dalle diverse normative regionali) elevabili a 24 solo in caso di tirocinanti portatori di handicap o di categorie “protette”, i tirocini di inclusione sociale possono durare il doppio, 24 mesi, e perfino essere prorogati oltre questa soglia. E questo, si capisce, è una porta spalancata verso gli stage infiniti.Prova ne sia che pochissimi dei tirocini avviati “a favore” (tra molte virgolette…) di persone over 55 portano a un lavoro: secondo i dati del ministero, solo il 9,3% dei 9.595 tirocini attivati nel 2021 è sfociato nell’ “attivazione di un rapporto di lavoro con stesso datore entro sei mesi dalla fine del tirocinio”. Solo il 9 per cento. Meno di uno su dieci. E’ davvero venuto il momento di ripensare in maniera radicale lo strumento dello stage, e di scegliere se continuare a permettere che sia usato per far perdere tempo, e spesso illudere, migliaia e migliaia di persone di cinquant’anni e oltre. Quando era ministra della Gioventù, l'attuale premier Giorgia Meloni in una videointervista alla Repubblica degli Stagisti si era detta favorevole ad aumentare le «garanzie rispetto all’utilizzo degli stage» e introdurre «paletti molto più restrittivi sul tipo di lavoro e l'ambito in cui può essere utilizzato lo stage, ancorandolo al periodo di istruzione  e anche al dato anagrafico». Presidente Meloni, vogliamo riprendere il discorso?La foto di apertura dell'articolo è di cleber true23, tratta da Pixabay in modalità Creative Commons

Lavoro nei tribunali, stabilizzazione della discordia: gli ex militari chiedono pari diritti rispetto agli ex stagisti

Alla fine è arrivato: il 10 novembre è stato pubblicato dal ministero della Giustizia l’avviso di stabilizzazione per operatori giudiziari ovvero l’assunzione con contratto a tempo indeterminato di 1.200 unità totali di personale non dirigenziale. La notizia attesa dai circa 1.600 operatori attuali, è stata una sorta di regalo di Natale anticipato per chi da dieci anni, prima come tirocinante e poi con un contratto precario, ha aiutato tribunali e corti di appello nel loro funzionamento. I bandi per il tempo determinato erano stati pubblicati nel 2020 per un totale di circa 2mila soggetti ma non tutti i posti sono stati coperti dal concorso perché qualcuno nel frattempo ha vinto altre selezioni o intrapreso altre strade.Ma come spesso è capitato in questo decennio la notizia ha anche nuovamente spaccato il gruppo, lasciando fuori dalla stabilizzazione circa 200 ex appartenenti alle Forze armate e una 70ina dei tirocinanti articolo 73, ovvero i cosiddetti tirocinanti dei magistrati, a cui si aggiungono anche una manciata di tirocinanti ex articolo 37. Sigle che sembrano incomprensibili, dietro cui ci sono persone in carne e ossa, lavoro quotidiano e speranze che proveremo a spiegare in questo articolo.«Al termine dei due concorsi, in 1.558 sono stati assunti a tempo determinato. Di questi circa 1.200 sono ex tirocinanti» spiega alla Repubblica degli Stagisti Roberto Chierici, 34 anni, ex militare che dal marzo del 2021 lavora come operatore giudiziario nell’ufficio spese di giustizia a Chieti: «I militari dovevano essere 300, visto che c'era il 30 per cento dei posti riservato: eravamo inizialmente 250, poi qualcuno ha superato altre selezioni come quella per 616 posti come assistente giudiziario, qualcuno nell’ufficio per il processo, altri come data entry e i numeri oggi sono di circa duecento». Militari ed ex militari compongono quasi il novanta per cento del bacino degli esclusi che al momento «sono principalmente nelle sedi più distanti: in particolare Sicilia e Sardegna, poi Milano, Udine e qualcuno a Roma». Disposizione geografica comprensibile visto che trovandosi negli ultimi posti della graduatoria hanno quasi sempre dovuto scegliere le sedi non assegnate ad altri.Perché sono ora stati esclusi dalla trasformazione in tempo indeterminato del contratto? Per una questione di tempi di durata dei contratti pregressi ma sopratutto di “requisiti” che prima non erano stati richiesti, e ora invece sembrano essere vincolanti per poter passare al livello successivo. «L’ultimo decreto, approvato a maggio, prevede la stabilizzazione per gli operatori che erano in carica quel mese ma che avessero prestato servizio all’interno dell’amministrazione della giustizia per un periodo di almeno 36 mesi». Il contratto a tempo determinato per gli operatori, però, era di soli due anni, non tre: e allora è stato riconosciuto ai tirocinanti che sono stati alcuni per un decennio negli uffici giudiziari, il periodo mancante con i mesi di stage. «E giustamente!» sottolinea Chierici: «Non so neanche come abbiano fatto ad attendere per la stabilizzazione tutti questi anni. Noi ex militari, però, non avendo i mesi di tirocinio perché veniamo da un altro mondo, dal ministero della difesa, abbiamo come periodo lavorativo solo quello prestato da quando siamo entrati per concorso: marzo 2021. Questo significa che al termine del 2023, che è la data ultima individuata dal ministero per raggiungere i 36 mesi e poter stabilizzare i dipendenti, non raggiungeremo il requisito perché ci mancheranno ancora tre mesi».  Chierici è stato militare volontario, “vfp1” come si dice in gergo tecnico, in realtà soltanto per un anno, subito dopo il diploma. Poi ha fatto l’imprenditore gestendo negozi nel settore della telefonia e successivamente ha intrapreso una carriera all’interno della grande distribuzione organizzata: «Prima caposettore, poi vicedirettore e infine direttore: lavoravo anche 70-80 ore alla settimana. Poi ho avuto questa occasione di entrare nella pubblica amministrazione e per una questione di sicurezza, di poter lavorare in tranquillità, visto che ho tre bimbi piccoli di cui uno gravemente disabile, ho deciso di tentare il concorso. Come la maggior parte di quelli che hanno partecipato, l'ho fatto anch'io per la sicurezza che un contratto in un ministero può dare».Il bando del 2020, infatti, prevedeva che il trenta per cento dei posti fosse riservato «ai volontari in ferma breve e ferma prefissata delle Forze armate congedati senza demerito ovvero durante il periodo di rafferma, ai volontari in servizio permanente, nonché agli ufficiali di complemento in ferma biennale e agli ufficiali in ferma prefissata che hanno completato senza demerito la ferma contratta». I requisiti richiesti dal bando erano quelli di aver completato il periodo di perfezionamento presso l’ufficio per il processo, oppure il tirocinio formativo all’articolo 37, o quello all’articolo 73, o il tirocinio presso gli uffici giudiziari o un periodo di volontariato in ferma breve e prefissata delle Forze armate ed essere stati congedati senza demerito; o infine essere ufficiali di complemento con all'attivo la ferma biennale prefissata o contratta, sempre senza demerito.«Se non era previsto che noi avessimo i requisiti nel bando precedente, quando siamo entrati dopo colloquio solo con il titolo della riserva, perché dovremmo averli adesso?» chiede Roberto Chierici: «Perché all’epoca non erano necessari gli anni di tirocinio precedenti, ma la sola riserva, mentre ora avere la qualifica di militare sommato ai due anni di contratto non è sufficiente? Capisco si voglia dare il merito agli ex tirocinanti per i tanti anni dentro gli uffici giudiziari, ma non si può fare questa discriminazione. Fino a pochi giorni fa sembrava ci potessimo ugualmente registrare sulla piattaforma: poi all’ultimo abbiamo scoperto che non era così».Questo perché il provvedimento di assunzione a tempo indeterminato è dedicato agli operatori giudiziari che entro fine 2023 raggiungono il periodo dei 36 mesi di contratto contando anche l’eventuale periodo di tirocinio. E, infatti, il periodo di assunzioni secondo quanto previsto dal bando sarà suddiviso in due tranche: la prima partirà a gennaio 2023 ed è per quei soggetti a cui il tirocinio termina a fine anno e hanno, quindi, due anni interi di contratto a tempo determinato più i periori precedenti di tirocinio negli uffici giudiziari che gli valgono come ulteriore anno. Poi ci sarà la seconda fase di assunzioni dedicata agli ex stagisti a cui il contratto da operatore scade nel 2023 e quindi possono contare su due annualità di lavoro dipendente più, sempre, periodi di tirocinio passati. «La nostra categoria, di militari o ex, invece, non riuscirebbe a rientrare nemmeno in questa seconda tranche» ribadisce Chierici «perché i nostri contratti attuali scadono a marzo 2023 per un totale di due anni, a quel punto ci mancano comunque 12 mesi per poter richiedere l’assunzione a tempo indeterminato». Per questo motivo la richiesta è la proroga di un anno del contratto a tempo determinato fino al marzo 2024 e l’estensione di tre mesi a partire dal dicembre del prossimo anno della validità temporale in cui il ministero potrà procedere all’assunzione. Questo garantirebbe i duecento appartenenti alle forze armate. Stessa richiesta anche per i tirocinanti articolo 37. Per gli articolo 73, invece, basterebbe solo una proroga di sei mesi fino al termine del prossimo anno per riuscire a raggiungere le mensilità.Chierici ci tiene a sottolineare che la loro non è un battaglia contro gli altri colleghi che provengono da anni di stage: «La loro stabilizzazione è giustissima. Però siamo vincitori del medesimo concorso pubblico riservato, abbiamo fatto la stessa prova di selezione, svolto gli stessi lavori, abbiamo diritto alla stessa parità di trattamento, che ci consenta di raggiungere questi 36 mesi».C’è un altro aspetto da non sottovalutare: tribunali ed uffici giudiziari hanno bisogno di questi soggetti, che ad oggi sono loro dipendenti. Non rinnovarli, e non stabilizzarli, significherebbe dover procedere eventualmente a nuovi concorsi per coprire i posti rimasti rimasti vacanti. È evidente che non sarebbe conveniente. Gli operatori giudiziari lo sanno e hanno cominciato a cercare l’appoggio del mondo politico, che negli ultimi anni ha più volte dato attenzione alla situazione degli ex tirocinanti. L’obiettivo è appunto far inserire nel decreto milleproroghe, in approvazione verso fine anno, un articolo che consenta di prorogare i contratti ed estendere il periodo della stabilizzazione.La segretaria generale di Confintesa, Confederazione sindacale nata nel 2003 attiva soprattutto nel pubblico impiego e critica sul sistema di rappresentazione sindacale esistente in Italia, Claudia Ratti, ha inviato a metà novembre una nota ai ministri della giustizia e della difesa, Carlo Nordio e Guido Crosetto, sottolineando come il provvedimento di stabilizzazione abbia escluso di fatto gli ex militari che non possono contare sui tre anni di servizio e ricordando che l’articolo 1014 sulla riserva in favore dei militari congedati «prevede in particolare che la riserva vada applicata a tutti i bandi di concorso e provvedimenti che contemplano le assunzioni di personale non dirigenziale».Eugenio Marra della Cisl e Felicia Russo della Cgil, dal canto loro, hanno richiesto insieme un incontro al Capo di gabinetto del ministero della Giustizia per capire se i contratti saranno rinnovati o no. Nel frattempo è stata confermata una manifestazione unitaria di Cgil, Cisl e Uil "Stabilizzazione precari giustizia, Nessuno escluso!", mercoledì 23 novembre alle 14 a Roma in Piazza Cairoli, vicino al ministero della Giustizia. La richiesta dei sindacati è che «siano adottati i provvedimenti normativi necessari a garantire nelle more dell'espletamento della procedura assunzionale, la proroga dei contratti in scadenza nonché l'ampliamento della platea dei beneficiari della procedura di stabilizzazione al fine di ricomprendere tutti gli operatori giudiziari con rapporto a tempo determinato attualmente in servizio».«Il presidente della Commissione giustizia della Camera, Ciro Maschio, ha detto qualche giorno fa che cercheranno di affrontare il tema in legge di bilancio», racconta Chierici. Ed è stata accolta come raccomandazione al Governo l’Ordine del giorno presentato la settimana scorsa alla Camera da Devis Dori, membro della Commissione giustizia, per chiedere al Governo di «prevedere l’immediata proroga dei contratti in scadenza e l’ampliamento della platea dei beneficiari della procedura di stabilizzazione» e consentire così agli operatori giudiziari attualmente in servizio a tempo determinato la trasformazione in indeterminato.Bisognerà ora vedere se il nuovo Governo accoglierà queste richieste. Marianna Lepore

Tirocinanti a 60 anni in Calabria, le storie (lunghe anni) di due stagisti senior

Hanno ottenuto una proroga e ora navigheranno tranquilli – se così si può dire – fino al termine del 2023, quando arriverà a conclusione l’ennesima annualità del loro stage infinito negli enti pubblici calabresi. Sono i tirocinanti di inclusione sociale, persone per lo più over 50 per le quali in dieci anni la politica non è riuscita a trovare una soluzione che non fosse un tirocinio reiterato nel tempo.Oggi stanno cominciando altri dodici mesi di stage, con tempi diversi perché ognuno l’ha iniziato in mesi diversi: per tutti si tratta di una continuazione, senza alcuna interruzione nemmeno di un giorno. Ma questo anno in più non tranquillizza, visto che con tutta probabilità non porterà da nessuna parte.Francesco Creazzo ha 55 anni. Quando ha cominciato lo stage era il 2012, e ne aveva 45. È un tecnico di valutazione ambientale, di commercio, ha il titolo di perito industriale e varie patenti per le guide professionali. «In questi dieci anni ho cercato lavoro, perché ti dà dignità. Così a volte ho interrotto il tirocinio per dei contratti brevi, anche per avere un minimo di contributi. Ma in Calabria dopo sei-otto mesi ti licenziano perché non ci sono più le commesse... e quindi rientravo nelle politiche attive. Ormai, però, ho una certa età. Non riesco a trovare nulla».Il percorso professionale di Creazzo subisce una brusca battuta d'arresto una dozzina d'anni fa: «L’ultimo lavoro che ho avuto era buono, avevo 14 mensilità, i buoni pasto. Poi è arrivata la crisi che ha colpito l’azienda per cui lavoravo, un’impresa del nord con sedi anche al sud. E quando si deve licenziare, guarda caso cominciano sempre dalla Calabria». L’azienda in questione procede a ridurre il personale della sua sede calabrese per poi chiudere totalmente, lasciando a casa tutti i dipendenti. Dopo un periodo di disoccupazione ordinaria comincia per Francesco Creazzo la mobilità in deroga: «Le piccole aziende non riuscivano a entrare nei parametri della mobilità ordinaria; terminata la disoccupazione non ci sarebbe stato nulla. Lo Stato in quel periodo ha creato la mobilità in deroga» racconta: «In pratica davano delle deroghe alle Regioni, che creavano percorsi di politiche attive. La differenza è che la mobilità è una politica passiva, stai a casa e ti danno i soldi; con le politiche attive, invece, svolgi dei compiti per cui vieni pagato».Nel 2012, ben dieci anni fa, Creazzo comincia il suo percorso da tirocinante. In quegli anni si attivano le cosiddette politiche attive presso ministeri, enti locali ed uffici giudiziari con l’intento di avviare a percorsi di riqualificazione e formazione gli ex lavoratori in mobilità in deroga, secondo quanto disposto dalla legge 92 del 2012. Tirocini finanziati grazie a fondi europei. «All’inizio era un tirocinio di sei mesi. C’era un rimborso spese mensile di circa 300 euro, 250 a carico della Regione e 50 dell’ente, a cui si sommava la mobilità in deroga. Molto meno di ora». Il tutto per un impegno di quattro ore di lavoro al giorno. Qualche anno dopo, nel 2015, cambia tutto perché il ministro del lavoro del momento, Giuliano Poletti, elimina la mobilità in deroga «e rimaniamo senza nulla. Poi con il Jobs Act di Renzi si creano i fondi Pac, tramite finanziamenti europei, e nuovi percorsi di tirocinio in cui anche noi ex percettori di mobilità in deroga finiamo dentro».Il problema è che prevedere una politica attiva come un tirocinio in un ente pubblico – dove non c'è prospettiva di assunzione perché per legge si entra per concorso pubblico – e con una normativa  che all’epoca ai tirocini non assegnava nemmeno alcun valore di punteggio aggiuntivo in un eventuale selezione (come invece negli anni è stato ad esempio previsto per i tirocinanti della giustizia), non aiuta nella conquista dell’ambìto posto di lavoro. «Di solito i tirocini vengono svolti nel privato, e quando fai una politica attiva del genere al novanta per cento vieni assunto. Le aziende danno la possibilità di formare il lavoratore e poi assumerlo» riflette Francesco Creazzo: «Diversa è la situazione negli enti pubblici. Ma eravamo molti: 7mila persone», un numero troppo importante per trovare facilmente collocazione nel non vitalissimo tessuto imprenditoriale del Mezzogiorno: «E hanno pensato quindi di diluirci in questi uffici: in Calabria non c’era un contenitore altrettanto grande in grado di assorbire tutti questi disoccupati».Oggi l’età media è tra i cinquanta e i sessant'anni. All’epoca, però, i partecipanti erano 35enni, 38enni, speranzosi di poter ottenere, dopo un periodo di tirocinio, un vero lavoro. Qualcuno aveva già qualche anno in più, come Vincenzo Falleti, che oggi ha sessant'anni ed è tirocinante di inclusione sociale presso il Comune di Taurianova. La sua storia comincia più tardi, nel 2017: «Eravamo un gruppo di persone in mobilità in deroga», quindi fruitori di politiche passive, «per cui ti pagavano anche stando fermo sul lavoro», poi “trasformate” in politiche attive: «Io venivo dall’edilizia. Bisognava partecipare a questi bandi di tirocinanti della Regione Calabria: una formula per non pagare tasse, non dare ferie, malattia, contributi. All’inizio il mio tirocinio era di sei mesi con un rimborso spese di 800 euro, poi c’è stato un secondo bando questa volta per dodici mesi ma con un’indennità più bassa: 500 euro. A cui ne è seguito un altro». Cambiano i bandi e magari i tipi di tirocinio ma il monte ore è sempre lo stesso: quattro ore al giorno, circa venti alla settimana. Nel 2021, dopo varie proteste, l’indennità viene aumentata a 700 euro mensili, stessa cifra che ora questi stagisti senior prenderanno nell'ambito della proroga. «Ci paga l’Inps regionale, attraverso la sede locale, con un estratto conto bimensile e un tempo di circa venti giorni per fare il bonifico». In pratica, quindi, tempi lunghissimi per avere in tasca i soldi.Il 2019 è stato un po’ un anno di svolta, soprattutto per Creazzo che ormai già da sette anni faceva il tirocinante. Perché il suo è diventato un tirocinio di inclusione sociale. «Per l’ennesima volta, e sottolineo per certi aspetti fuori norma, veniamo quindi rinnovati e partiamo con questo percorso Tis. Il tirocinio però dovrebbe avere al massimo una proroga e dopo dovrebbe darti un lavoro. Mentre qui la politica cambia il nome alle cose ma la sostanza è la stessa. E ci hanno nuovamente messo in questo percorso. Cambiano i nomi, le formule, ma siamo sempre le stesse persone. Il tirocinio dovrebbe introdurti nel mercato del lavoro altrimenti che utilità ha?» si chiede Creazzo: «È come se uno andasse a scuola e non ricevesse mai il diploma».  Tre anni fa, si diceva, partono i Tis: «All’inizio dodici mesi, poi ci hanno bloccato perché c’era il Covid, dopo di che è arrivata la prima proroga sempre di un anno che stiamo concludendo adesso e in deroga, perché in realtà non avrebbero potuto farne altri visto che la legge non lo prevedeva, hanno fatto una nuova proroga di un anno come sostegno al reddito».Anche Francesco Creazzo sottolinea l’ulteriore problema dei tempi di pagamento: «Quando finisce il secondo mese mentre non fanno i conteggi delle firme, poi passano alla Regione, poi all’Inps, che paga, a volte passano quasi tre mesi. Tutto questo incide sulla nostra qualità di vita. Per questo abbiamo chiesto con un’istanza ai sindacati, al presidente della Regione e alla vicepresidente che è anche assessore al lavoro, di ristrutturare la forma del pagamento mensilmente». Non solo: i tirocinanti hanno anche chiesto un’integrazione dovuta al caro vita «perché non siamo riconosciuti come lavoratori, o disoccupati e non rientriamo quindi in nessun decreto aiuti».In tutti questi anni oltre 4mila tirocinanti hanno coperto i vuoti di organico negli enti pubblici calabresi in cui, specie ultimamente, c’è un forte spopolamento. «Tamponiamo tutte le figure: dalle maestranze fuori ai muratori, dai carpentieri agli impiegati». L’assurdità del progetto è che camuffa un lavoro vero con un tirocinio, senza prevedere contributi e prospettive di pensione, e spreca risorse perché non garantisce un reale inserimento lavorativo e spesso dà una “formazione” inutile perché negli anni gli stagisti vengono spostati di sedi e funzioni.Creazzo, per esempio, è stato prima a Villa San Giovanni, poi a Campo Calabro e ora è a Scilla da tre anni: al momento svolge un tirocinio nella mansione di “organizzatore di fiere, esposizione, eventi culturali presso il comune”, mentre l’anno scorso era tirocinante nella “mansione di operatore amministrativo presso il Comune di Scilla”. Nei primi anni, invece, quelli per i quali ha anche un’attestato di formazione, la sua mansione era quella di “collaboratore di atti amministrativi e determine” per l’ufficio tecnico di Villa San Giovanni. Nel suo ufficio a Scilla c'erano ben venti tirocinanti – ora sono in diciannove, perché uno è morto.Falleti, invece, ha svolto il tirocinio sempre al Comune di Scilla, ma nell’ufficio manutenzione. «Facciamo un po’ tutto: dalla manutenzione stradale agli edifici e parchi pubblici. Il primo anno ci siamo dedicati al verde, quindi potature degli alberi, rasature dei prati, pulizie di cunette, a livello di operai comunali». Figure per cui è evidente non sia adeguato un inquadramento in tirocinio. Ma evidentemente i comuni, non avendo soldi per coprire eventuali assunzioni o contratti, finiscono per utilizzare tirocinanti, sottopagati, in funzioni decisamente fuori dall’ambito di uno stage.Eppure con l’inizio dei tirocini di inclusione sociale qualche speranza c’era: «Mi aspettavo che mi desse un vero lavoro» continua Falleti, che però arrivato a sessant'anni anni è ormai realista:  «Oggi bisogna accettare quello che c’è. Il nostro in fin dei conti è un part time, quattro ore al giorno. Non c’è nessun obbligo, all'inizio eravamo in trenta e oggi siamo rimasti in ventitré. È una scelta libera accettare. Certo il tirocinio è un escamotage per avere manodopera gratis. Ho un figlio, anche lui è tirocinante presso un’azienda e prende 800 euro. Capisco che lo stage sarebbe un modo per apprendere e che la Regione lo ha utilizzato per andare avanti spendendo poco o niente. Una formula studiata ad arte per dirti “se vuoi è così altrimenti te ne vai via”. Capisco i miei colleghi che non si sentono bene con questo tipo di lavoro. Io ho avuto dei problemi di salute importanti, l’età avanza, e tra una cosa e l’altra mi va bene così».Sempre con l'auspicio, però, che prima o poi un contratto di lavoro vero salti fuori: «Ora facciamo questo nuovo anno e poi vediamo. I lavoratori socialmente utili, gli “Lsu”, hanno lavorato per vent'anni praticamente in nero per la Regione, e dopo una lunga battaglia sono riusciti ad entrare in un percorso di contrattualizzazione» ricorda Falleti: «La Regione ha tutto l’interesse di tenerci, perché nei comuni stanno facendo prepensionamenti continui e non c’è più nessuno. Dipende tutto dai fondi e per ora sembra che questa giunta regionale sia schierata dalla nostra parte».Lo pensa anche Creazzo, che pur sentendosi «umiliato» a fare, dopo dieci anni, ancora il tirocinante, almeno non si sente più «anche abbandonato: dopo vari incontri fatti durante l’ultima campagna elettorale», ritiene che «qualcosa forse è cambiato». Alla politica questi stagisti cinquanta-sessantenni chiedono «che si prenda carico seriamente di questa vicenda vergognosa. È come se fossimo dei lavoratori in nero, lo Stato li combatte e dovrebbe farlo anche al suo interno. Come ci hanno detto nell’ultima campagna elettorale, devono trasformare il tirocinio in un contratto serio di lavoro che poi nel tempo porti a un indeterminato e alla stabilizzazione, come è successo con altre forme di precariato che ci hanno preceduto».Torna tutto in mano alla politica, nuovamente. Che ora ha un anno per studiare cosa fare. Non ci sono campagne elettorali all’orizzonte. Bisogna solo trovare una soluzione, che rispetti la legge e che dia a chi per un decennio ha consentito l’apertura degli uffici pubblici e lo svolgimento anche delle più elementari mansioni la giusta contrattualizzazione. Evitando, però, che tutto questo crei un precedente, per nuovi futuri stage sfruttamento.Marianna Lepore

Ecco a cosa serve la Giornata internazionale degli stagisti

La prima volta faceva caldo. Era luglio. Correva l’anno 2014 e a Bruxelles un consorzio di una ventina di realtà internazionali a difesa dei diritti degli stagisti – tra cui anche la Repubblica degli Stagisti – aveva proclamato il primo European Interns' Day, La Giornata europea degli stagisti. Obiettivo: denunciare lo stato di precarietà degli stagisti e sollecitare soluzioni per garantire percorsi di qualità e contrastare la pratica degli stage gratuiti.L’anno dopo, nel 2015, la Giornata da europea è diventata “internazionale” e ha trovato la sua collocazione in autunno – il 10 novembre appunto, che da quel momento è diventato l’ International Interns' Day: la Giornata internazionale degli stagisti. Lo European Youth Forum era in prima linea per l’organizzazione dell’evento, sempre con il supporto di tante realtà – tra cui sempre la Repubblica degli Stagisti per l’Italia – nate in quel periodo, non solo in Europa ma anche altrove nel mondo, proprio per tutelare e difendere la categoria dei tirocinanti troppo spesso ignorata dalla politica, dai sindacati, dall'opinione pubblica. Da Génération Précaire e Stagiares Sans Frontières in Francia a Interns Australia e la International Young Professionals Foundation in Australia, da  Ganhem Vergonha in Portogallo alla Canadian Intern Association in Canada, dall’Intern Labor Rights di Washington DC negli USA a Uniplaces nel Regno Unito, fino ad arrivare a Brussels Interns NGO e Project 668 e Drop’pin@EURES in Belgio, e molte altre realtà ancora, alcune delle quali esistono e sono attive anche adesso.Oggi non fa caldo: è il 10 novembre, e ricorre la Giornata internazionale degli stagisti. Come tutte le “Giornate” dedicate a qualcosa, essa non è in realtà che un pretesto, un modo per mettere al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica un tema importante. In questo caso il tema della qualità dei percorsi di transizione dalla formazione al lavoro o, per dirla in maniera più diretta, del rispetto della dignità dei giovani che entrano nel mondo del lavoro.Gli stagisti vivono ovunque in una situazione di limbo: non sono più studenti (o quantomeno: non solo studenti), ma non sono nemmeno ancora lavoratori (o quantomeno: non ufficialmente, anche se molti stagisti poi svolgono le stesse identiche mansioni dei lavoratori).Lo stage può essere un formidabile momento di crescita personale e professionale, può fornire nuove competenze e offrire un trampolino di lancio verso il mondo del lavoro. Ma può anche essere il sinonimo di sfruttamento, frustrazione, perdita di tempo. Tutto sta a come è fatto: a quanta cura, dedizione e investimento ci mettono dentro tutte le parti in causa, a cominciare naturalmente dal soggetto ospitante, cioè la realtà lavorativa dove la persona va a fare lo stage. Perché il rischio di abusi sia ridotto al minimo bisogna che gli stage vengano attivati all’interno di un quadro normativo ben definito, al passo con i tempi, e bisogna che siano delineati con chiarezza diritti e doveri degli stagisti. Tra i diritti, quello più importante è quello di non dover fare lo stage gratis. La sostenibilità economica dei periodi di tirocinio è fondamentale per evitare che lo stage si trasformi in uno strumento classista a cui possono accedere solo persone provenienti da famiglie abbienti – persone che possono permettersi di stare tre mesi, sei mesi, a volte addirittura un anno in un posto di lavoro senza guadagnare un soldo. “Unpaid is Unfair” è infatti lo slogan principale che in questi anni ha accompagnato le manifestazioni a difesa dei diritti degli stagisti in giro per il mondo.Questa semplice rivendicazione – che gli stage prevedano sempre un compenso – purtroppo non è ancora una realtà consolidata. Basti pensare che organizzazioni internazionali blasonate, come per esempio l’Onu, ancora oggi hanno programmi di tirocinio che coinvolgono ogni anno centinaia, a volte migliaia di giovani, e eppure non prevedono nessuna indennità. Malgrado anni e anni di campagne pubbliche, manifestazioni, appelli, nulla scalfisce questi mastodonti, che pagano profumatamente i propri manager e dipendenti, ma si rifiutano di mettere a bilancio qualche fondo per pagare delle indennità mensili ai propri stagisti. Una situazione che dovrebbe far riflettere coloro che si sono avvicendati in questi anni ai vertici dell’Onu come rappresentanti e portavoce dei giovani, e che non sono riusciti a ottenere che briciole (qualche Agenzia dell’Onu, in questi anni, ha in effetti introdotto indennità a favore degli stagisti). Basti pensare che in molti casi gli stage gratuiti sono ancora legali. Ci sono persone che passano da uno stage all’altro senza che ci sia un limite, magari “imparando” sempre le stesse mansioni in aziende diverse. E lo stage non è riservato solo ai giovani: spesso viene usato – e abusato – anche coinvolgendo persone adulte, a  volte addirittura quasi anziane, come abbiamo raccontato più volte qui sulla Repubblica degli Stagisti denunciando l’aumento costante negli ultimi anni dei tirocini extracurricolari attivati su persone over 50.La Giornata internazionale degli stagisti serve anche a dire: non potete più dire che non lo sapevate. Non potete più fare finta di ignorare i problemi e le istanze degli stagisti, e le proposte che sono state formulate, discusse, presentate pubblicamente per risolvere questi problemi e accogliere queste istanze.Solo per parlare dell’Italia, qui sono state di recente raccolte oltre 60mila firme per una proposta di riforma degli stage, e una proposta di legge era in discussione in Parlamento appena prima che il governo Draghi cadesse e che si andasse a nuove elezioni. Ora abbiamo un nuovo governo e un nuovo Parlamento, ma i problemi sono sempre quelli vecchi: evitare che si abusi dello stage per poter avere manodopera o cervellodopera a basso costo, e dare diritti agli stagisti, primo tra tutti quello ad essere pagati.La Giornata internazionale degli Stagisti è un’occasione in più per ricordarlo.

Ti assumo senza bisogno di tirocinio: l'antidoto al “Cercasi stagista con esperienza”

“Cercasi stagista con esperienza”. Questa dicitura, riportata in fin troppi annunci, fa drizzare i capelli in testa agli esperti di lavoro – e a tutti coloro che hanno a cuore l'equità nel percorso di transizione dalla formazione all'occupazione. Perché è ovviamente un controsenso: uno stage si fa per consentire a una persona inesperta di accumulare competenze professionali. Se quelle competenze la persona le ha già, perché mai dovrebbe essere inquadrata in stage, anziché con un vero contratto di lavoro?Spoiler: ovviamente la risposta è “perché costa meno”. Perché lo stage non prevede retribuzione (solo una indennità mensile, e peraltro obbligatoria solo per i tirocini extracurricolari), non prevede contribuzione (cioè il versamento dei contributi previdenziali, per la pensione), né tutto il corollario di diritti annesso a un vero contratto di lavoro – le ferie retribuite, la malattia, la maternità, i permessi, il tfr. Dunque quanto è conveniente selezionare un giovane e proporgli uno stage anziché un contratto, ignorando magari la sua esperienza lavorativa pregressa! Certo, cercare stagisti con esperienza è un malcostume. E per fortuna c'è chi si tira fuori dal mucchio, scegliendo di fare direttamente veri contratti di lavoro: anche di fronte a candidati giovani, magari freschi di studi. Anche di fronte alla possibilità di metterli in stage senza infrangere nessuna legge. Aziende che dicono: no. Tu sei già pronto per essere inquadrato come dipendente, hai già le competenze per essere immediatamente autonomo e operativo. Non hai bisogno di un tutor, o di un periodo di formazione. Voglio investire su di te da subito: ti faccio un contratto di lavoro vero, con una vera retribuzione, contributi e tutto il resto.È il best-case scenario per migliaia di giovani. Ed è quello che Bip, EY e Spindox hanno offerto nel 2021 rispettivamente a 401, 880 e 117 giovani. Aggiudicandosi per questo un premio.Da molti anni infatti la Repubblica degli Stagisti assegna durante il suo evento annuale “Best Stage” uno dei suoi “AwaRdS” alle aziende del suo network che si distinguono per il “miglior tasso di assunzione diretta dei giovani”. Questo riconoscimento premia il miglior rapporto tra organico aziendale e nuove assunzioni di under 30 senza passare per la fase del tirocinio.«Assumere un giovane direttamente è un modo per dare una possibilità a quanti sono già pronti per fare il salto ed entrare in azienda con un contratto di apprendistato o a tempo indeterminato», osserva Mariateresa Maranò, Hr recruiter di Spindox, sottolineando l’importanza di coltivare i giovani per un’azienda che vuole crescere, assumendo il ruolo di ponte tra mondo scolastico e lavorativo: «Quando diciamo che vogliamo puntare sui giovani, che è nostro interesse prenderci cura di loro, dargli una prospettiva di crescita, lo diciamo sul serio e i dati lo dimostrano. Il nostro impegno ad assumere così tanti giovani direttamente è il patto che stringiamo con chi si avvicina a Spindox: se credete in noi, noi crederemo in voi. E i giovani rispondono sempre con entusiasmo e partecipazione a questa nostra offerta di impegno reciproco».«Da sempre assumiamo principalmente neolaureati che poi inseriamo in un percorso di crescita; gli ultimi anni sono stati di grande espansione del nostro business e il numero di persone che abbiamo portato a bordo è cresciuto notevolmente», le fa eco Francesca Giraudo, Ey Europe West Business Talent Leader: «Sicuramente il trend è rafforzativo di una strategia che è sempre stata nel nostro dna e non abbiamo intenzione di abbandonare».«Vogliamo offrire ai nostri giovani un contesto di crescita meritocratico, dinamico e in continua evoluzione, in cui il singolo è libero di esprimere le proprie idee e il proprio potenziale e dove il lavoro di squadra è fondamentale per il raggiungimento di un obiettivo comune» aggiunge Elena Pozzi, Employer branding senior expert di Bip: «In più garantiamo professionalità e responsabilità sempre maggiori attraverso un programma di formazione all’avanguardia».L’assunzione diretta può essere anche l’effetto di una fase di espansione: «In EY abbiamo un trend costante negli ultimi anni. È il frutto di una crescita del business, ma rientra anche in una strategia focalizzata sull’avere un impatto sociale positivo nei confronti della società» spiega Giraudo: «In un Paese che investe molto poco nei giovani, nei neolaureati, noi vediamo in questi soggetti il bacino principale di investimento». Ed è dimostrato anche dal fatto che negli ultimi anni EY ha cominciato ad assumere da un bacino trasversale, non solo laureati in economia o materie stem ma anche lauree più umanistiche su cui poi fare «attività di reskilling» e far diventare il soggetto più interessante e spendibile per l’azienda ma anche per il mercato.Dell’importanza della contaminazione delle competenze sono convinti anche in Bip: «Per questo motivo ogni anno realizziamo, in partnership con il Polimi, il programma Bip Bootcamp: un percorso intensivo di formazione dedicato a chi ha conseguito una laurea umanistica, giuridica o linguistica e che mira ad arricchire le proprie competenze con una preparazione accademica in ambito economic & finance, marketing, management e trasformazione digitale al fine di intraprendere una carriera nel management consulting», racconta Pozzi.Assumere i giovani può essere quindi una priorità per le aziende. Ma quali sono i criteri per decidere se offrire a un candidato in fase di colloquio uno stage o direttamente un contratto di lavoro? In larga parte dipende dall’esperienza del singolo.In EY, per esempio, «offriamo gli stage, molti anche curricolari, alle persone che stanno ancora studiando, o quando hanno finito gli studi ma devono ancora laurearsi» dice Giraudo: «Moltissimi sono assunti con contratti di apprendistato, propedeutico all’inserimento. Se, invece, c’è un percorso anche breve di esperienza pregressa, allora si va sull’indeterminato. Il percorso più classico è: stage se ha senso all’interno del percorso di studi e poi un apprendistato finalizzato all’inserimento».Anche in Bip «lo stage generalmente viene offerto a chi è appena uscito dall’università e ha ancora bisogno di tempo per acquisire quelle skills tecniche e relazionali che gli permetteranno di affermarsi in una realtà diversificata come la nostra» spiega Pozzi: «Un contratto di lavoro, invece viene offerto a chi ha già maturato un’esperienza professionale e può immediatamente mettere a disposizione le proprie competenze».In Spindox, oltre alla valutazione del potenziale della risorsa e del suo percorso di studi o professionale, «è importante intravedere in sede di colloquio quelle qualità che rendono un candidato non solo adatto al lavoro, ma anche ai nostri valori aziendali. Vogliamo portare a bordo  persone amanti delle sfide, pronte a sperimentare e mettersi in gioco. Come diciamo sempre anche in fase di recruiting, il nostro candidato ideale deve essere Hungry, Easy, Fearless, Explorer». Affamato, semplice, intrepido, e avere un animo da esploratore.  Una volta selezionati, nelle tre aziende che si sono aggiudicate quest'anno l'AwaRdS per l'assunzione diretta di giovani l’offerta è quasi sempre un contratto di apprendistato o a tempo indeterminato, quasi mai un “semplice” tempo determinato. «L’apprendistato rappresenta un investimento a lungo periodo anche psicologico, nella crescita, nella formazione della persona e il rapporto che noi vogliamo avere con chi entra e diventa nostro dipendente vuole essere di una prospettiva di lungo periodo» riflette Francesca Giraudo di EY: «Poi certo sappiamo che le nostre industries hanno un turn over elevato, ma ciò è dovuto al fatto che siamo tra le poche aziende che investono in maniera talmente strutturale sui giovani che una volta formati, questi diventano molto interessanti per il mercato. Quindi creiamo employability per le nostre persone. Se più aziende facessero lo stesso, tutto il mondo del lavoro ne gioverebbe!».In un mondo sempre più precario le forme contrattuali più stabili, quelle che tecnicamente si definiscono “subordinate”, hanno certamente un appeal in più perché danno una stabilità che, di questi tempi, è raro per i giovani italiani trovare al primo impiego. «Le proposte di assunzione a tempo indeterminato sono a tutti gli effetti quelle più apprezzate dai nostri candidati e, quando le condizioni lo permettono, siamo ben felici di formalizzarle», conferma Elena Pozzi di Bip: «Ovviamente, se coerente con l’opportunità progettuale, prendiamo in considerazione anche altre formule contrattuali. Investire a lungo termine sui giovani significa scommettere sulle loro potenzialità e sulla loro voglia di mettersi in gioco. Cerchiamo di offrire ai nostri professionisti un ambiente dinamico, che permetta di continuare a sperimentarsi e di avere sempre di più un ruolo attivo e di responsabilità sui progetti».È la prova che un lavoro appassionante e in continua evoluzione non debba sempre per forza essere sinonimo di contrattini brevi e di poca sicurezza. «I contratti a tempo determinato si addicono solo ad alcune tipologie di persone: quelle che hanno progetti di vita in evoluzione, che scelgono di non legarsi da subito a una realtà lavorativa»  osserva Maranò di Spindox: «A un ragazzo che deve mettere le basi della sua esistenza, proporre un contratto a tempo determinato vuol dire farlo vivere con una sorta di spada di Damocle sopra la testa. Significa dirgli: non ci fidiamo abbastanza di te. Questo stato di tensione non fa bene a nessuno: né alla risorsa, né alla azienda». Offrire un apprendistato o un contratto a tempo indeterminato rappresenta dunque «un investimento nel medio lungo termine, sia per l’azienda sia per il giovane che sceglie di restare con noi».C'è però da considerare anche il fatto che le aziende in forte crescita, e con un alto tasso di assunti, vedono inevitabilmente con il tempo andare via molti di questi giovani. «Il turnover fa parte del gioco: quando assumi e formi qualcuno metti in conto che potrebbe andarsene per cercare fortuna altrove» scherza Mariateresa Maranò: «Non è una sconfitta, ma un fatto congenito alla natura del nostro business. Del resto se scegli persone ambiziose e capaci non c’è da stupirsi che vogliano correre verso nuovi traguardi».E questo accade in modo particolare nel settore consulenziale che «è molto dinamico; è un contesto in continuo mutamento che richiede grandi capacità di adattamento da parte dei suoi player» secondo Elena Pozzi, che elenca i tanti progetti messi in campo da Bip per andare incontro ai dipendenti: «Progetti di work-life integration, con la possibilità di lavorare fino al 100 per cento in modalità smartworking; il Sustain new colleagues, un programma realizzato per accompagnare i nuovi assunti nel loro primo anno di esperienza; ma anche convenzioni, benefit e servizi per incrementare la capacità di spesa; una serie di iniziative a favore della genitorialità e di fitness, nutrition o campagne di prevenzione per aiutare le nostre persone a prendersi cura del proprio benessere fisico e mentale».L’alta percentuale di turnover dipende anche dal fatto «che le nostre persone sono molto ricercate dal mercato» sottolinea Francesca Giraudo di EY: «Indubbiamente il lavoro di consulente è ad alta intensità, ha picchi che richiedono molto sforzo e grande flessibilità da parte delle persone. È un lavoro che dà una metodologia, una competenza e un’esperienza accelerata. Nella fase iniziale della carriera le persone sono fortemente appetibili sul mercato». Se per giunta hanno la fortuna di venire «“svezzate” da un datore di lavoro che insegna per bene come si lavora, allora è ovvio che c’è un grandissimo interesse dal mondo esterno!».Il vantaggio aggiuntivo è che di solito con le condizioni contrattuali e retributive non si torna indietro: anzi, molti studi ormai dimostrano che cominciare con lavori “atipici”, “non garantiti”, rischia poi di avere effetti negativi sull'intera vita lavorativa delle persone, diminuendo le probabilità di «transizione in un impiego garantito», (come spiega anche nel saggio Sempregiovani & Maivecchi il demografo Giuseppe A. Micheli). Cominciare al contrario con un vero contratto di lavoro e con una busta paga “seria” vuol dire partire col piede giusto: quando e se si dovesse cambiare impiego, sarà molto improbabile sentirsi proporre contrattini precari – per non parlare di stage – oppure stipendi da fame.Marianna LeporeGrafica di apertura di ShariJo da Pixabay