Categoria: Interviste

Posto in banca grigio e noioso? Tutto il contrario in illimity

C'è una nuova azienda che è entrata da pochi giorni nel network della Repubblica degli Stagisti: si tratta di illimity, start-up bancaria fondata da Corrado Passera, operativa da pochi mesi e caratterizzata da un modello di business fortemente innovativo e ad alto tasso tecnologico. In questi giorni illimity è stata presente a Campus Party, l'evento “in tenda” dedicato ai giovani e alla tecnologia. Tra gli stand di Campus Party la Repubblica degli Stagisti ha incontrato Marco Russomando, il direttore del personale di illimity. Romano trapiantato a Milano, 45 anni, Russomando ha una lunga esperienza nel settore: prima di buttarsi in questa esperienza aveva trascorso oltre un decennio in Unicredit, arrivando a guidarne il gruppo Talent Acquisition. Il suo entusiasmo per la nuova avventura, per l'idea di “costruire qualcosa che non c'era”, emerge da ogni sua parola.“Compagno di scuola, compagno per niente, ti sei salvato o sei entrato in banca pure tu?” cantava Antonello Venditti nel 1975. “Eravamo quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo, destinati a qualche cosa in più che una donna ed un impiego in banca” gli faceva eco Gino Paoli nel 1991. La banca aveva – ha? – una reputazione di mestiere sicuro ma noioso. Oggi non è più così?Non lo so la banca in generale, ma se dobbiamo usare uno slogan, quello di illimity è “Mollo tutto e vado a lavorare in banca”. Per curiosità – per qualcosa che ti affascina. Non un lavoro stabile, ma un lavoro dinamico. Non un lavoro “vecchio” ma un lavoro “nuovo”, che può essere fatto anche di competenze vecchie che abbiamo forse dismesso troppo velocemente – ma che accende passione. Puoi stare con la cravatta, puoi stare con le maniche tirate su, ma ti fa molto piacere andare a lavorare perché sei curioso di sperimentare e sperimentarti.Quindi l'opposto del “ grigio posto in banca”.Non a caso il nostro logo è pieno di colore, pieno di movimento. Noi pensiamo che le diversità facciano la differenza; che il “meticcio” vinca, e sopratutto che il meticcio si diverta tantissimo – pur facendo tanta fatica.Nell'ultimo decennio da una parte la tecnologia ha portato via posti di lavoro dal settore – servono meno persone agli sportelli – dall’altra ne ha creati, perché l’homebanking bisogna progettarlo, aggiornarlo. E' questo il paradigma per cui un giovane oggi può essere attratto da questo settore?Sì, anche. La banca in generale come concetto, non come luogo fisico, è oggetto di una trasformazione mostruosa. E le banche hanno grandi capacità di investimento, che non tutte le aziende hanno. Quindi se un giovane vuole sperimentare un percorso per creare qualcosa di nuovo lavorare in banca – in questa banca, illimity –  secondo me ha un grande senso, perché nella storia tutte le rivoluzioni industriali e tecnologiche hanno sempre creato qualcos'altro. Le sartine distruggevano i telai e poi si sono convertite in operaie che sapevano o riparare il telaio oppure cominciavano a fare i modelli.Eh, sì: video killed the radio star...Già!Quanti giovani avete assunto in questo primo anno di attività?  Il 25% degli assunti, un quarto dei nostri trecento dipendenti, ha meno di trent'anni, e abbiamo stagisti del 1999! Il canale che funziona di più è quello esperienziale – “sono andato lì, mi sono incuriosito, ho fatto un colloquio, m'hanno assunto, è bellissimo”. Quello che mi fa più piacere: “sono andato lì, mi sono incuriosito, ho fatto un colloquio, è bellissimo, non mi hanno preso, li continuo a seguire perché prima o poi ci voglio entrare”. Che reazione c'è di fronte a un nome nuovo nel panorama bancario da parte dei potenziali candidati?  Grande curiosità. Un nome strano. Troppi colori. Un claim “banca oltre la forma”, ma la banca è forma: nasce per essere forma, per essere carta, tra virgolette. Il nostro modo di essere evidentemente, fino a oggi, parla una lingua che incuriosisce i giovani. Nativi digitali: un universo nuovo che ha bisogno di metodi di recruiting nuovi?Beh questa è una banca tutta cloud: non abbiamo un server. Siamo l'unica banca in Italia, la seconda in Europa. Abbiamo una sola filiale, a Modena, perché pensiamo che l'intimità nei confronti del cliente non passi necessariamente per la presenza. Questo significa cercare di fare le cose in modo diverso. La stessa cosa cerchiamo di farla coi candidati, sia quelli che poi assumiamo sia quelli che non assumiamo. Nel momento in cui parliamo di contatto con i ragazzi però a volte c'è la presenza, e per esempio questo è uno dei casi. Questo è anche il senso della presenza di illimity qui a Campus Party?Illimity sta dove c'è creatività, dove c'è curiosità, dove c'è diversità. E qui ci sono ragazzi di non so quante nazionalità, di quante culture, di quante idee, alcuni pieni di tatuaggi, altri vestiti benissimo, alcuni timidi, alcuni estroversi, e sono portatori di potenziale. Dato che lo scopo di questa banca è sbloccare il potenziale delle imprese, noi la stessa cosa la facciamo con le persone.Col 25% di popolazione aziendale under 30 siete una banca più “giovane” della media. Quali sono le sfide?L'età media del settore in effetti è superiore ai cinquant'anni. La complessità è data dal fatto che io ho tre generazioni al lavoro; non posso focalizzarmi soltanto su una. La chiave è creare un ecosistema in cui tutte le diversità di genere, di età, di cultura, di Paese, di provenienza, si sentano semplicemente a loro agio. La soluzione è questa. Se tu stai bene con gli altri, stai meglio con te stesso perché riesci ad esprimere più quello che tu profondamente sei, quindi ti togli delle lenti...… e delle pesantezze che a volte bloccano nel lavoro.La leggerezza che si diceva prima di Calvino [sul palco, poco prima, il ceo di Edenred Luca Palermo aveva dato come consiglio di lettura ai ragazzi le “Lezioni Americane” di Italo Calvino]. Questo significa che ti puoi focalizzare sulla passione, sul generare fermento. E' per questo che il nostro amministratore delegato, Corrado Passera, dice che l'obiettivo finale di illimity da un punto di vista organizzativo è rimanere start-up tutta la vita, perché solo così tu riesci a far sentire le persone bene. L'obiettivo dell'HR – che non è il capo del personale: sono tutti i dipendenti, con ruoli differenti – è quello che la somma degli addendi sia superiore al totale. Avete appena aderito all'RdS network: come, quanto, perché volete investire nello strumento dello stage?Noi pensiamo che accogliere stagisti curricolari ed extracurricolari sia estremamente vantaggioso per noi perché ci porta, diciamo così, pensiero laterale; ci porta menti fresche, tabule abbastanza rase, che quindi possono spingere sull'innovazione. Pensiamo che i ragazzi e le ragazze possano fare una bella esperienza perché noi siamo in una fase appunto di fermento, e quindi la collaborazione con la Repubblica degli Stagisti è una cosa assolutamente naturale, una modalità per incentivare tutto questo. Lo stage rappresenta un momento formativo biunivoco per il ragazzo o la ragazza ma anche per l'azienda; bisogna trattarlo in modo serio, bisogna lasciare le persone esprimere, lasciare che portino i loro contributi facendo loro scoprire dove fanno bene ma sopratutto dove fanno meno bene, perché poi alla fine le cose che ti ricordi di più sono i feedback dove qualcuno ti ha spiegato costruttivamente cosa hai da migliorare, cosa fare in modo diverso.Noi raccogliamo le storie dei ragazzi che fanno uno stage in una delle aziende del nostro network e poi vengono assunti; me ne viene in mente una, di una ragazza che aveva fatto un'esperienza in Spindox per la quale avevamo scelto come titolo: «ho avuto anche una preziosa opportunità: quella di sbagliare».E' stata molto fortunata. Ancor prima di quello, in Italia già dissentire è tanto. Se poi ti consentono anche di sbagliare, vuol dire che vivi in un'azienda che capisce che il successo passa per l'insuccesso. Chiamate i vostri dipendenti, e quelli futuri, “illimiter”. Che significa? Che valori cercate nelle persone da assumere?Illimiter significa una persona impaziente, molto curiosa, che pensa di avere limiti ma che può ogni giorno superarli un pochino. Gli illimiter non sono solo in illimity, non è uno status, non è una mostrina, quindi ogni giorno... “deserve it”. Ci sono tante imprese che per noi sono illimiters, fortunate o sfortunate, come dicevamo prima. Nelle persone noi cerchiamo passione, curiosità, voglia di faticare – divertendosi, ma faticare. E di prendersi dei rischi, imparando dai propri sbagli e sopratutto con una voglia straordinaria di lavorare in squadra.intervista di Eleonora Voltolina

Rom ancora discriminati, un Ashoka Fellow si batte contro la politica della ruspa

La quarta intervista del ciclo dedicato da Repubblica degli Stagisti agli Ashoka Fellow è a Carlo Stasolla, 54 anni, presidente dell’Associazione 21 luglio, che opera dal 2010 nel campo dell’inclusione delle comunità rom. Il nome dell'associazione è legato alla storia di una bambina che, dopo esser stata tolta alla madre naturale per problemi di droga e affidata per due anni a una giovane coppia con cui è cresciuta serena, è stata data in adozione, per sentenza del tribunale, senza che potesse tuttavia svolgersi un percorso di distacco graduale dalla famiglia con cui aveva trascorso i suoi primi anni di vita. 21 luglio nasce e si caratterizza dunque per la tutela dei diritti umani, in particolar modo dei più deboli. Carlo Stasolla, già membro, come rappresentante dell'associazione, della commissione parlamentare per il contrasto della xenofobia Jo Cox e della Consulta per le migrazioni della Fondazione Migrantes, dopo aver vissuto per quattordici anni all’interno degli insediamenti rom della capitale, dove ha conosciuto anche sua moglie Dzemila Salkanovic, di etnia rom, si impegna nella testimonianza e nella lotta per il rispetto dei diritti di queste comunità e per il miglioramento delle loro condizioni di vita, favorendone l’integrazione. Nel 2013 pubblica “Sulla pelle dei rom”, in cui conduce un’analisi delle politiche verso le comunità rom messe a punto dal Comune di Roma all'epoca in cui il sindaco era Gianni Alemanno. Con 21 luglio lavora a livello istituzionale, per la formulazione di concrete strategie di inclusione, ma anche a livello comunitario, per mettere le singole comunità nella condizione di accedere ai diversi servizi di assistenza sociale, e mass-mediatico, nel tentativo di sensibilizzare un’opinione pubblica spesso ostaggio di pregiudizi. A nove anni dalla nascita dell'associazione, si può dire che in questo momento storico si manifesta in modo particolarmente urgente la necessità di riportare al centro il tema della condizione di discriminazione e, in alcuni casi, di segregazione delle minoranze?L’idea dell'associazione nasce in piena emergenza nomadi. Si trattava del periodo di massima violazione dei diritti umani nei confronti delle comunità rom in Italia e 21 Luglio si costituisce proprio con la volontà di creare un’organizzazione indipendente svincolata dai fondi pubblici - che, secondo le regole fissate dal primo Statuto, non possiamo ricevere - con un approccio legato ai diritti umani e con una visione sistemica del tema. Bisogna però dire che in realtà, su questo tema, c’è un deficit costante, che è possibile osservare nell’operato delle varie forze politiche che si sono alternate e si alternano alla guida del Paese. C’è un razzismo esplicito e diretto, che si manifesta oggi e che è sotto gli occhi di tutti, e un razzismo più pericoloso perché meno evidente, quello “democratico”, quello per esempio della sinistra rutelliana e veltroniana che a Roma ha dato vita al “sistema campi”, un dispositivo istituzionale che marginalizza e segrega su base etnica i gruppi rom in quanto tali.Cosa sta succedendo in Campania?A Giugliano un’amministrazione di sinistra ha deciso, i primi giorni di aprile, di espellere dal Comune quattrocento persone di etnia rom, di cui più della metà minorenni, presenti sul territorio da più di trent'anni. Il nostro intervento si è esplicato in diverse azioni, che vanno dallo sciopero della fame, all’attività mediatica, al lavoro di advocacy, fino ad arrivare al ricorso alla Corte europea per i diritti umani. È così che siamo riusciti a far sì che queste persone potessero restare nel Comune, accampandosi in un’area da cui non sarebbero state nuovamente sgomberate, e ad avviare un’interlocuzione con il Comune fino ad ottenere l’impegno di quest’ultimo nel reperimento di somme che permettano l’inclusione abitativa delle famiglie rom di Giugliano. È necessario continuare a seguire la vicenda, che potrebbe rappresentare un precedente molto importante.Quali sono le principali azioni che mettete in campo?In una visione sistemica del tema dell’inclusione delle comunità rom marginalizzate, svolgiamo attività di ricerca, di advocacy e di monitoraggio sul territorio nazionale: in questo modo possiamo poi redigere report e “rapporti ombra”, promuovendo anche azioni legali. Poi c’è il lavoro di empowerment che conduciamo con la comunità rom, attraverso attività educative particolarmente innovative e sempre rigorosamente di alta qualità. Abbiamo, ad esempio, organizzato un corso di formazione per attivisti rom e sinti, così da preparare dodici giovani sull’utilizzo degli strumenti nazionali e internazionali di tutela dei diritti e lotta alla discriminazione: al termine del corso, ai partecipanti più meritevoli è stata data la possibilità di svolgere un tirocinio retribuito di tre mesi a Roma o a Budapest, mentre agli altri è stato dato sostegno nella ricerca di ulteriori opportunità di stage. Un altro importante progetto è stato “Danzare la vita”, che ha coinvolto 46 minori rom e non rom di un Istituto comprensivo di Roma in incontri di danzaterapia e danza teatrale, al fine di favorire l’integrazione utilizzando l’elemento artistico quale strumento educativo. In questo momento, sono aperte le iscrizioni per il corso di formazione per amministratori pubblici sul superamento dei campi rom in Italia. Si tratta di un corso rivolto ad esponenti delle istituzioni regionali e locali, dirigenti e funzionari pubblici, e personale di uffici comunali, che perseguono l’obiettivo dell’inclusione delle comunità rom e sinte. Gli incontri avranno luogo il 26 e 27 settembre a Roma, località Tor Bella Monaca, al Polo ex Fienile di largo Mengaroni, e per iscriversi c’è tempo fino al 30 agosto. Basta andare sul nostro sito e compilare il modulo, da inviare insieme al proprio cv. Sebbene molte delle nostre attività si svolgano a Roma, e in particolare proprio nella difficile area di Tor Bella Monaca, bisogna ricordare che, grazie al partenariato con tante associazioni italiane e internazionali, l'associazione opera anche in altre città italiane, come ad esempio Torino e Napoli, e in generale ovunque si abbia a che fare con comunità in condizioni di svantaggio e marginalizzazione.Dal punto di vista economico, quali sono le risorse e i sostenitori di 21 Luglio?Non potendo da Statuto accedere a finanziamenti pubblici, i nostri finanziatori sono soprattutto fondazioni estere e, in piccola parte, italiane. Contiamo poi anche sul sostegno di donatori individuali che hanno sposato la nostra causa e che ci sono vicini.Come funziona il lavoro nell’associazione?Abbiamo un direttivo composto da sette persone, tre delle quali provengono dalle comunità rom, e di uno staff operativo compone da una ventina di persone, impegnate in vari settori:  alcuni si occupano della gestione, dello sviluppo e della crescita dell’associazione, altri dell’area diritti umani, e altri ancora dell’area empowerment all’interno la comunità, che svolgiamo prevalentemente nel cuore della periferia romana, a Tor Bella Monaca.Come si può collaborare con l’associazione?Chi ha a cuore la nostra causa e vuole sposare la nostra battaglia può aiutarci diventando volontario. I nostri volontari hanno la possibilità di svolgere compiti differenti, in base alle loro capacità e ai loro desideri: possono supportare l’attività di sostegno scolastico all’interno di alcuni insediamenti rom della periferia di Roma, partecipare alla preparazione di eventi e attività dell’associazione o lavorare alla traduzione di documenti e rapporti internazionali. Per coloro che hanno particolare familiarità con la tecnologia e il web design, c’è la possibilità di diventare un “volontario digitale”, diffondendo le nostre iniziative sui social network, mentre ad esempio, per gli appassionati di fotografia, c’è la possibilità di lavorare alla produzione di materiale fotografico per documentare il contesto in cui operiamo. Per candidarsi come volontari basta andare sul nostro sito e compilare l’apposito modulo. I candidati selezionati saranno poi coinvolti in una giornata di formazione, mentre per i volontari già operativi sono previsti aggiornamenti periodici.Qual è la risposta della società alla vostra attività?Bisogna dire che i pregiudizi e gli stereotipi che avvolgono il mondo rom si riverberano anche sulla considerazione che l’opinione pubblica può avere della nostra associazione. Se questo è, da una parte, un limite, dall’altro è anche una risorsa, poiché se riusciamo, come associazione, a farci conoscere e apprezzare, possiamo arrivare allo stesso tempo a cambiare anche la percezione che grande maggioranza delle persone ha dei gruppi rom. In che cosa 21 Luglio può considerarsi diversa dagli altri progetti? E che significato ha avuto esser nominato Fellow?Il solo fatto di occuparsi dei diritti di rom, nel contesto attuale, costituisce una sfida controcorrente. Vogliamo distinguerci, come altre organizzazioni amiche, per fibra etica, professionalità, passione e coerenza. In questo senso, ricevere la nomina ad Ashoka Fellow dà sicuramente una grande spinta, una spinta in più a lavorare meglio e con sempre maggiore incisività.Quale è l'impatto più forte che la vostra attività ha avuto nella società?Sicuramente abbiamo fatto maturare tra gli amministratori pubblici e nella società la consapevolezza dell’importanza e dell’urgenza di superare la segregazione abitativa delle comunità rom in Italia. Sono in tanti, adesso, ad esserne convinti. Il prossimo passo è far capire che la cosiddetta politica della “ruspa” è sicuramente meno impattante e più costosa della politica dell’inclusione. E’ questa la sfida che ci attende domani.Intervista a cura di Giada Scotto

Colloquio in SDG, istruzioni per l’uso

Tra le aziende parte del network virtuoso della Repubblica degli Stagisti, e in particolare tra quelle che si occupano di consulenza, si trova SDG Group, gruppo internazionale di management consulting focalizzato su Business analytics, Big data management, CPM & Financial analytics. Con quattro sedi in Italia a Milano, Firenze, Roma e Verona – e inoltre più branch in Spagna, Germania, Francia, UK, USA e Middle East – ai suoi stagisti SDG offre 900 euro di rimborso spese più buoni pasto, e ha un tasso di assunzione post stage di oltre il 40%. Protagonista di questa nuova puntata della rubrica “Colloquio, istruzioni per l’uso”, a parlare del processo di recruiting in azienda è Federica Vascello, 28 anni, laureata in Formazione e sviluppo delle risorse umane all'università di Milano Bicocca e da un anno HR Talent acquisition recruiter dopo un'esperienza in un'altra grande realtà consulenziale, Accenture.Quali sono i profili che ricercate maggiormente nella vostra azienda?I profili più interessanti per noi sono neolaureati in discipline tecnico-scientifiche. Le lauree di maggiore interesse sono ingegneria gestionale, ingegneria informatica, ingegneria matematica, ingegneria biomedica, ingegneria fisica, matematica, fisica, statistica ed economia. Il candidato ideale è una persona fortemente interessata al mondo della consulenza con una forte inclinazione per la tecnologia applicata alla gestione dei processi di business. Occorre avere ottime capacità logiche, essere intraprendenti e curiosi, con uno spiccato senso di responsabilità professionale e con un’ottima e comprovata conoscenza della lingua inglese scritta e parlata, perché molti dei nostri progetti sono internazionali.Come funziona in generale il vostro iter di selezione?Dopo aver ricevuto il curriculum, se il candidato è interessante lo contattiamo telefonicamente per un colloquio motivazionale. In seguito il candidato viene invitato a partecipare ad un recruiting day insieme ad una decina di persone: la maggior parte delle volte infatti tutti gli step di selezione vengono affrontati dai candidati in un’unica giornata. Durante la giornata organizziamo un assessment di gruppo, anche per più posizioni, dove presentiamo la società e sottoponiamo un business case da risolvere, prima in maniera individuale e poi in gruppo attraverso una discussione. La risoluzione del caso ci fa capire come ragiona una persona, come approccia il problema, come reagisce, se entra in ansia o se cerca di superarlo, e quindi dà conto di soft skills come il problem solving e la capacità di comunicazione e di relazione. Alla fine dell’assessment i candidati compilano un questionario motivazionale, che poi viene discusso con il team delle risorse umane. La selezione prosegue, per chi supera questo primo step di un paio d’ore, con altri due colloqui: il primo con un manager di linea, più tecnico, dove viene sottoposto un altro business case di tipo quantitativo e logico, esercizi Excel per testarne la conoscenza e vedere come il candidato si pone, più qualche domanda in inglese. Sulla lingua la certificazione non è necessaria ma chiediamo un livello buono, B2 o C1, e apprezziamo anche l’eventuale conoscenza di altre lingue. A seguire c’è un ultimo colloquio con un partner, sempre conoscitivo e motivazionale.Preferite i cv nel formato standard “europass”?No, è assolutamente preferibile un cv personalizzato, innanzitutto perché un neolaureato non ha necessità di fare un cv troppo lungo: inserire esperienze lavorative è importante, ma considerando che di solito i neolaureati si candidano per posizioni di cui non hanno mai avuto modo di approfondire le attività, non ha senso inserire esperienze pregresse che non sono pertinenti con il loro titolo di studio. Preferiamo di gran lunga un curriculum di una pagina in cui emergano le informazioni fondamentali, la creatività e le passioni del candidato (come lo sport: un candidato che ha fatto dieci anni di sport di squadra fa capire che è una persona che lavora bene in team), piuttosto che una lista di esperienze poco significative. Apprezzate le autocandidature oppure preferite che ci si candidi solamente ai vostri annunci?Certo, apprezziamo sicuramente le autocandidature! Sul nostro sito web abbiamo una sezione dedicata sia per consentire ai candidati di inviare il curriculum spontaneamente, sia per segnalare le posizioni aperte per cui fare domanda. Pubblichiamo anche gli annunci tra le pagine delle università e su siti come Monster e Infojobs. Guardiamo ai curriculum che ci arrivano da tutti i canali, anche semplicemente per email. Sui social, per pubblicizzare le posizioni aperte utilizziamo soprattutto Linkedin e consigliamo sempre ai nostri candidati di seguire la nostra pagina per restare aggiornati su tutte le offerte lavorative e non. Siamo presenti anche su Facebook e Instagram, anche se non sono canali che usiamo per fare recruiting.Dato che i vostri candidati ideali hanno profili tecnico scientifici, riscontrate qualche difficoltà a reperire candidati donne?Negli ultimi mesi le quote rosa sono sicuramente aumentate, siamo assolutamente sensibili a questa tematica. Il lavoro del consulente si pensa sia più in linea con le vesti maschili, a causa di frequenti trasferte, stress e così via. Le nostre consulenti però hanno una forte determinazione e flessibilità, pari a quelle degli uomini.E più in generale, ci sono delle competenze che ricercate nei candidati ma che faticate a trovare?Il più delle volte si tratta di competenze tecniche, magari legate ai linguaggi di programmazione. Alcuni neolaureati, ad esempio gli economisti, infatti, hanno di solito poca dimestichezza perché non sono materie che hanno affrontato durante il loro percorso di studi. Qual è l'errore che non vorreste mai veder fare a un candidato durante un colloquio? Che un candidato chieda come primissima informazione, in occasione del primo colloquio, addirittura magari già al telefono, informazioni sullo stipendio e l'orario di lavoro. Purtroppo ci è capitato, ed è un comportamento che non fa una buona impression. Perché nel primo colloquio ci sono tanti aspetti su cui informarsi prima: si sa che nel campo della consulenza gli orari sono flessibili, quindi si presume che un candidato interessato a lavorare in questo ambiente si sia informato anche su questi aspetti. Come date i vostri feedback?Siamo molto rapidi nel gestire l’iter, soprattutto se facciamo i recruiting day. Tutti i candidati hanno un riscontro entro 10-15 giorni dalla data del colloquio. Se è negativo, solitamente arriva per mail, mentre se è positivo facciamo una telefonata.Ci sono differenze tra l'iter di selezione per selezionare uno stagista oppure una persona da inserire direttamente con contratto?Uno stagista in SDG è un consulente a tutti gli effetti, quindi l'iter è lo stesso. Offriamo stage anche a chi non ha ancora concluso il percorso formativo ma ha concluso gli esami, in modo da poter essere il più flessibili alla richiesta di permessi studio, e offriamo stage part-time a chi ha qualche esame da concludere. Se lo stage viene attivato e dà esito positivo, proponiamo l’apprendistato.Intervista raccolta da Irene Dominioni

"Addio al pizzo" consumando e viaggiando criticamente: una rivoluzione silenziosa nelle parole di Dario Riccobono

Dar vita a una rivoluzione culturale contro la mafia e restituire ai cittadini la loro libertà, perché “un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. È con questa idea che Dario Riccobono, protagonista della terza intervista del ciclo dedicato da Repubblica degli Stagisti agli Ashoka Fellow, decide insieme ad un gruppo di giovani di dar vita nel 2004 ad Addiopizzo, un’associazione senza scopo di lucro che promuove il consumo critico contro il pizzo, sostenendo i commercianti che hanno deciso di ribellarsi alla mafia. Dalla stessa idea nasce nel 2009 anche Addiopizzo Travel, cooperativa sociale e tour operator che propone un “turismo etico” alla scoperta dei luoghi e delle storie più significative della lotta antimafia. Siciliano, classe 1979, con una laurea in Scienze della comunicazione e un master in Economia e gestione del turismo, Dario cresce infatti negli anni che vedono la sua terra impegnata più che mai nella lotta alla criminalità mafiosa, gli anni di Borsellino e di Falcone, ucciso proprio nel paese in cui Dario è nato, Capaci. Così decide di mettersi a lavoro per dare un segnale forte al proprio territorio. Come nasce l’idea di Addiopizzo?Come un vero e proprio movimento provocatorio. Nel 2004 un gruppo di sette ragazzi eragazze tra i venticinque e i trent'anni, di cui ancora non facevo parte, tutti studenti universitari e giovani lavoratori, inizia ad affiggere di notte, per la città di Palermo, adesivi con scritto “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. L’idea era quella di smuovere i palermitani e i siciliani tutti, costringendoli a riflettere sul fenomeno del pizzo come su di un problema che tocca tutta la collettività, fatta di commercianti e imprenditori, ma anche di consumatori. Il nucleo iniziale di sette persone è cresciuto velocemente e, dopo un mese da quel gesto, sono iniziate riunioni partecipatissime, a cui ho partecipato insieme a più di altri cento giovani. Lì è nata l’idea di creare di un sito web, a cui ha fatto seguito la fondazione di un’associazione senza scopo di lucro, Addiopizzo appunto, che doveva promuovere l’acquisto di prodotti presso quei commercianti che, non cedendo alle richieste estorsive, si sono apertamente schierati contro la prepotenza mafiosa. Così nel 2005 lanciamo la campagna di consumo critico Pago chi non paga, che costituisce tutt’ora il fulcro della nostra azione. Ma non finisce qua. Cinque anni dopo, nel 2009 insieme a Edoardo Zaffuto e Francesca Vannini, diamo vita a Addiopizzo Travel, oggi cooperativa sociale e tour operator che propone quello che definiamo un “turismo etico”, ossia un turismo che permetta di scoprire luoghi e storie significative della lotta antimafia. I nostri itinerari sono aperti a chiunque, turisti e non, voglia fare questo tipo di esperienza, anche se la maggior parte della nostra attività si concentra nell’incontro con gli studenti durante i loro viaggi d’istruzione in Sicilia: cerchiamo di trasformare la gita in un percorso di educazione civica. Anche qui, come nel “consumo critico”, l’approccio è “pizzofree”, poiché i fornitori a cui ci appoggiamo – albergatori, ristoratori, proprietari di aziende agricole – hanno tutti scelto di ribellarsi alla mafia.Avvicinare i più giovani al tema della lotta antimafia è quindi una delle vostre priorità. Promuovete altre attività in questa direzione?Accanto al consumo e al turismo critico, ci occupiamo di progetti di educativa di strada, per entrare in contatto con bambini che vivono in contesti difficile e a rischio: i nostri volontari organizzano incontri di formazione ed educazione ma anche attività sportive e culturali che coinvolgono i ragazzi meno abbienti del quartiere popolare della Kalsa, nei pressi di piazza Magione, a Palermo. E poi ci occupiamo di educazione alla legalità: dal 2005 interveniamo infatti nelle scuole di Palermo e della provincia con percorsi che mirano a far conoscere ai più giovani il fenomeno del pizzo. All’inizio eravamo noi a proporci, adesso sono i presidi stessi ad invitarci nelle loro scuole, così che il nostro lavoro ha portato al coinvolgimento di oltre centottanta scuole nella provincia di Palermo e alla realizzazione di veri e propri progetti educativi.Qual è la risposta della società alla vostra attività?Per fortuna abbiamo ottimi riscontri. Oggi pagare il pizzo in città è diventato un disvalore, cosa impensabile quando abbiamo cominciato! E crescono anche le denunce, assenti quindici anni fa. I negozi e le imprese che hanno aderito ad Addiopizzo e al suo “consumo critico” sono oggi quasi mille, per l'esattezza 999, e i consumatori che li sostengono oltre 13mila. Per raggiungere questi risultati abbiamo puntato ad intervenire, da un lato, sui sentimenti dei consumatori, stanchi di sentirsi complici e finanziatori, seppur indirettamente, della mafia, e dall’altro sulle responsabilità dei commercianti, facendo leva sul senso di responsabilità ma anche sulla convenienza economica: aderire ad Addiopizzo significa anche guadagnare clienti.  C’è poi un altro aspetto da tenere inconto: negli ultimi anni, infatti, molti commercianti ci hanno spontaneamente cercati poiché far parte di un’ampia rete di persone che si stringono e fanno forza reciprocamente porta a una sorta di “protezione preventiva” contro la mafia. All’inizio non è stato affatto facile convincere i commercianti, perché c’era tanta paura. Ma con pazienza e sacrifici siamo riusciti a far crescere la lista e oggi non pagare il pizzo e non rischiare nulla è una realtà a Palermo. Alcuni pentiti di mafia hanno confermato che Cosa Nostra non si rivolge più ai commercianti pizzo-free per richieste estorsive per paura di essere denunciata. Anche il “turismo etico” sta ottenendo grandi risultati, e i viaggiatori che scelgono vacanze pizzofree aumentano infatti in maniera esponenziale: hanno già collaborato con noi oltre sessanta scuole siciliane, 166 scuole e università italiane e una quarantina di scuole e università straniere, nonché circa ottanta tour operator e agenzie di viaggio.Come funziona il lavoro in Addiopizzo e in Addiopizzo Travel?Addiopizzo ha due dipendenti che si occupano della segreteria, mentre tutti gli altri, me compreso, sono volontari; le principali risorse arrivano dal “cinque per mille”, a cui si aggiungono altri proventi come, ad esempio, le donazioni e il contributo della regione Sicilia antiracket. Addiopizzo Travel, invece, è una cooperativa sociale che dà lavoro a sei persone in ufficio, a cui si aggiungono una decina di collaboratori con partita Iva che guidano i gruppi in varie attività sia a Palermo che nei resto della Sicilia; vive principalmente delle quote dei viaggiatori.L’elezione ad Ashoka fellow è andata ad Addiopizzo o direttamente a te? L’elezione ha riguardato me, ma Ashoka Italia ha capito sin da subito che il nostro è un progetto collettivo,efficace e incisivo solo perché corale. Il percorso è stato impegnativo, ci sono stati molti colloqui da affrontare, ma siamo stati tutti fiduciosi sin dall’inizio, proprio perché sicuri del nostro operato. A sorprenderci di più è stato l’esito della ricerca sugli imprenditori sociali in Italia: moltissimi innovatori sociali italiani, dovendo fare il nome di altri innovatori sociali, hanno fatto il nostro, tanto che siamo risultati tra i primi tre più citati dal campione. E questa è stata una piacevolissima sorpresa.Che significato ha esser nominati Fellow?È fantastico! Rappresenta non solo un riconoscimento importantissimo, che ripaga di tutti i sacrifici fatti, ma, soprattutto, una possibilità di crescita straordinaria. E stare accanto a tante persone che ammiro è motivo di forte crescita.In che cosa Addipizzo può considerarsi diverso dagli altri progetti?Addiopizzo è diverso perché nasce dal basso, dalla consapevolezza che la nostra terra può migliorare solo con l’impegno di tutti. E poi è diverso perché non ci siamo prefissati un obiettivo finale, un traguardo, ma ne raggiungiamo uno nuovo ogni giorno, preoccupandoci più del cammino che del punto di arrivo. Quello che sentiamo sulle spalle è un peso enorme, la responsabilità verso tutti coloro che hanno lasciato a malincuore la nostra terra e verso coloro che, non volendo chinare la tesa, hanno perso la vita, e quello che ci muove è questa voglia di fare il nostro dovere, di fare pace con noi stessi e con la nostra terra, di placare i sensi di colpa dopo anni di indifferenza. Questo è quello che mettiamo in campo ogni giorno con orgoglio e passione.Quale è l'impatto più forte che senti di aver avuto nella società con questa attività?La cosa più importante è aver contribuito a rendere conveniente lo stare dalla parte della legalità. In una terra dove la mafia era un punto di riferimento, dove era il boss a risolverti i problemi e trovarti un posto di lavoro, questo è un gran passo in avanti. Oggi ci sono giovani che non sono costretti ad emigrare grazie alle possibilità che gli abbiamo offerto e aziende che devono al nostro lavoro la loro sopravvivenza.Intervista a cura di Giada Scotto

Reddito di cittadinanza, domande e risposte

Chi ha diritto al reddito di cittadinanza? E quali sono i requisiti per accedere a questa misura, che a fine aprile - secondo quanto comunicato dall'Inps - è stata richiesta da oltre un milione di italiani? La Repubblica degli Stagisti ha chiesto all'avvocato Andrea Brunelli, 34 anni, che dal 2013 si occupa di diritto del lavoro nel proprio studio di Genova, di ripercorrere le "regole di ingaggio" della nuova norma voluta dal governo. Avvocato, quali sono i requisiti per richiedere il reddito di cittadinanza?Andiamo a riprendere il testo normativo, cioè il decreto legge 4/2019. Per presentare richiesta di reddito di cittadinanza è necessario essere cittadini italiani, di un paese comunitario o straniero con un permesso di soggiorno di lungo periodo; la residenza da non meno di dieci anni, di cui gli ultimi due continuativamente; non avere la disponibilità di beni mobili di valore superiore ai 6mila euro. Quindi un expat appena rientrato in Italia non avrebbe diritto alla misura?In teoria no. Su questo punto esistono delle riserve e nei prossimi mesi potrebbero essere sollevate delle eccezioni di costituzionalità da parte di gruppi di cittadini interessati alla tematica: lederebbe il principio di uguaglianza. Quali sono le soglie di reddito? È necessario avere un Isee non superiore ai 9.360 euro annui e avere un reddito familiare complessivo inferiore a 6mila euro; si sale a 9.630 per chi vive in affitto. Naturalmente, nessun componente del nucleo familiare deve possedere auto o moto di grossa cilindrata, navi e imbarcazioni da diporto. Questo a grandi linee: per essere sicuri di rientrare nei parametri è importante controllare i requisiti sul sito governativo dedicato al reddito di cittadinanza. Cosa si intende per nucleo familiare? Il nucleo familiare è lo stesso che viene considerato per l'Isee. E' composto innazitutto dal dichiarante e dai componenti della famiglia anagrafica, cioè coloro che risiedono sotto lo stesso tetto. Si considerano però parte del nucleo familiare anche i soggetti a carico non conviventi, ad esempio un figlio minorenne che viva dai nonni per motivi di studio o un figlio maggiorenne, sotto i 24 anni e i 4mila euro di reddito annuo: è il caso di tanti studenti che vivono fuori casa per l'università ma si mantengono le piccole spese con un lavoretto part time. E nessuno dei componenti del nucleo deve essersi licenziato volontariamente di recente. Si, nessun deve aver presentato le dimissioni senza giusta causa nei 12 mesi precedenti alla richiesta: la ratio è che lo stato di disoccupazione deve essere “incolpevole”. Sono escluse, ovviamente, le dimissioni per giusta causa. Qualche esempio? Chi  non veniva pagato, chi subiva discriminazioni su base etnica o religiosa oppure pesanti forme di mobbing. Questi soggetti possono accedere alla disoccupazione e anche al reddito. E per le donne che hanno appena avuto un figlio? Se hanno un lavoro ci sono già le tutele previste per la maternità. Se sono disoccupate e rientrano nei requisiti, possono invece accedere alla misura. Ricordo che le dimissioni entro l'anno di vita del neonato sono considerate aventi giusta causa, ma devono essere convalidate dall'ispettorato del lavoro per evitare abusi, che purtroppo in Italia sono frequenti. Il licenziamento entro i 12 mesi di vita del bambino è, invece, sempre impugnabile. Quali sono le modalità attraverso cui è possibile richiedere il reddito di cittadinanza? Il reddito di cittadinanza può essere chiesto autonomamente collegandosi al sito del ministero del Lavoro.  Ma naturalmente è possibile anche richiederlo presentando di persona la domanda ai Centri di Assistenza Fiscale (CAF) oppure agli uffici postali, dopo il quinto giorno di ciascun mese. Dove si trovano i moduli per presentare la domanda? I link si trovano sul sito dedicato: la domanda va stampata, compilata e presentata negli uffici postali o al CAF. In alternativa, è possibile compilare la  domanda direttamente dal proprio computer; in questo caso sono necessarie le credenziali SPID2 per verificare l'identità del richiedente. Alcuni sostengono che il reddito di cittadinanza potrebbe scoraggiare la ricerca di lavoro.Ma chi chiede il reddito di cittadinanza deve dichiararsi immediatamente disponibile al lavoro e impegnarsi a effettuare un percorso di inclusione sociale e lavorativa. È necessario impegnarsi a terminare gli studi, a mettersi al servizio della comunità, a riqualificarsi professionalmente, e naturalmente, bisogna attivarsi per cercare un impiego. A quanto ammonta il reddito di cittadinanza, e per quanto tempo si percepisce l’assegno? Gli importi possono arrivare fino a 780 euro, per chi vive in affitto. L’assegno si può percepire per un massimo di 18 mesi rinnovabili una volta. Ma negli ultimi giorni si è verificato un fatto sorprendente: data la modularità della misura e i controlli che portava con sé, ai CAF hanno cominciato ad arrivare molte rinunce. È possibile la sospensione?Si, certamente. Avviene in caso di rifiuto di un’offerta di lavoro congrua, ma anche di accettazione di una proposta di lavoro con un reddito che supera i parametri. Cosa si intende per "offerta congrua? Per offerta congrua si intende una proposta coerente con le esperienze lavorative precedenti del soggetto percettore del reddito e con le sue competenze professionali. Il problema vero è quello delle distanze: la norma prevede che la prima proposta di lavoro sia ritenuta congrua se entro i 100 km dal luogo di residenza, la seconda entro i 250, mentre per la terza il requisito è che sia sul territorio nazionale. Veniamo ora allo stage. È possibile richiedere, percepire o continuare a percepire il reddito di cittadinanza se si sta effettuando un tirocinio extracurriculare? A mio avviso sì. Il reddito di cittadinanza è compatibile, in generale, con eventuali redditi da lavoro o indennità, ovviamente molto bassi, altrimenti si sforerebbero i limiti per poter accedere alla misura.E nel caso di un tirocinio curriculare?Si guarda sempre all'indennità. Se si effettua uno stage si ha diritto al reddito, a meno che il nucleo familiare superi le soglie di cui sopra. Il reddito di cittadinanza è cumulabile con la Naspi, cioè il sussidio comunemente detto “di disoccupazione”?Sì, viene espressamente previsto da una norma del cosiddetto “Decretone”. Ovviamente la percezione della Naspi determina una rimodulazione del reddito di cittadinanza il cui importo sarà, conseguentemente, più basso.Si ha già notizia di escamotage per ottenere il reddito di cittadinanza indebitamente? Gli escamotages più “semplici” sono quello di ottenere una separazione solo formale da parte dei coniugi – con uno dei due che cambia contestualmente residenza – e cambiamenti strategici di residenza, specie per le famiglie che possono godere della proprietà di un immobile in qualche comune rurale, magari quello d’origine delle famiglie. È stata inserita una norma che, però, subordina l’efficacia della separazione ai fini della percezione del reddito di cittadinanza alla presentazione di una dichiarazione della Polizia Municipale che attesta che, effettivamente, i coniugi separati non vivano realmente più nello stesso immobile.Esiste la possibilità che un ragazzo di buona famiglia "esca" dal nucleo familiare per percepire indebitamente il reddito? In teoria sì, ma a mio avviso si tratta di un falso problema: uscendo dallo stato di famiglia il genitore non scarica la sua posizione dalle tasse, annullando quasi il beneficio. Se invece il figlio vuole veramente rendersi autonomo, è giusto che lo percepisca. intervista a cura di Antonio Piemontese

Colloquio in Prometeia, istruzioni per l'uso!

Prometeia è una società di consulenza, sviluppo software e ricerca economica specializzata nelle soluzioni per il Risk e il Wealth Management e nei servizi per gli investitori istituzionali; i suoi clienti sono banche, assicurazioni, imprese ed enti pubblici. Dal 2018 fa parte del network di imprese virtuose della Repubblica degli Stagisti: ospita ogni anno un’ottantina di tirocinanti a cui offre una indennità di 470 (per i curriculari) e 950 euro netti (per gli extracurriculari), e la probabilità di essere assunti dopo un tirocinio supera il 90%. Inoltre l'azienda ha anche una modalità di assunzione diretta di profili junior per alcuni profili: in particolare nel 2017 ha assunto senza passare attraverso lo stage una quindicina di under 30, prevalentemente facendo loro contratti di apprendistato.Martina Occhipinti, 31 anni, laureata in Lingue moderne per la comunicazione e la cooperazione all’università di Bologna e dal 2014 Human Resources Specialist di Prometeia, racconta ai lettori della Repubblica degli Stagisti come funziona il meccanismo di ricerca e selezione del personale in azienda.Quali sono i profili che ricercate di più? Prometeia è alla ricerca di laureandi e neolaureati magistrali in discipline come economia, finanza, ingegneria, statistica e informatica. I candidati ideali, oltre ad aver conseguito dei brillanti risultati durante il loro percorso accademico, sono curiosi e appassionati: non guardano semplicemente avanti ma lontano. Siamo una società internazionale, con quattro branch all’estero – Londra, Istanbul, Mosca, Il Cairo – e nove presenze con partner locali e clienti in venti paesi: Europa, Middle East, Africa. La conoscenza dell’inglese è un requisito fondamentale e sapere una seconda lingua – tedesco, francese, arabo – rappresenta un asset rilevante. In Prometeia accogliamo con favore chi ha studiato e vissuto all’estero e chi in generale ha già raccolto la sfida di uscire dalla propria zona di comfort andando alla ricerca del nuovo e inesplorato.Come funziona il vostro iter di selezione? Il primo step prevede lo screening dei cv che riceviamo attraverso i canali online – portali universitari, sito aziendale, LinkedIn – e offline, come career day ed eventi di recruiting, segnalazioni interne. I cv che HR considera in linea con le ricerche aperte vengono sottoposti alla valutazione dei manager responsabili di area e i candidati idonei vengono chiamati per i colloqui di selezione. L’iter si compone di tre, a volte quattro, step: un primo incontro con noi delle Risorse Umane, uno o due colloqui tecnici con i manager dell’area e l’ultima intervista con l’head del dipartimento. In caso di feedback positivo, entro una settimana e mezza dal primo colloquio contattiamo il candidato per la proposta di stage/assunzione.Preferite i cv nel formato standard “europass” o apprezzate anche quelli personalizzati? Non abbiamo preferenze a riguardo: vediamo centinaia di cv ogni giorno, per cui è fondamentale che il curriculum contenga tutte le informazioni di cui abbiamo bisogno – percorso di studi, esperienze professionali, competenze tecniche e linguistiche, soft skill. Va da sé che un cv ben suddiviso in sezioni, sobrio nella forma e nei contenuti, sintetico ma non scarno, ci aiuta sicuramente nel lavoro di screening. Com'è organizzato il vostro ufficio HR per la parte recruiting?Solitamente l’HR manager assegna a ciascuno di noi le ricerche, dividendole per aree e dipartimenti. In questo modo diventiamo owner di un processo, che va dal reperimento dei cv fino alla proposta finale, e ci specializziamo nell’area che ci è stata assegnata. La selezione è affidata ad head hunter in caso di profili con una seniority elevata e difficili da reperire, e a società di selezione specialmente in caso di figure IT. In entrambi i casi, siamo noi a intervistare i candidati, il loro aiuto consiste nel reperimento dei profili in linea. I vostri colloqui sono di gruppo o individuali? Ogni colloquio è un 1:1 tra candidato e intervistatore; al momento non facciamo assessment di gruppo, anche se è nei nostri programmi cominciare ad avvalerci di questo strumento per sondare le soft skill dei candidati. Le interviste sono condotte da uno dei recruiter del team HR, in inglese solo se il candidato non parla italiano. La durata è tra i venti e i trenta minuti. Solitamente chiediamo ai candidati di raccontare il proprio percorso universitario e di parlare delle proprie esperienze lavorative passate: quale ruolo ricoprivano, in quale divisione erano staffati, feedback sull’esperienza maturata. In parallelo, testiamo le competenze trasversali del candidato: le capacità relazionali e comunicative, l’attitudine al lavoro di gruppo e al problem solving. Chiediamo ai candidati di raccontarci episodi anche personali in cui hanno avuto modo di “sfoderare” le loro doti nel team working e nella gestione dello stress in situazioni difficili. Infine, in particolare per le posizioni di consulenza, testiamo la padronanza dell’inglese attraverso due brevi domande.Svolgete parte dei colloqui anche in una lingua straniera? Sì, nel caso i candidati stiano concorrendo per una posizione di consulenza. Siamo una società internazionale e la conoscenza dell’inglese è fondamentale. Rappresenta un plus la conoscenza di lingue come il tedesco o l’arabo, perché utilizzate nei paesi in cui abbiamo progetti in corso – ad esempio Austria, Germania, Medio Oriente.Apprezzate le autocandidature oppure preferite che ci si candidi solamente ai vostri annunci? Non abbiamo pregiudizi sulla fonte dei nostri cv: le autocandidature sono apprezzate solo se coerenti con le potenziali ricerche – il cv di un biologo, ad esempio, non potrà mai risultare in linea con le nostre ricerche – perché ci permettono di alimentare il nostro database di curricula da cui attingere non appena si apre una posizione. Usate i canali dei social network per entrare in contatto con giovani?Utilizziamo principalmente LinkedIn e apprezziamo che i candidati ci raggiungano attraverso questa piattaforma. Abbiamo anche da pochissimo reso disponibile una app per gli studenti e i giovani lavoratori interessati a iniziare un percorso in Prometeia. È scaricabile gratuitamente da Google Play e Apple Store, e dà l’opportunità di controllare le job offer, mandare il curriculum, conoscere le storie delle nostre persone e della vita in azienda, le iniziative in corso con le università e per il recruiting. La app è personalizzabile per aree di interesse e offre aggiornamenti costanti via notifiche push o mail. Ha anche un career test che consiglia il profilo professionale Prometeia più adatto.Avete un sito “Lavora con noi” attraverso cui raccogliete i cv degli aspiranti candidati? Come oramai tutte le aziende, anche noi abbiamo una sezione Career nel nostro sito internet ufficiale: il candidato interessato può compilare un form con le proprie informazioni personali e caricare il cv che così entra automaticamente nel nostro database. È preferibile usare questo canale anziché inviare la classica mail, per questione di tracciamento delle informazioni. Se un profilo è in linea va comunque bene indipendentemente dal canale con cui è stato inviato.Ricercate anche profili tecnico scientifici? Ricerchiamo profili di laureandi o laureati magistrali in discipline tecnico-scientifiche per le nostre aree di business – Finanza, Economia, Statistica, Informatica, Matematica, Fisica – e in discipline umanistiche per le aree di staff: Lingue, Filosofia, Comunicazione e Marketing. Riceviamo meno candidature femminili di area Stem – Science, Technology, Engineering and Mathematics – e la maggior parte delle risorse IT che abbiamo a bordo è di genere maschile, ma ci piacerebbe coinvolgere altrettante donne appassionate di sviluppo! In generale, in Prometeia, nelle diverse aree e funzioni, abbiamo tanti talenti femminili: un punto di forza di tutto il Gruppo. Qual è l'errore che non vorreste mai veder fare a un candidato durante un colloquio? L’errore da evitare è presentarsi al colloquio senza conoscere un minimo Prometeia e il suo core business: questo è indice di disinteresse e superficialità e compromette certamente l’andamento dell’iter di selezione. Siamo alla ricerca di persone appassionate, che guardano avanti e già in sede di colloquio capiamo se le abbiamo di fronte o meno.Se lo stage viene attivato e dà esito positivo, qual è poi l'iter contrattuale che solitamente proponete al giovane? Solitamente, se ne sussistono i requisiti, si procede con un contratto di apprendistato della durata di 36 mesi. Dopo questo periodo, il contratto si converte a tempo indeterminato. In Prometeia Non ci sono sostanziali differenze tra l'iter di selezione e le modalità di colloquio per selezionare uno stagista e l'iter per selezionare invece una persona da inserire direttamente con contratto.

“Rivendichiamo tre diritti per i giovani italiani: poter partire, poter restare, poter tornare”

Delfina Licata è una delle persone che conoscono più in profondità il fenomeno migratorio italiano. Dal 2006 anni cura un Rapporto annuale dedicato agli italiani nel mondo prodotto dalla Fondazione Migrantes, organismo pastorale della Cei (la Conferenza Episcopale Italiana). La settimana scorsa era a Palermo per una delle sessioni di lavoro del Seminario per la creazione di una rete di italiani del mondo, voluto dal Cgie, il Consiglio generale degli italiani all'estero, e in particolare da Maria Chiara Prodi per valorizzare l’enorme patrimonio – cinque milioni di persone, considerando solo quelle “ufficiali” cioè iscritte all’anagrafe dei residenti all’estero – di italiani fuori dall’Italia. Al Seminario hanno partecipato 115 giovani delegati provenienti da tutto il mondo: sia espatriati di recente (la cosiddetta “nuova emigrazione”) sia figli di emigrati di lungo corso (le “seconde e terze generazioni”). Alla fine del suo intervento Licata ha lanciato la sfida sui tre diritti che bisognerebbe garantire a tutti i giovani italiani: quello di poter partire, quello di poter restare in Italia, e quello di poter tornare indietro dopo un’esperienza all’estero.Come è cambiato il Rapporto italiani nel mondo in questi  anni?Il rapporto è presente sul panorama culturale italiano da tredici anni; la prima edizione, nel 2006, era stata richiesta come strumento di sensibilizzazione alla materia immigratoria, quindi “ricordando” agli italiani il loro passato emigratorio per poter approfondire il discorso dell’incontro di culture diverse. Quell’edizione era di poco più di 300 pagine e l’occhio era più rivolto al passato, come se fosse un fenomeno ormai da considerare nella lontana memoria. Invece i flussi continuavano e abbiamo pensato che valesse la pena di approfondire la ricchezza della mobilità italiana attuale. Ci siamo resi conto che non si poteva parlare solo di numeri ma bisognava vedere anche l’ottica storica, la geografia, la musica, la pittura, l’enogastronomia, tutte quelle sfaccettature che rendono la complessità e varietà della mobilità italiana. Con le parole chiave della transnazionalità e della biunivocità: cioè vedere il fenomeno non solo dall’Italia ma anche dall’estero, e mettere in dialogo gli italiani nei diversi luoghi del mondo in cui sono. Da lì il volume si è ampliato di tematiche e di argomenti, fino ad arrivare alle 536 pagine dell’ultima edizione, che sono anche sinonimo di una varietà di metodologie che abbiamo dovuto individuare proprio perché ci siamo resi conto che le fonti ufficiali sulla mobilità italiana sono molto carenti.È facile, e anche in questo seminario di Palermo è uscito molto, tracciare una differenza netta tra la vecchia emigrazione – quella dell’inizio del Novecento verso il Sudamerica, oppure negli anni Sessanta verso il centro Europa – e l’emigrazione di oggi, quella dei nostri ragazzi che partono col trolley, hanno Skype e i voli lowcost. Ma invece tra l’emigrazione del primo Rapporto e quella di oggi ravvisate differenze? In soli tredici anni avete rilevato delle modalità e profili diversi?Sicuramente sì. In numeri assoluti oggi partono sopratutto giovani e giovani adulti, quindi dai 18 ai 35 anni: adesso abbiamo anche molti giovanissimi che vanno a concludere un percorso di studio oppure che si specializzano subito dopo, mentre prima partivano sopratutto tra i 25 e i 35 anni.Quindi si parte prima.Sì. E addirittura molti sono minori perché a partire sono i nuclei familiari. Degli oltre 128mila partiti nell’ultimo anno 24mila sono minori, quindi vuol dire che sono minori che partono al seguito della famiglia, dei genitori.Questo può dipendere anche dal fatto che in Italia non ci sono grandi politiche per la famiglia e per la conciliazione vita-lavoro?Da una parte sì, ma quello che vediamo affiancando alla questione statistica la metodologia qualitativa, quindi le interviste, è che effettivamente in questo momento le necessità economiche spingono l'intero nucleo familiare a un percorso migratorio – e questo elemento in realtà ci porta alle vecchie emigrazioni, quando era tutta la famiglia che si spostava. Che cosa accade però oggi? Che le famiglie d’origine, che prima rimanevano in Italia aiutando magari economicamente i figli nei periodi di mobilità, oggi sperimentano anche loro il processo migratorio.  Soprattutto quando i bambini sono al di sotto dei dieci anni, finiscono per essere i babysitter nei luoghi di emigrazione.Quindi questi nonni seguono figli e nipoti.Sì; prima per periodi di tre mesi, sei mesi, poi sempre più lunghi, fino a volte al completo trasferimento. Una delle tendenze di quest’ultimo anno è proprio questo trasferimento anche dei genitori proprio di supporto alle famiglie giovani, sopratutto ai nipoti non ancora in età scolare.Molto spesso l’emigrazione è spinta dal cercare un’opportunità di lavoro. Qual è a spanne la percentuale, dei 128mila per esempio dell’anno scorso, che parte per motivi professionali?La maggior parte dei giovani, quindi di quel 37% di coloro che si sono spostati in età di lavoro, lo ha fatto per motivi di lavoro.Dunque quasi tutti coloro che partono in età lavorativa, giovani e giovani adulti, partono di fatto perché trovano migliori condizioni lavorative all’estero che in Italia.O le trovano… o le cercano! Oppure vogliono specializzare all’estero, quindi vivono il percorso migratorio per completare gli studi o per approfondire il percorso professionale. La motivazione è sempre il lavoro, o comunque la riuscita professionale. Però poi quando li vai a intervistare vis-à-vis vedi che il motivo “lavoro” va declinato ancora una volta e porta al piano personale, perché il fatto di stare bene a livello professionale ti porta a stare bene a livello identitario, a livello proprio di realizzazione di sé stessi.Una cosa che si dice spesso è che è uno spreco perché abbiamo i nostri laureati che vanno a fare i camerieri a Londra. C’è una risposta a questa obiezione?Da parte del migrante sì. Perché il ragazzo dice: Sì, è uno spreco perché ho una laurea – magari in biologia – però se fossi rimasto in Italia a fare il biologo sarei stato un biologo infelice e soprattutto non avrei fatto la professione con la stessa cura con cui sono commesso o barista. Intendo dire che se magari all’estero si finisce per fare un lavoro dequalificato rispetto al titolo di studio preso, la parolina magica è quella della meritocrazia: si trova meritocrazia in un lavoro dequalificato, fuori dai confini nazionali, rispetto a quello che fino a quel momento è stato fatto in Italia.C’è anche un aspetto di transitorietà? Cioè l’idea che non facciano i baristi per sempre.Sì, infatti io parlo di “mobilità precaria”, di persone “stabilmente in movimento”: perché non si ha l’idea di essere arrivati a Londra, poniamo, e di doverci rimanere per sempre. Proprio l’opportunità che ti crea la conoscenza di altre reti, altre persone, o anche la conoscenza stessa di sé stessi rispetto a quella realtà, ti porta a cercare elementi differenti. Anche, che ne so, il clima: non mi sento idoneo per il clima di Londra, me ne vado a Barcellona. E di conseguenza cerco anche una realtà professionale che mi renda più felice. Per cui da barista posso passare a fare la commessa o viceversa per poi arrivare, se ho la fortuna di avere un processo di mobilità vittorioso, a fare una professione per la quale ho studiato. Ma non è una necessità avvertita. Il desiderio è quello di una realizzazione di sé stessi che passa anche per una retribuzione idonea e di un rispetto per sé e per la propria professionalità - qualsiasi sia la professione che si fa.Si dice che dopo il quinto anno nello stesso posto le probabilità di tornare in Italia si riducano drasticamente…Questo è vero, ma non solo di tornare in Italia: in realtà proprio di continuare ad essere in mobilità. Però in altri contesti ci siamo resi conto di come la mobilità determini anche un modo di vivere, cioè persone che sono abituate alla mobilità cercano di non fermarsi, perché fermarsi significa smettere di arricchirsi, di esporsi al confronto con culture altre. Per i giovani italiani vanno rivendicati tre diritti, quali?Il diritto di partire, proprio perché il confronto con un’altra cultura è di arricchimento personale, indentitario, di realizzazione di sé a 360 gradi. Il diritto di restare in Italia, per chi valuta di non voler partire e vuole rimanere, con tutte le difficoltà del caso, nel suo Paese. E il diritto di tornare: perché se io sono all’estero e voglio ritornare devo poter scegliere di farlo. La mobilità in sé è una ricchezza, ma in questo momento il problema è che in Italia la mobilità è unidirezionale: cioè si deve partire per forza, è una necessità, e non si può scegliere di ritornare. Il vero processo di mobilità avviene quando la mobilità è circolare, quindi alle partenze corrispondono i rientri. In questo momento in Italia non è così.Cosa si può fare per trasformare questi diritti in proposta politica e quindi in diritti effettivi?Noi abbiamo creato una rete che, attraverso i convegni, cerca appunto di sensibilizzare  a questo tema. Il Rapporto che era un progetto culturale diventa anche un manifesto di intenti per tutte le persone che partecipano, e noi continuiamo a proporlo sperando che ci sia la possibilità…...che le orecchie delle istituzioni e della politica siano aperte.Eh, sì. Alla presentazione nazionale c’è sempre la rappresentanza del ministero degli Affari esteri, il ministero dell’Interno collabora con noi con i dati, e noi abbiamo proposto per esempio una trasformazione dell’Anagrafe degli italiani residenti all’estero.Ci sarebbe bisogno di una riforma dell’Aire?E’ fondamentale. Perché parlavamo di precarietà della mobilità, e c’è una forma di statisticazione molto ormai desueta, che dovrebbe essere riformata per poter fotografare la situazione e le necessità della mobilità di oggi.intervista di Eleonora Voltolina

Il Gruppo Controesodo lancia l'allarme: “Non basta far rientrare gli expat, bisogna anche convincerli a rimanere”

Convincere chi è fuggito all'estero a tornare in Italia: questo è l'obiettivo delle misure che incentivano il rientro dei cervelli a livello fiscale. A partire dal 2010, con la legge Controesodo, questi provvedimenti hanno portato secondo gli ultimi dati disponibili diffusi dal Ministero dell'Economia, relativi al 2017, al rientro di circa 8.500 laureati.E c'è una community per chi è tornato o vuole rientrare in Italia: il Gruppo Controesodo. Michele Valentini, 39 anni, un lavoro nell'ambito dei derivati per un grande gruppo bancario e otto anni in UK, rientrato in Italia nel 2013, ne è il portavoce. Attorno alla pagina Facebook e al sito web si sono raccolti circa dodicimila «impatriati», come il lessico della burocrazia definisce chi decide di salire sul volo di ritorno per il Belpaese. Il gruppo esiste dal 2015: in quell'anno il governo Renzi aveva abrogato la legge 238/10 e approvato un decreto legislativo sostitutivo, il 247/15. Da allora, il gruppo Controesodo ha seguito tutti gli sviluppi della legislazione in materia, fino al Decreto Crescita varato dall'attuale esecutivo Conte.Cominciamo proprio dal Decreto Crescita approvato dal Governo il 4 aprile. Ci sono misure che vi riguardano?Si. Un articolo è dedicato al rientro dei cervelli e va a rivedere l'impianto della normativa in maniera piuttosto sistematica. Non ho nessun problema a dire che il novanta per cento dei contenuti di questo articolo sono stati suggeriti dal nostro gruppo. Ma, assieme alle cose positive, ci sono alcune distorsioni clamorose che abbiamo ovviamente già segnalato.A cosa si riferisce?Partiamo dalle cose positive. Con questo intervento il legislatore va a potenziare il regime per i lavoratori impatriati portando nuovamente la defiscalizzazione dal 50% a 70%. Il beneficio si estende anche dal punto di vista temporale: se il contribuente ha acquistato un'unità immobiliare o ha dei figli ha diritto a una ulteriore estensione di cinque anni. Questo in ottica di retention, sulla base del ragionamento che il lavoratore, acquistando una casa, ha creato indotto nel paese e, con i figli, si è radicato sul territorio. Il testo prevede, inoltre, un incentivo potenziato per chi si trasferisce nelle regioni del Sud.C'è un "però", mi sembra di capire.Si, perché tutto ciò si applica solo ai contribuenti che rientreranno a partire dal 2020.  Ciò va snaturare completamente la norma: chi tornerà l'anno prossimo si ritroverà un impianto normativo decisamente incentivante, mentre tutti gli altri dovranno, ahimè, restare col vecchio. Una cosa che ci toglie il fiato.In termini numerici cosa cambia? Stiamo parlando di cinque anni al 50% rispetto a dieci anni potenziali, di cui cinque al 70% e cinque al 50%. È inammissibile, ed è assurdo che in questo momento, con Brexit e Londra che sta rilasciando sul continente professionalità di altissimo livello, l'Italia non ne approfitti preparandosi ad accoglierle. Mettiamoci nei panni di un manager che ora vive nel Regno Unito e deve decidere in questi giorni dove proseguire la carriera: con questa norma, potrebbe scegliere di andare altrove.Non c'è una contrapposizione tra la richiesta dei lavoratori di tornare in Italia a condizioni agevolate e l'esigenza dell'agenzia delle Entrate, dello Stato e del legislatore di garantire una tassazione equa per tutti i cittadini?La sua è un'obiezione che va dritta al cuore dell'iniziativa. Se pretendiamo l'equità fiscale erga omnes non dobbiamo neanche parlare di provare a far rientrare i "cervelli" dall'estero, perché questi, per definizione, sono mobili internazionalmente. Stiamo parlando di una fetta di contribuenti molto piccola, una decina di migliaia di persone o poco più, che sono, da un punto di vista lavorativo, in posizioni apicali nel paese, e portano competenze e abilità che in Italia ci sogniamo. Se li vogliamo, il mio parere è che dobbiamo coccolarli, in qualche modo. La presenza di un impianto incentivante presuppone di per sé che il legislatore abbia un occhio di riguardo nei confronti di chi si vuole attrarre, ma anche e soprattutto trattenere: perché una volta rientrati, ci dimentichiamo di farli rimanere. Tornano nel nostro e poi se ne vanno di nuovo all'estero: hanno offerte di lavoro dal Sudafrica, dalla Germania, dagli Stati Uniti, e ci vuol poco a essere più competitivi di uno stipendio italiano. Il legislatore deve capire che questa è una categoria protetta. Se li vogliamo, l'unica strada sono degli incentivi. Qual è l'impatto di questi rientri sul Paese in termini sociali ed economici?I dati della Ragioneria dello Stato dicono che si tratta di un fatto comunque positivo, perché in mancanza di incentivi questi soggetti non pagherebbero imposte. Esiste qualche dato sulla retention? Quanti, tra i lavoratori rimpatriati, hanno deciso di restare una volta terminati gli incentivi?La percentuale di ritorno all'estero è elevatissima una volta esauriti gli incentivi. Al termine dei cinque anni, questo contribuente è abituato a percepire un reddito elevato: quando, con le tasse, torna normale, le proposte che arrivano dall'estero diventano particolarmente allettanti.Eppure ci sono persone rientrate subito all'indomani della legge Controesodo, nel 2011, che hanno beneficiato di questi incentivi molto a lungo: addirittura fino a oggi.Sì, è vero. Esistono alcuni contribuenti storici rimasti in Italia che si ritrovano nella situazione di beneficiare ancora, dopo otto anni, di questo regime. Ma andiamo a vedere il trattamento riservato ai ricercatori: all'articolo 4 del dl Crescita per loro sono previsti tredici anni! Questi lassi temporali, che al contribuente medio possono sembrare estremamente lunghi, sono in realtà la norma per poter pensare di trattenere un lavoratore impatriato. Dal nostro osservatorio lo vediamo tutti i giorni: spesso accade che alla scadenza dei cinque anni concordati al lavoratore arrivi un'offerta dall'estero, e il "cervello" se ne vada di nuovo.Un'ultima cosa. Esistono differenze tra "cervelli in fuga" con lauree e dottorati e lavoratori che hanno titoli di studio più bassi? In fondo, non è detto che per aprire un'impresa e contribuire a migliorare il paese serva un titolo accademico. Il requisito della laurea è stato rimosso nel decreto Crescita, ma, per chi ha redditi bassi, probabilmente la flat tax è più conveniente del regime per gli impatriati. Il testo, però, contiene un'altra novità: gli incentivi si applicano anche ai redditi di impresa: quindi se un pizzaiolo di New York torna e apre una pizzeria in Italia, il fatturato aziendale sarà tassato meno di quanto sia adesso.Antonio Piemontese

Dare voce ai giovanissimi attraverso il giornalismo, un Ashoka Fellow tra Italia e Brasile

Dare ai giovani la possibilità di prendere direttamente la parola e mettersi in gioco nell’affrontare le questioni sociali più urgenti: dall’educazione all’ambiente, dalla salute alla politica. È questa la sfida che ha lanciato a se stesso e a tanti ragazzi Paulo Lima, fondatore dell’associazione Viraçao e protagonista della terza intervista del ciclo dedicato da Repubblica degli Stagisti agli Ashoka Fellow. Nato e cresciuto in Brasile, giornalista con in tasca una laurea in filosofia, Paulo Lima si impegna sin da giovanissimo in associazioni che mirano all’integrazione sociale e alla salvaguardia dei diritti umani, scrivendo e partecipando attivamente a campagne e progetti. Determinato a fare qualcosa per il proprio paese, dopo aver vissuto sulla propria pelle i disagi che percorrono le favelas brasiliane, decide nel 2003 di dar vita a Viraçao, un'associazione no-profit che si occupa di promuovere e difendere i diritti dei giovani mettendo in campo progetti educativi e di comunicazione. Primo passo: fondare dell'omonima rivista, nata con l’intento di dare ai giovani la possibilità di informarsi e di diffondere loro stessi informazioni su importanti questioni social. A seguire, l'ideazione di progetti educativi in varie regioni del Brasile e la creazione del sito web Agència jovem de noticias, grazie a cui i giovani possono trasformarsi in veri giornalisti, mettendosi in gioco nella ricerca e diffusione di informazioni a tema sociale. Nel 2009 l'amore lo porta a trasferirsi in Italia, dove lavora per la diffusione e l'implementazione del suo progetto di coinvolgimento e responsabilizzazione dei giovani tramite progetti educativi e un sito web "gemello" Agenzia di stampa giovanile, coordinato nella sua versione italiana da due "nuclei operativi" a Trento e Bologna.Viraçao nasce quindi come un impegno in prima persona a favore dei giovani.Esatto, il progetto è nato proprio dalla volontà di rispondere in modo propositivo a un problema che vedevo tra i giovani e gli adolescenti brasiliani, cioè quello della negazione del loro diritto ad esprimersi liberamente, a trovare spazi aperti e democratici di partecipazione alla vita della comunità. Il primo passo è stata la creazione di una rivista mensile cartacea, appunto Viração, che nel gergo dei ragazzi di strada significa “mettersi in gioco”. L’idea da cui si è sviluppato il programma, che continua tutt’oggi, era quella di stimolare la partecipazione dei giovani, il loro coinvolgimento nella vita sociale, attraverso l’uso creativo dei mezzi di comunicazione e informazione sia tradizionali che moderni. Così, dopo la rivista cartacea, abbiamo creato nel 2005 il sito web Agència jovem de noticias (Agenzia di stampa giovanile, nella sua versione italiana) uno spazio multimediale in cui i giovani si sentissero liberi di esprimersi su temi quali diritti umani, questione sociale e ambientale: ognuno di loro ricerca, intervista, fotografa, mappa; insomma, svolge il lavoro del giornalista e intanto si apre alla conoscenza di se stesso e della realtà che lo circonda. Mentre la rivista è disponibile solo in portoghese, l’Agència si può trovare in portoghese, italiano, inglese  e spagnolo. Come si fa a gestire un'attività così grande sia in Italia che in Brasile?In Brasile abbiamo un team di coordinamento generale composto da quindici collaboratori fissi con un'età media di venticinque anni e con background di studi differenti: giornalisti, sociologi, pedagoghi. Con loro faccio riunioni "virtuali" quasi ogni giorno, per decidere e organizzare ogni step: sono loro, infatti, ad occuparsi e a gestire tutti i progetti che Viraçao porta avanti in Brasile. Poi, per quanto riguarda specificamente la rivista, abbiamo comitati di giovani in una ventina di città delle varie regioni del Brasile. Da quando infatti, nel 2014, è diventata semestrale e tematica, la sua “produzione” coinvolge circa un centinaio di ragazzi, impegnati nelle varie fasi: anche con loro facciamo riunioni via Facebook per definire la tematica e la scaletta, a cui segue la parte creativa di preparazione e stesura, e in ultimo la diffusione. L'agenzia invece funziona a partire da “nuclei” localizzati in vari paesi, e resi possibili dalla creazione di partenariati con varie associazioni: in Italia abbiamo già due nuclei, uno a Trento e un altro a Bologna, a cui lavorano complessivamente sette volontari e una dipendente part-time, e che sono resi possibili dal partenariato tra Viração e Jangada, associazione trentina che si occupa di cooperazione allo sviluppo con il Brasile e costituisce, insieme a Viração, il braccio operativo dell'associazione in Europa e Africa. Poi ne abbiamo un nucleo in Brasile, a San Paolo, uno in Argentina, a Cordoba, grazie alla collaborazione con l’associazione Fundacíon Tierravida, e uno in Colombia, a Bogotà, grazie alla collaborazione con Climalab.Il contesto delle realtà giovanili in Brasile è differente da quello italiano?Direi che in Brasile, spesso, i giovani sono costretti a cercare lavoro mentre studiano, e questo li fa forse maturare prima, mettendoli di fronte alla responsabilità di impegnarsi per riuscire in un contesto difficile, fatto di violenza verso la popolazione giovanile afrobrasiliana, ma anche di mancanza di accesso a diritti basilari quali quello alla salute e a un'educazione pubblica di qualità.Questo influisce anche sul tipo di attività e progetti messi in campo da Viração nei due paesi? Certo. E' proprio per questo che in Italia puntiamo sull'educazione alla cittadinanza planetaria, cercando in qualche modo di contribuire ad aprire le menti dei ragazzi italiani e sollecitarli sull'importanza di sentirsi responsabili per il loro presente e il loro futuro. Si inserisce in questa traiettoria Prendiamoci cura del pianeta, un progetto nato nel 2010 all'interno di un percorso europeo che coinvolge complessivamente dieci paesi e che attualmente portiamo avanti, grazie alla collaborazione con le singole scuole e con il Cnr di Bologna, in dodici scuole medie e superiori di quattro regioni d'Italia: Trentino, Emilia Romagna, Puglia e Sicilia. L'obiettivo del progetto è quello di educare i ragazzi appunto alla cittadinanza planetaria, focalizzando l'attenzione sui cambiamenti climatici. Non si tratta però di pura teoria, i ragazzi si mettono realmente in gioco facendo qualcosa di concreto, realizzando una "micropolitica" all'interno della loro scuola o nella loro città: si realizzano campagne di sensibilizzazione, si creano cestini per la raccolta differenziata o, ad esempio, si lavora alla creazione di un impianto fotovoltaico per la scuola. Se altre scuole fossero interessate a partecipare al programma, possono contattarci e cercheremo di capire insieme come estendere il progetto. C'è anche un altro progetto, però, di cui mi preme parlare, che si chiama Visto climatico ed è co-finanziato dalla provincia di Trento. Con quest'iniziativa ci impegniamo a portare ragazzi di scuole superiori e università ad assistere alle conferenze Onu sui cambiamenti climatici, così che possano poi "restituire" ciò che hanno imparato con campagne di sensibilizzazione sul territorio trentino. La prossima conferenza sarà a Santiago del Cile a dicembre. Infine c'è Giovani narratori, un ulteriore progetto mirato a creare una campagna di sensibilizzazione in Trentino sulla complessa tematica che coinvolge cooperazione internazionale, migrazioni e cambiamenti climatici. E come è entrata Ashoka in questo percorso?Il riconoscimento di fellow Ashoka è arrivato in Brasile nel 2016 ed il cammino per diventarlo è stato un percorso di arricchimento personale e professionale che ha coinvolto anche la mia famiglia e il mio team. Dall’indicazione del progetto alla selezione finale sono passati circa sei mesi, in cui ho dovuto ripercorrere la storia della mia vita, riflettere sulle motivazioni che mi avevano portato a cercare una soluzione innovativa per favorire la partecipazione nel sociale dei ragazzi. E per questo ha rappresentato un momento di profondo arricchimento.Ci sono differenze tra Ashoka Italia e Ashoka Brasile?Sì, assolutamente, e sono dovute essenzialmente al fatto che Ashoka Italia è molto più giovane: Ashoka Brasile ha più di vent'anni e conta circa trecento fellow in tutto il Brasile, mentre in Italia ce ne sono appena dieci, tra cui io che, vivendo in Italia, sono stato "adottato" da Ashoka Italia pur essendo stato eletto in Brasile. La differenza maggiore è che in Brasile i fellow si riuniscono con una certa periodicità, mentre in Italia avviene un incontro annuale tra i fellow e lo stato Ashoka: adesso stiamo cercando di ritrovarci più spesso e questo è fondamentale perché gli incontri sono un ottimo momento di interscambio ma anche di formazione.Cosa significa esser stato nominato Fellow?La nomina a Fellow è stato il segnale del fatto che ero sulla giusta strada, e che non ero solo. All’inizio mi sentivo quasi un “pazzo”, per il mio avere così a cuore la questione della partecipazione sociale: poi ho scoperto che nel mondo ci sono oltre 3mila pazzi che, come me, mettono al primo posto il bene comune, che rischiano la loro vita per difendere gli ideali in cui credono, i diritti umani.Cosa rende unico il progetto Viraçao?La differenza rispetto ad altri progetti di questo tipo in Brasile o nel mondo sta nella metodologia: Viraçao ha creato spazi comunicativi, sia reali che virtuali, che permettono ai ragazzi di esercitare realmente il loro diritto alla comunicazione, inteso quale diritto che, in qualche modo, dà accesso a tutti gli altri diritti della persona. Il diritto alla comunicazione va infatti ormai oltre la “libertà di espressione”, essendo il diritto di ognuno ad avere accesso ai mezzi di produzione e diffusione dell’informazione, e ad avere la conoscenza necessaria ad utilizzare questi mezzi autonomamente.E se nuovi giovani volessero arruolarsi nelle truppe di Viraçao, ci sarebbe posto?Certamente, basta contattarci. Anzi, siamo sempre in cerca di ragazzi che vogliano mettersi in gioco, sia come stagisti che come volontari. Abbiamo bisogno soprattutto di giovani che si impegnino nel settore della comunicazione e del fundraising. La ricerca dei fondi è infatti fondamentale per riuscire a portare avanti tutti i nostri progetti, e a chi vuole darci una mano consiglio di dare un'occhiata alle t-shirts e alle shopper bag "a tema" acquistabili sul nostro sito.Quale è l'impatto più forte che questo progetto ha avuto sulla società?La soddisfazione più grande l’abbiamo avuta senza dubbio quando il nostro lavoro di rete e di advocacy ha portato alla formulazione di alcune leggi o politiche pubbliche. Ad esempio in Brasile, grazie al nostro lavoro, il ministero della Cultura ha riconosciuto ufficialmente alcune iniziative giovanili nell’ambito della produzione dei media alternativi. Dal punto di vista economico quali sono le risorse principali dell'associazione?In Brasile il finanziamento del progetto viene per il quaranta per cento dal settore pubblico, vale a dire istituzioni pubbliche locali e nazionali; per il dieci per cento da organismi multilaterali internazionali, Unesco e Unicef; per il venti per cento da prestazioni di servizi alle altre organizzazioni no profit e per il restante trenta per cento da fondi privati, ossia donazioni di singoli e aziende.Per il futuro quali sono i prossimi step e obiettivi?L’obiettivo principale è quello di consolidare Viração&Jangada in Italia attraverso dei partenariati con altre organizzazioni e una rete di sostenitori e finanziatori. E poi vogliamo sviluppare nuovi progetti in Africa, cercando di espandere e portare anche lì il metodo di lavoro che abbiamo sviluppato in questi sedici anni di lavoro.Intervista a cura di Giada Scotto

San Valentino, perché limitarsi a un fiore se si può regalare... Un intero albero? Federico Garcea racconta Treedom

Da giocatore virtuale a changemaker: la seconda intervista del ciclo dedicato da Repubblica degli Stagisti agli Ashoka Fellow è a Federico Garcea, co-fondatore, insieme a Tommaso Speroni, di Treedom – una piattaforma che, ispirata al noto gioco Farmville, consente a privati e aziende di “adottare” un albero da frutto da donare ad agricoltori che versano in condizione di difficoltà economica in paesi come Asia, Africa, America Latina, ma anche Italia. Accedendo alla piattaforma ciascun utente può acquistare il seme di una tra le tante specie di alberi da frutto presenti e donarlo a un agricoltore locale, che diverrà così proprietario dell’albero e dei suoi prodotti. Il prezzo del seme varia a seconda dell’albero scelto (si va dai 13 euro della pianta di cacao ai 70 euro del baobab), ma la cosa più interessante è che, come in ogni vera adozione, il donatore potrà conoscere il nome dell’agricoltore beneficiario, avere una foto del “proprio” albero e controllarne la crescita tramite un sistema di geo-localizzazione. Un sistema innovativo che permette di aiutare agricoltori in difficoltà e allo stesso tempo di contrastare la deforestazione. Ma il percorso di Federico, prima di arrivare alla fondazione di Treedom, è stato lungo e anche molto variegato. Oggi 37enne, lavora da quando aveva sedici anni. E di lavori ne ha fatti tanti: dal gelataio al mago, dal cuoco all'impiegato. Dopo essersi laureato in Scienze politiche, con in tasca anche un Erasmus in Spagna e uno in Danimarca, inizia, senza però terminarlo, un dottorato in economia. Dopodiché si ributta sul lavoro. Trascorre un anno in banca come analista finanziario, ma poi decide di lasciare il posto fisso ed entrare in una start-up impegnata in ambiente ed energia. Poi, un giorno, arriva l'idea di Treedom.Come è nata?Per amore! Mi spiego meglio. Era il 2010 e, a quei tempi, era molto in voga Farmville, un browser game il cui scopo era, per l’utente, piantare alberi per creare una fattoria virtuale sempre più grande e bella. Poiché la ragazza di cui ero innamorato era un’accanita giocatrice, iniziai anche io a costruire la mia fattoria e, siccome volevo fare colpo su di lei, spendevo soldi veri per acquistare alberi virtuali. Per questo Tommaso, mio amico e poi fondatore insieme a me di Treedom, mi prendeva in giro, finché un giorno mi disse: “Scusa Federico, ma se tu e milioni di persone spendete soldi per piantare alberi che non esistono, perché non fare qualcosa che permetta di piantare alberi veri?”. Ecco, Treedom è nata così.Da un'idea nata per amore a un regalo originale in vista della festa degli innamorati.. il passo è breve! Regalare un albero potrebbe essere una buona idea per San Valentino, no?In effetti, San Valentino è uno dei momenti dell'anno in cui piantiamo più alberi. Regalare un albero alla persona che si ama è un gesto bellissimo! Per questo abbiamo pensato a una "special edition": per l'occasione sarà infatti possibile regalare una coppia di alberi. Ne abbiamo create cinque tipologie, così che ciascuna coppia possa scegliere quella che sente più vicina: ci sono gli alberi per le coppie sdolcinate e sbaciucchiose, quelli per  le coppie che sono sempre in viaggio, e anche quelli per le coppie litigarelle; poi ci sono gli alberi per le persone complici e, infine, quelli per le coppie a distanza. Ogni coppia potrà piantare alberi che cresceranno, doneranno bellezza e ossigeno al pianeta, e frutti ai contadini che se ne prenderanno cura. E legheranno per sempre la loro storia a quella degli amanti che li hanno piantati.Quanti, ad oggi, hanno deciso di partecipare piantando il loro albero, e quanti hanno potuto beneficiare di questa opportunità? Ma, sopratutto, a quanti alberi siete arrivati?Ad oggi le aziende che hanno piantato alberi con Treedom sono settecento, a cui si aggiungono oltre 150mila persone private, così che il numero di contadini coinvolti nei nostri progetti arriva quasi a 30mila, in dieci paesi nel mondo. Grazie a questi contributi, siamo riusciti a piantare già 513mila alberi! Del resto le aziende si muovono ormai sempre più in direzione di prodotti che rispettino l'ambiente: la sostenibilità ambientale non è più un elemento di distinzione delle aziende, è diventato un must have. E questo perché il 51 percento dei consumatori finali italiani è disposto a pagare un prezzo maggiore per prodotti che rispettano l'ambiente. Una percentuale molto elevata, se si pensa che nel 2013 era solo il 32 percento.Dal 2018 sei uno degli Ashoka Fellow italiani, com'è successo?E’ stato un percorso molto interessante. Ho affrontato una prima selezione in Italia, dopo la quale mi hanno convocato a Berlino per presentare Treedom a vari esperti e membri di Ashoka. A quel punto il mio progetto è arrivato in America, dove hanno dato l’approvazione definitiva.Che significato ha esser nominati Fellow?Essendo stato nominato da poco, è ancora è difficile dirlo. Per il momento posso dire di aver conosciuto gli Ashoka Fellow italiani, con i quali è stato fantastico condividere progetti e sogni. Si nota subito che abbiamo qualcosa in comune, qualcosa che ci lega. Il mio motto è "Making the planet sustainable is the best job on earth!" e credo che anche ciascuno degli altri fellow, più che un lavoro, porti avanti una missione.In che cosa questo progetto è diverso dagli altri?Credo che a rendere Treedom un vero unicuum sia l’idea di poter vedere la foto dell’albero, la sua geo-localizzazione e il racconto del progetto di cui l’albero fa parte, un racconto che si sviluppa nel tempo con aggiornamenti periodici. Come funziona il lavoro in Treedom?Abbiamo uno staff composto da ventidue ragazzi, che si dividono tra Firenze e Monaco. I dipartimenti in cui lavorano sono quattro: vendite, comunicazione, forestali e IT. Molti di loro hanno studiato Scienze politiche e sono entrati in azienda da neolaureati, dato che è difficile trovare sul mercato venditori di alberi con esperienza. Quasi tutti hanno fatto uno stage – con un congruo compenso, beninteso! – e poi sono stati inseriti all'interno del team. Ma siamo sempre in cerca.. c'è sempre bisogno di ragazzi giovani con passione e voglia di mettersi in gioco per una buona causa. Per quanto riguarda i nostri finanziatori e sostenitori, invece, si tratta di privati, aziende e impact investitors, ossia imprese e organizzazioni che operano con l'obiettivo di produrre un impatto sociale compatibile con un rendimento economico.Quale è l'impatto più forte di Treedom sulla società?Credo sia quello di aver dato la possibilità a tante persone di fare qualcosa di buono per l’ambiente e in generale per il pianeta. Ed averlo fatto sorridendo. Adesso il nostro obiettivo è arrivare a piantare un milione di alberi e creare una community internazionale di utenti e aziende che vogliono contribuire a rendere il pianeta sempre più verde o, come diciamo noi, Let’s green the planet! Intervista a cura di Giada Scotto