Giovani expat, in Italia condizioni non dignitose ma non passa la voglia di cambiare e tornare

Eleonora Voltolina

Eleonora Voltolina

Scritto il 30 Ott 2013 in Articolo 36

incontri ravvicinatiMarco è un giovane architetto «nato e cresciuto a Chiavenna, provincia di Sondrio». Ha ereditato la passione per la progettazione dal padre, geometra; così dopo la maturità è andato a studiare a Ferrara, facendo l'Erasmus a Copenhagen e laureandosi con una tesi sulla residenza sociale. Era il 2010.

A quel punto Marco comincia a preparare l'esame di Stato, che supera al primo colpo, e a guardarsi intorno per trovare ovviamente un lavoro. Ma dovunque guardi, pur nella ricca Lombardia, vede il deserto: una totale «mancanza di condizioni di lavoro che ritenessi dignitose, sia da un punto di vista professionale che remunerativo». La prima destinazione allora è la Spagna. A Barcellona lavora per due anni presso uno studio, inquadrato come collaboratore autonomo a partita Iva: all'inizio guadagna i classici mille euro al mese, che poi salgono a 1.500.

Nel 2012 si trasferisce in Svizzera lavorando inizialmente in uno studio specializzato in architettura digitale, con un contratto da praticante da 2mila franchi (1.600 euro) al mese, e poi in un altro che si concentra invece sull'urbanistica. In questo secondo studio lo assumono con la qualifica "piena" di architetto, e di conseguenza anche lo stipendio è "pieno": 5mila franchi al mese, 4mila euro. Seppur lordi, una cifra che un architetto italiano laureato da tre anni si sogna di notte. 

«Tutti i lavori li ho trovati attraverso invio di curriculum e portfolii personali». Marco rivendica la scelta di non aver tentato la carta delle opportunità di tirocinio messe periodicamente a disposizione dall'Unione europea: «Mi sono sempre rifiutato di fare richieste di borse di studio post-laurea, come Leonardo o simili; le ritengo un sistema che permette agli studi professionali di scaricare i loro costi sulla Ue». E non gli sembra giusto.

Della sua vita da giovane expat Marco è soddisfatto, ma qualcosa gli manca. Non gli spaghetti, non il tepore del letto rifatto: «La perdita più grossa per me è stata l’interrompersi dei contatti con i miei compagni di studi, persone con cui avevo condiviso idee, speranze e progetti, con cui avevo spesso lavorato, di cui avevo grandissima fiducia». Per non perdere questi preziosi contatti si ingegna come può: «Grazie a Skype, Dropbox e altri sistemi di condivisione di file, affiancati da un minimo di pianificazione e da tanta buona volontà, con un gruppo di amici rimasti in Italia siamo riusciti a partecipare insieme ad alcuni concorsi, risultando in uno finalisti. Siamo arrivati addirittura fondare una piattaforma collaborativa online, chiamata OpenNetworkOffice, che però ha avuto vita breve». Alla fin fine, il contatto fisico e la vicinanza sono fondamentali. Ma il tarlo di far qualcosa in Italia resta bene annidato, e nel 2013 si presenta l'occasione giusta
: AAA Architetti Cercasi, un concorso per “giovani architetti” sotto i 35 anni, arrivato alla sua terza edizione ed indetto da  Confcooperative Lombardia e Generali Immobiliare.

«In primavera, assieme a Gianmaria Socci e Carla Ferrer, abbiamo deciso di partecipare al concorso. Questa edizione era incentrata sull’area di Santa Giulia, a Milano Rogoredo. Il progetto era complesso e richiedeva diverse scale di intervento: uno studio urbanistico, progettazione residenziale, lo sviluppo di una applicazione web e la produzione di un video. Per questo abbiamo deciso di coinvolgere altre figure professionali e formare un gruppo multidisciplinare che potesse dare una risposta convincente. Alla fine eravamo in sei, di quattro nazionalità diverse. E vivevamo per giunta in quattro città diverse sparse su tre Paesi!».

I compagni di avventura di Marco, nella maggior parte già amici dai tempi dell'università, sono Salvatore Di Dio (1983), ingegnere e specialista di politiche sulle smart cities e ceo della start-up siciliana Push; Claudio Esposito (1987), architetto e specialista in comunicazione visiva e digitale per architettura e ambiente urbano, creative director della start-up The Piranesi Experience; Carla Ferrer Llorca (1987), architetto presso lo studio Blue Architects di Zurigo; Andrjiana Sekulic (1987), architetto neolaureato; Gianmaria Socci (1985), architetto freelance, finalista in diversi concorsi internazionali di progettazione urbana.
Il lavoro dura quasi due mesi, e porta i suoi frutti. Marco e il suo gruppo vincono il concorso: il premio consiste in una piccola somma di denaro, 3mila euro, e in più uno spazio di lavoro a titolo gratuito per un anno a Milano e l'ingresso nelle liste fornitori di Generali Immobiliare e della Lega Confcoop. «Dal 1° gennaio avremo a disposizione 250 mq, da condividere con il secondo e il terzo classificato, in corso di Porta Vittoria. E abbiamo già avviato un proficuo ed interessante discorso con Lega Confcoop. Per sfruttare al massimo questa possibilità ci siamo riuniti sotto un nome collettivo, Ines Bajardi, una cooperativa tra professionisti che investono e ricercano sulla città».


Ma Marco non è ancora pronto per fare il salto definitivo di ritorno: per il momento resta in Svizzera, giustamente, con il suo lavoro da 4mila euro al mese, e segue gli sviluppi della vittoria del concorso da remoto. Senza per questo smettere di preoccuparsi per la sua Italia: «Credo che ci sia tanto da fare. Che non si possa vivere una vita lamentandoci del nostro Paese, magari pure non vivendoci, senza implicarsi direttamente, senza cercare di cambiare un po’ le cose, di riportare un po’ di quello che abbiamo imparato». Il suo campo ne è un esempio: «In architettura l’Italia è ferma agli anni Sessanta e Settanta: la cultura architettonica, esclusi gli addetti ai lavori, è al minimo storico, e la figura professionale dell’architetto scarsamente considerata».

Eppure di lavoro per gli architetti ce ne sarebbe eccome: «Il paese cade a pezzi, reclama interventi, strategie e nuove idee per ripensare il lascito storico, gestire il presente e inventarci un futuro». Tutto questo ripensando «la figura anche dell’architetto, della professione, della città, alla luce dei cambiamenti sociali e tecnologici che stiamo vivendo. Può forse suonare un po’ eccessivo, ma è quello che penso e pensiamo». Invece non è affatto eccessivo: è una spinta importante da parte di un ventinovenne che, pur essendo dovuto scappare all'estero per trovare condizioni lavorative dignitose, non perde la speranza di poter cambiare il proprio Paese mettendo a disposizione le proprie capacità e competenze: «Siamo convinti che solo impegnandoci direttamente e attivamente qualcosa potremo fare». Nelle parole del giovane architetto Marco suonano altre parole, quelle della vecchia archistar Daniel Libeskind. Che recentemente a Roma, al convegno "Rebirth" organizzato alla Camera dei deputati, ha detto: «Io sono un architetto. Ma in un certo senso lo siamo tutti, cercando di costruire un futuro migliore».

Marco racconta che l'obiettivo suo e dei suoi compagni, molti dei quali a loro volta "expat", è quello di ricostruire un'Italia nuova, in grado di offrire ai giovani opportunità di vita e di lavoro dignitose: «Stiamo cercando di costruirci le possibilità concrete di tornare… e sopravvivere! E chi, come me, è fuori dedica tutto il tempo extra-lavoro al “progetto Italia”. La valigia è sempre pronta: per tornare, forse, definitivamente».

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