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Vuoi fare l'avvocato? Pensaci bene: la strada è lunga e le prospettive retributive sempre più magre

Non solo in tribunale, ma anche nella pubblica amministrazione, in molte aziende, fra le forze dell’ordine. In Italia ci sono quasi 235mila avvocati: lo confermano gli ultimi dati presentati dal Consiglio nazionale forense, aggiornati al luglio 2014. «Il numero è già altissimo: ai giovani indecisi non consiglierei di iscriversi a giurisprudenza, a meno che a guidarli non sia una vera passione. E comunque bisogna avere ben presente che l’università è solo una delle tappe da percorrere per avviarsi alla carriera forense, sempre più costosa, selettiva e lunga». A dirlo è il nuovo presidente dell’Ugai, Massimo Autieri, 38 anni, che esercita fra Pompei e Napoli. È avvocato dal 2004 e si occupa principalmente di diritto penale. Oltre al sito, l’Unione Giovani Avvocati Italiani aggiorna costantemente un forum, nonché una pagina su Facebook e una su Twitter, che insieme si avvicinano ai 10 mila seguaci. L’Ugai è diventato in pochi anni uno spazio per tutte le problematiche legate alla professione forense, che assomiglia sempre di più a una lunga maratona, da percorrere in molti anni, fra migliaia di concorrenti.Dopo la laurea in Giurisprudenza, lo studio continua: per chi vuole fare il magistrato è obbligatorio iscriversi alle scuole di specializzazione per le professioni legali, organizzate dalle università stesse. Durano due anni e costano almeno 2 mila euro. Una strada più breve della specializzazione, scelta dalla maggior parte dei futuri avvocati, è la scuola forense: dura un solo anno, è a numero chiuso, costa circa 300 euro ed è organizzata dall’Ordine degli Avvocati. Oppure esistono centinaia di corsi intensivi che preparano all’esame da avvocato: hanno un costo da 500 a 1000 euro e una durata variabile, da tre a sette mesi. Ad organizzarli sono associazioni ed enti di formazione del settore (Giuffrè, Altalex, la Cattolica). Molti sono online. Ma non basta aver studiato all’università? «Opinione condivisa da altri colleghi docenti è che la preparazione accademica dei discenti sia più blanda rispetto al passato» lamenta alla Repubblica degli Stagisti l’avvocato e pubblicista Laura Biarella, docente universitario e di scuola forense, nonché membro aggiunto della Corte d’Appello di Perugia dal 2010 al 2013. «Anche quest’anno abbiamo ravvisato delle profonde lacune in temi cruciali del diritto civile. Inoltre noto che le sentenze ed i testi di legge sono scarsamente utilizzati dai praticanti che a causa dell’uso smodato di internet e delle banche dati sono soliti servirsi di materiale giuridico già filtrato ed elaborato, che non li stimola al ragionamento e al progresso del senso critico. Durante i corsi di scuola forense e in quelli di preparazione all’esame di abilitazione cerchiamo di stimolare i discenti verso un approccio pragmatico».Scuole di formazione a parte, il post laurea per i futuri avvocati si caratterizza soprattutto per i 18 mesi di pratica da svolgere presso uno studio di avvocato. A Milano gli iscritti nel registro dei praticanti sono 15mila, a Napoli più di 10mila, a Roma oltre 22mila. Il momento è cruciale: in questo periodo il laureato in giurisprudenza sceglie quale ambito del diritto lo interessa maggiormente e inizia a seguire le udienze e a scrivere gli atti. Il mondo della pratica è una vera giungla: molto spesso negli studi di avvocati, più che insegnare, si sfruttano i praticanti come segretari, a costo zero. Come già riportato molte volte dalla Repubblica degli Stagisti, il diritto al compenso per i praticanti avvocati non è previsto solo dal codice deontologico ma anche dalla riforma forense, anche se con formule non chiarissime. Dal 2013 si attende peraltro il pronunciamento del Cnf che potrebbe fare chiarezza sulla possibilità di retribuire il praticante anche nei primi sei mesi. In ogni caso le condizioni economiche dei praticanti sono ancora un punto più che dolente. Su questo argomento la Repubblica degli Stagisti ha chiesto un commento ad alcuni stimati avvocati, membri delle commissioni “Praticanti” dei Consigli d’ordine degli avvocati, in fase di rinnovo in tutto il territorio nazionale. L'unico che ha accettato di rispondere è stato Stefano Galeani, ex vicario della Commissione Osservatorio sulla giustizia dell'Ordine degli avvocati di Roma e attuale presidente dell'Agifor, l'associazione Giovanile forense: «Come associazione siamo naturalmente a favore del rimborso spese per i praticanti, ma  mi ritengo contrario a elargire uno stipendio a un ragazzo appena uscito da Giurisprudenza. I praticanti devono capire da subito l'essenza della libera professione, svolgendo all'inizio anche i compiti di segretario, se necessario». L'avvocato Galeani fa riferimento al termine "stipendio", anche se quest'ultima parola è ritenuta impropria, almeno a livello fiscale, per quanto riguarda i praticanti. Come negli articoli della Repubblica degli Stagisti viene spesso ricordato, le somme percepite da chi fa un tirocinio per l'accesso a una professione regolamentata sono sì assimilabili a reddito da lavoro dipendente, ma non sono una retribuzione e non danno luogo a contributi.Chi riesce ad attraversare indenne giungla del praticantanto, continuando per lo più a sopravvivere grazie al sostegno delle famiglie d'origine, si iscrive alla prima sessione utile per sostenere l’esame, che in sostanza dura un anno. Esso è articolato in tre prove scritte, della durata di 7 ore ognuna, che di solito si svolgono in dicembre. Dopo sei mesi escono le convocazioni per l’orale, che iniziano a settembre e durano 3 mesi. Passano l'esame meno della metà degli iscritti alla sessione. Per esempio lo scorso anno a Messina il 45%, a Perugia il 12%, a Milano solo il 12%. Il costo dell'esame è di per sé contenuto: 50 euro di spese fisse più 12,60 euro. Il grosso del peso economico è costituto dai codici, da acquistare in blocco (civile, penale, amministrativo e le procedure) poco prima delle prove scritte, per non perdere nemmeno l’ultimo aggiornamento legislativo. Un’affidabile casa editrice del settore offre al costo di 410 euro (anziché 570) quattro dei pregiati volumi necessari per lo scritto. «Proprio i codici sono oggetto di un'importante modifica che riguarderà la prossima sessione d'esame» conferma Autieri: «Non sarà più possibile avere i codici commentati e secondo l’Ugai è una riforma insensata. Il lavoro di un avvocato non si può esaurire, quando dà un parere o dispone un atto giudiziario, nella sola analisi dei testi legislativi, ma si deve allargare almeno con un'indagine sull'interpretazione giurisprudenziale. Si vuole chiudere l’accesso alla professione, ma invece di farlo dall’università, ci si pensa dopo aver fatto sprecare ai ragazzi almeno 7 anni, tra laurea e pratica».Per chi supera lo scoglio dell’esame, viene il momento dell’iscrizione all’albo: circa 400 euro il primo anno e una tassa annuale che si aggira intorno ai 200 euro finché si esercita. E dall’inizio del 2014 è entrata in vigore la riforma Monti degli ordini professionali (dpr 137/2012) che obbliga gli avvocati a iscriversi anche alla Cassa Forense, l’ente previdenziale dell’albo. La riforma riguarda 46mila avvocati. Significa dover versare almeno 750 euro l’anno anche per chi, avendo terminato da poco la pratica, non ha ancora maturato alcun reddito. Dopo otto anni, terminate le agevolazioni fiscali, i contributi obbligatori arrivano a 4mila euro annuali. Ma i giovani avvocati non sono rimasti a guardare: sui social è partita la campagna #iononmicancello, alcuni stanno facendo ricorso individuale in Cassa Forense e una decina si sta appellando al Tar. Tra di loro Marco Pellegrino, tra i fondatori della pagina del blog e della pagina Facebook No Alla Cassa Forense Obbligatoria, che conta oltre 2mila iscritti. L’avvocato leccese denuncia: «Nel 2014 si sono cancellati almeno 6mila avvocati. Il provvedimento vuole mettere con le spalle al muro chi si sta ancora avviando alla professione. E se non hai lo studio di famiglia ci vogliono 7-8 anni. Di questi tempi non è facile nemmeno farsi pagare. A un giovane appena iscritto all’università, che non sia figlio d’arte, dico a malincuore di mettere da parte il sogno dell’avvocatura: a 35 anni, di cui dieci dedicati allo studio e 8 all’avvio dell’attività, si rischia di non potersi ancora mantenere».I dati confermano le affermazioni di Pellegrino: nell’ultimo rapporto dell’Adepp, l'associazione degli Enti previdenziali privati, presentato a dicembre 2014 si legge che i  guadagni degli avvocati scendono di anno in anno. Nel 2005 il reddito medio di un avvocato iscritto alla Cassa forense con meno di quarant'anni sfiorava i 29mila euro, quando - giusto per un raffronto - quello di un ultraquarantenne invece raggiungeva i 75mila. Nel 2013 gli under 40 non hanno superato i 25mila euro. In sette anni il reddito medio degli avvocati giovani è dunque diminuito del 15%. Da sottolineare, inoltre, il gender pay gap: una giovane avvocatessa guadagna il 58% in meno di un giovane collega uomo.Quindi la lunga maratona dell’avvocatura non porta da nessuna parte? Non è di questo parere l’avvocato Biarella, che ai giovani consiglia di «differenziarsi rispetto alla massa attraverso le specializzazioni: l’area adr, Alternative dispute resolution, continuerà per esempio ad essere oggetto di interventi legislativi che incentiveranno la risoluzione delle controversie al di fuori delle aule. Altri settori in evoluzione sono il diritto della moda e il diritto commerciale internazionale. Un’altra figura molto richiesta è quella del giurista d’impresa. Non essendo figlia d’arte, io provai a fondere le mie due passioni, il diritto col giornalismo, ed oggi più che “avvocato” mi definisco “giornalista giuridico” o "avvocato specializzato in informazione giuridica”. Una professione che siamo in pochi a svolgere in Italia ma che, personalmente, mi soddisfa maggiormente rispetto a quella classica».

AirHelp, quando i voli in ritardo fanno il successo di una startup

Capodanno è sinonimo di viaggi, spesso per raggiungere le famiglie lontane, ma in questo periodo ancor più che in altri può capitare di arrivare in aeroporto e scoprire che il proprio volo è in ritardo, e non permetterà di prendere la coincidenza, o è stato cancellato. Cosa fare? Di certo non perdersi d’animo e ricordarsi che da un anno a questa parte, per questi casi, c’è una startup che aiuta a ottenere dalle compagnie aeree un rimborso per il passeggero fino a 600 euro. Questa startup, che si chiama AirHelp, ha fatto fortuna applicando una legge europea, la 261 del 2004. Nel team c'è anche Danilo Campisi, 27enne siciliano, studi alla Bocconi di Milano, un corso in business administration and management a Miami e varie esperienze in ambito startup sia in Italia sia all’estero. Ed è da lui che la Repubblica degli Stagisti si è fatta raccontare la storia di questa avventura. Quella di cui Campisi è marketing manager è una start up fondata dal danese Henrik Zillmer, oggi amministratore delegato, ad agosto 2013, dopo alcuni anni necessari per creare i database. «AirHelp si occupa di fornire ai passeggeri che hanno avuto un volo in ritardo o cancellato, un rimborso da 250 a 600 euro, come previsto dalla regolamentazione europea che stabilisce che in caso di volo cancellato o in ritardo per più di tre ore senza che il passeggero sia stato avvisato almeno due settimane prima, il viaggiatore abbia diritto a un rimborso dalla compagnia aerea», spiega Campisi. Una legge che non ha ricevuto molta pubblicità, anche perché è stata molto contestata dalle compagnie aeree: in un certo senso la fortuna di AirHelp arriva pure dallo scarso interesse dei possibili competitors verso questo tema.L’idea iniziale è stata di Zillmer, che aveva lavorato precedentemente in un’altra azienda con Campisi, che ha poi contattato Greg Roodt e Nicolas Michaelsen e poi lo stesso ex bocconiano, tutti suoi precedenti amici o collaboratori, a far parte della start up. Così si è formato il team iniziale che oggi lavora a New York, mentre il resto dell’azienda è distribuito tra Polonia, Svezia e Spagna. Per partire, oltre a un’idea brillante, sono stati necessari però i finanziamenti: «Il primo è stato di 400mila dollari ed è arrivato da Morten Lund. Grazie a lui abbiamo coperto i mercati italiani, danese, inglese e polacco, e aperto uffici in Inghilterra, Polonia e a Hong Kong. Dopo» racconta Campisi alla Repubblica degli Stagisti: «Siamo andati nella Silicon Valley a cercare nuovi investitori. Ne abbiamo trovati molti, che partecipano con piccole quote, più Khosla Ventures, quello che ci ha dato il più importante finanziamento: tre milioni di dollari». Cifra che farebbe impallidire qualsiasi startupper italiano, alle prese con concorsi di idee, investitori timidi e una legislazione non sempre di aiuto. L’ex bocconiano ne sa qualcosa, visto che ha provato a fare start up anche in Italia: «Gli svantaggi da noi sono di diversi tipi, ma chiunque ti dirà che fare fund raising è veramente difficile. Chi lo fa investe su poche start up e per un ammontare molto basso. In America c’è più propensione al rischio mentre in Italia si guarda di più alle carte e a più di un anno dalla presentazione del progetto, a volte non si è ancora ricevuta una risposta. Tutto questo è impensabile per una startup» prosegue Campisi: «E pensare che la nostra AirHelp in un anno è passata dall’essere una startup con cinque persone a un’azienda con 50 dipendenti!». Eppure il nostro Paese non è, come si potrebbe pensare, senza idee. Tutt’altro: «all’ultimo Smau di Milano emergeva come ci fossero più idee in Italia rispetto a Londra e Berlino, ma molte meno si trasformano in startup. La burocrazia è tantissima, sono state fatte agevolazioni per incentivare l’imprenditoria giovanile ma è ancora difficile far partire una startup e poi molti incubatori italiani si fermano dentro i confini per cercare investitori, mentre non bisognerebbe farlo». In effetti AirHelp non si è fatta spaventare dai confini e nel primo anno è arrivata ad avere circa 5 milioni di fatturato oltre a tanti progetti per il futuro. «Stiamo lanciando un nuovo prodotto, in questo caso assicurativo, ancora in fase di test e quindi dobbiamo assumere circa 11 persone». Un servizio che obbligherà il cliente a pagare qualcosa all’azienda, una somma intorno ai 20 dollari, ma che gli consentirà in caso di volo cancellato di ricevere immediatamente 200 euro – pagati da AirHelp – a cui si potranno aggiungere i rimborsi normali fino a 600 euro. Ma tra gli obiettivi più importanti ce n’è un altro che sta a cuore a Campisi: la start up è pronta a espandersi anche in Italia. «Stiamo assumendo business developer per aiutarci a sviluppare la nostra impresa anche in Italia. Penso che apriremo la sede entro il prossimo maggio e sarà probabilmente a Torino, dove c’è un clima per le start up molto favorevole: i prezzi degli affitti sono bassi, il Politecnico sta lanciando vari incubatori e la città sta iniziando a competere con Milano, che è quasi satura, ed è a solo 45 minuti di treno». Gli italiani che quindi saranno assunti nei prossimi mesi, due già sono stati reclutati, dovranno però inizialmente lavorare in Polonia visto che nel nostro Paese manca l’ufficio operativo, ma questo dato non sembra scoraggiare gli invii di curriculum. Tutt’altro: «I giovani che stiamo selezionando sono molto più contenti di andare in Polonia che di stare in Italia: qualcuno la vede come un’esperienza all’estero, altri come la realizzazione della loro fuga dal Paese». Pur avendo la sua sede dirigenziale a New York, AirHelp ha come utenti una platea europea anche perché la legge comunitaria che sfrutta si può applicare solo a voli di compagnie europee che dall’America arrivano in Europa o a voli che partono dall’Europa con una qualsiasi compagnia e arrivano negli Stati Uniti. «I nostri primi due mercati, anche perché lì abbiamo investito di più, sono Inghilterra e Danimarca. Poi un po’ a sorpresa ci sono Italia, Portogallo e Spagna». Ad oggi i passeggeri aiutati sono stati più di 60mila e il tasso di vincita, inizialmente sul 60%, è arrivato al 90% dei casi. Per chiedere aiuto basta compilare il form online, a quel punto è la startup a prendere in carico tutte le pratiche e nel caso in cui la compagnia aerea non sia subito disponibile a pagare, a portarla davanti alla Corte. Una volta ottenuto il risarcimento, AirHelp trattiene il 25% della somma ottenuta ma se per qualche motivo la compagnia aerea non paga anche la start up non pretende alcun pagamento. Un’ipotesi, quella del non rimborso, che con il tempo si sta riducendo: «Le compagnie aeree hanno cominciato a conoscerci e capito che risparmiano più a collaborare e pagare subito piuttosto che andare in tribunale». Se il successo di Campisi è arrivato grazie a una startup creata all’estero, sulla così detta fuga dei cervelli lui è scettico: «Ogni posto offre cose diverse in base a cosa si vuole fare. Non credo che sia impossibile creare qualcosa in Italia. Certo è più difficile e molte cose vanno cambiate, ma è possibile farlo. E andare all’estero non è uno svantaggio per il nostro Paese: chi lo fa può comunque portare capitali in Italia come stiamo facendo noi di AirHelp che abbiamo il progetto di tornare e assumere oltre a investire lì».  E sulle critiche o elogi che arrivano sul tema startup, Campisi ha un’idea precisa: «È sicuramente un campo interessante ma non bisogna dimenticare che il 99% delle startup falliscono. E significa perdita di tempo e soldi. Il suggerimento è fare startup ma in maniera prudente e dimenticarsi che i finanziamenti arrivano subito. Perché purtroppo, soprattutto in Italia, non succede».

Pensionarea, una start-up nata in una stalla aiuta i precari di oggi a costruirsi una pensione per domani

Spesso si sente dire che i precari di oggi, i giovani nati dalla fine degli anni Settanta in poi, una pensione non ce l'avranno mai. A causa di molti fattori: innanzitutto le tipologie contrattuali discontinue, che portano a numerosi "vuoti" contributivi. C'è poi il problema del valore molto basso delle somme accantonate: a magri stipendi corrispondono irrimediabilmente magri contributi, unito in un circolo vizioso al frequente spezzettamento di questi contributi in più casse previdenziali, altra conseguenza del "nomadismo" professionale. E infine naturalmente il carico da undici ce lo mette il sistema contributivo che, in confronto al vecchio retributivo che calcolava l'importo delle pensioni sulle ultime buste paga ricevute e non sull'ammontare dei contributi versati, penalizza enormemente chi andrà in pensione tra venti-trent'anni. Per questo si parla, ormai da qualche anno e sempre più insistentemente, di "previdenza complementare": i lavoratori dovrebbero cioè aprirsi dei fondi pensione privati, come succede in moltissimi Paesi del mondo dove la previdenza pubblica non è (o forse, date le premesse, sarebbe più corretto dire: era) così forte come da noi, pagando ogni mese una quota che poi andrà a creare, al momento del ritiro dalla vita lavorativa, una integrazione alla pensione erogata dalle casse dello Stato - e poter dunque contare su una rendita un po' più consistente per gli anni della vecchiaia.Aiutare i consumatori italiani ad orientarsi nel mondo della previdenza complementare è proprio la mission di Pensionarea, una start-up fondata dal 33enne Davide Lerda che permette agli utenti di confrontare le diverse offerte presenti sul mercato per scegliere quella che più si adatta al loro profilo. «Noi ci occupiamo di educazione finanziaria», sintetizza il giovane imprenditore: «Si tratta di fornire alle persone l'informazione giusta nel momento in cui la cerca, di metterle in contatto con i professionisti migliori». E di rendere disponibili i dati necessari per una decisione consapevole. «Sul nostro portale è possibile valutare tutte le offerte relative alla previdenza complementare italiana, confrontarne i costi ed i rendimenti negli anni». Numeri che il giovane imprenditore ottiene utilizzando gli open data messi a disposizione da Covip, la commissione di vigilanza sui fondi pensione.Una laurea in Economia ottenuta all'università di Torino, un'esperienza nel non profit maturata prima di discutere la tesi, lavori come consulente per una start-up che si occupa di crowdfunding e per la ristrutturazione dell'azienda di un familiare. Finché, nel 2012, è nata Pensionarea: «L'idea in realtà l'avevo già avuta nel 2010, ma sono riuscito a fondarla solo due anni più tardi». Un capitale sociale da 10mila euro messo insieme grazie ai risparmi personali, la società è una srl: «Fosse già esistita, avrei valutato la possibilità di creare una srls, l'impresa a un euro» aggiunge: «Mi sembra una grande cosa, non può esistere altra scuola di pensiero se vogliamo che le aziende nascano dal basso».Per dar vita alla sua, di start-up, ha scelto il vecchio casolare del nonno a Dronero, paesino in provincia di Cuneo. «È una scommessa nella scommessa: credo che una realtà digitale possa nascere in qualunque area, l'importante è costruire una rete di relazioni fatto di persone giuste». Spirito da Silicon Valley anche se Pensionarea non è nata in un garage, ma in una vecchia stalla della Granda. Accanto a Lerda, come socio operativo ma non di capitale, c'è il ricercatore 38enne Michele Belloni, che si occupa di sistemi pensionistici al Cerp di Moncalieri. I due si sono conosciuti mentre Lerda cercava consigli su come strutturare la sua azienda: il rapporto si è evoluto sino a vederli soci in affari.Affari che già nel 2013, secondo anno di attività, hanno permesso di chiudere il bilancio con un fatturato di 10mila euro. Cifra che ovviamente ancora non permette allo startupper piemontese di vivere dei proventi della sua azienda: dunque per ora continua a mantenersi grazie agli utili dell'azienda di famiglia che ha contribuito a ristrutturare. Anche per questo, al momento, in Pensionarea non ci sono dipendenti. «Mi appoggio ad un ufficio stampa che opera da remoto, mentre la parte legale è affidata ad uno studio di Milano». Al momento le entrate sono garantite dalla pubblicità presente sul sito: è in fase di implementazione una versione freemium con la possibilità, per le aziende che offrono previdenza complementare, di accedere a servizi a pagamento. Mentre per gli utenti privati il servizio è gratuito e rimarrà tale.Per sviluppare il portale in questa fase Lerda sta cercando fondi pubblici, partecipando a bandi regionali ed europei. Con l'obiettivo, il prossimo anno, di iniziare «a cercare anche finanziamenti di venture capital». Intanto ad agosto Pensionarea è entrata in TecnoGranda, incubatore della provincia di Cuneo. Un ingresso reso possibile anche dal fatto che ha partecipato come emerging leader alla conferenza di economia e giurisprudenza che si tiene ogni anno ad Alpbach, in Austria. «Ci sono stato anche perché mi servono dei contatti per uscire dall'Italia». Il settore della previdenza complementare è un mercato mondiale. E Lerda non ha alcuna intenzione di porre dei limiti geografici alla propria start-up.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it 

Quote rosa, con la legge sui cda l'Italia è avanti: ma la battaglia europea è ancora lunga

Preparate, competenti e competitive sui banchi di scuola e dell’università, anche più dei colleghi maschi, eppure ancora oggi un passo indietro nel mondo del lavoro: che le donne siano spesso penalizzate non è uno stereotipo ma una realtà che emerge dai dati. Direttori e presidenti, amministratori delegati, membri dei consigli di amministrazione: la corsa ad armi pari spesso si arresta lì, quando è il momento di sedersi nei “posti che contano”. Ma una volta tanto l'Italia corre e, per una volta, mostra la strada al resto d'Europa verso il traguardo della parità di genere. Sulle poltrone dei consigli di amministrazione delle società italiane quotate in borsa siedono infatti oggi molte più donne di ieri: il 22,6%, con un incremento non da poco, considerando che  nel 2010 erano solo il 6%. A segnare il passo, la legge 120 sulle quote rosa introdotta tre anni fa. Il dato rimbalza dalla conferenza "Women on board" organizzata qualche giorno fa al Parlamento europeo a Bruxelles da Alessia Mosca, oggi europarlamentare Pd ma fino a pochi mesi fa deputata e, in quella veste, promotrice nel 2011 della legge insieme alla collega Lella Golfo, con un sostegno parlamentare trasversale. Le quote rosa funzionano, almeno in Italia. Il famoso "tetto di cristallo" si sta rompendo, ma il rischio, avvertono da Bruxelles, è di fermarsi ancora una volta un passo prima dei posti che contano: in Norvegia, ad esempio, gli amministratori delegati donne latitano - sono solo il 6% - nonostante una legge sulle quote rosa nei cda sia in vigore da dieci anni. I senior manager sono ancora soprattutto uomini:  segno che tra l’obbligo imposto da una legge e l’effettiva parità dei generi nel mondo del lavoro c’è di mezzo un cambiamento, anche culturale, da realizzaere. Lo stesso vale per il resto d'Europa: nel 2014 le "amministratrici delegate" sono meno del 6%, dice uno studio del centro Egon Zehnder.«La quota non è fine a se stessa. E' uno strumento per dare una scossa al sistema e migliorarlo. Dobbiamo spingere per la diversità come valore», avverte però Alessia Mosca: «La nostra più grande sfida ora non è solo arrivare ad una percentuale di donne ai vertici diversa da quella da cui partiamo, ma anche dimostrare che i luoghi di lavoro con maggiore mix di genere portano a migliori performance aziendali». Tutto questo mentre l'Europa tira ancora una volta il freno sulla direttiva per l'equilibrio dei generi, proposta nel 2012 dall'allora commissario e ora europarlamentare Viviane Reding: «E' stata la mia più grande battaglia nel collegio dei Commissari», ammette, quando ricorda il progetto di portare al 40% entro il 2020 il limite minimo del genere  sottorappresentato nei cda delle società quotate - o al 33% nel caso si includano anche le posizioni di amministratore delegato. Per farlo, la direttiva disegnata dall'ex commissario Reding vorrebbe spingere le società verso l’adozione di procedure di selezione trasparenti, fondate su qualifiche e merito: «Quello che avevo in mente erano delle "quote procedurali": non volevo che le società fossero obbligate a prendere una donna in quanto tale, ma che fosse data alla donne la possibilità di competere alla pari con gli uomini». La battaglia, se non è persa, per ora è quanto meno rimandata: nell'ultimo Consiglio europeo per gli Affari sociali a guida italiana, l'11 dicembre scorso, gli Stati membri non hanno infatti raggiunto una posizione comune  sulla direttiva, che era stata approvata in prima lettura dal Parlamento europeo nel novembre del 2013. «E' più necessario che mai, abbiamo solo il 16% di donne nei cda europei, nonostante il 50% dei laureati siano donne. Il loro talento non deve essere sprecato», ha commentato la nuova commissaria all'Occupazione, la belga Marianne Thyssen. Il ministro Giuliano Poletti si è detto comunque fiducioso, «visto che il lavoro è avanzato». Il dossier passerà ora alla presidenza lettone che si insedierà a gennaio e che avrà il compito di guidare gli Stati membri verso un nuovo compromesso per raggiungere un accordo. Eventuali emendamenti del Consiglio dovranno poi tornare in discussione in seconda lettura al Parlamento. Ecco allora che l'Italia può diventare un laboratorio per il resto d'Europa, anche se nella classifica mondiale sulle disparità di genere ("gender pay gap") del World Economic Forum risulta ancora indietro: «Siamo al 129° posto su 136 Paesi, ma con la legge 120 sono stati fatti passi avanti», spiega Parrella. Le note positive però non mancano: le quote rosa italiane (20% minimo di donne nei cda delle società quotate, con un incremento al 33% al terzo rinnovo) non sono solo una questione di numeri e sanzioni: «Non abbiamo mai dovuto decretare la decadenza di un Consiglio per la mancata applicazione delle regole», precisa Monica Parrella, direttore del dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio. E in più  «i board italiani rinnovati dopo la riforma sono in genere più giovani e con membri più istruiti. Significa che l'obbligo delle quote ha innescato un processo positivo, che ha spinto a selezionare migliori candidati anche tra gli uomini, non solo tra le donne»: lo sottolinea Paola Profeta, professore di Scienza delle finanze all'università Bocconi, che sotto il coordinamento del dipartimento Pari opportunità ha condotto lo studio "Women mean business and economic growth", scattando una foto, dopo l'introduzione della legge Golfo-Mosca, ai cda e collegi sindacali delle società italiane quotate e analizzando oltre 3100 curricula. La prossima sfida è dunque dimostrare come e quanto il mix di genere possa influire positivamente sulle performance aziendali e sui risultati di mercato. «Le quote dovrebbero essere parte di una visione più ampia. l'obiettivo finale è promuovere la parità dei generi. Ma anche le motivazioni economiche sono importanti», puntualizza Profeta. "L'effetto Norvegia" poi resta concreto, in Italia e in tutta Europa: «C'è bisogno che le donne che siedono ora nei consigli promuovano una nuova organizzazione del lavoro» avverte Parrella: «Altrimenti rischiamo che dopo alcuni anni il ricambio non sia pronto e che la legge sulle quote resti un'occasione sprecata». Maura Bertanzon

NaStartUp, a Napoli le startup si incontrano e fanno community

È nato quest’anno con l’obiettivo di creare una palestra per tutte le persone che si occupano di innovazione e che in questo modo hanno la possibilità di collaborare tra loro: NaStartUp è un progetto partecipativo «per l’ecosistema delle startup made in Naples» che ad oggi conta nove eventi, 200 proposte di startup e 36 di queste presentate a un pubblico di finanziatori e giornalisti con la possibilità di ricevere consigli, nuovi spunti e futuri finanziamenti. Ideatore del progetto è Antonio Prigiobbo, creatore della community Vulcanicamente, insieme ad Antonio Savarese, giornalista specializzato in innovazione tecnologica, a cui si sono aggiunti in un secondo momento Massimo Morgante e Gianluca Manca, rispettivamente ceo di Volumeet e di Intertwine. L’idea di fondo è stata quella di creare «una community eterogenea di talenti» che si incontrano nel capoluogo campano una volta al mese, per conoscersi, scambiare idee e presentare nuovi progetti. ll vero problema, secondo Prigiobbo, è infatti che di solito le startup si conoscono solo «quando competono per un premio, mentre grazie alla nostra community e ai nostri eventi possono incontrarsi senza competizioni, dialogare e condividere la propria esperienza». E farlo davanti a degli investitori che possono decidere poi se scommettere su questi progetti.Napoli è la città che è stata scelta come centro in cui ospitare, di volta in volta in location diverse, quest’evento: il prossimo appuntamento sarà mercoledì 17 dicembre al Riot studio.  «La regione Campania è la settima d’Italia per numero di startup certificate, dal registro delle startup delle Camere di commercio, e la prima del sud» spiega Prigiobbo alla Repubblica degli Stagisti «ma se nelle altre regioni ci sono incubatori certificati, da noi ce ne sono 19 ma nessuno di questi è stato certificato. In Lombardia, ad esempio, grazie a un paio di incubatori certificati, quindi di imprese che per fare profitto avviano continuamente startup e cercano di farle funzionare, ci sono circa 600 startup innovative secondo i numeri certificati dal ministero».  Gli eventi di NaStartUp servono quindi a far incontrare fisicamente una community che per esistere non ha, però, bisogno di uno spazio fisico. «Siamo un’associazione che cerca di creare una open community» spiega Prigiobbo. «All’inizio presentavamo solo cinque startup business, poi c’è venuta l’idea di presentare tutte quelle che sono le innovazioni del territorio. Ora il nostro format funziona così: è un appuntamento infrasettimanale, intorno alle 18, in un locale, perché deve essere la continuazione della giornata lavorativa, ma in modalità più rilassata, davanti a un drink e magari seduti su un divano. Nella prima parte dell’evento quattro startup business raccontano il loro progetto a una platea di giornalisti e investitori. Poi si presentano almeno due startup sociali e poi parliamo noi e raccontiamo quali sono i bandi attivi, le imprese che stanno assumendo, le nuove opportunità. Dopo c’è il “free networking” in cui si possono creare contatti». Il tutto viene organizzato senza spendere soldi: chi si registra sulla piattaforma per presentare le proprie startup lo fa gratuitamente e il locale che di volta in volta ospita l’evento non chiede fee perché approfitta della promozione "implicita". Sul punto della gratuità Prigiobbo non transige: «Quello che facciamo si autosostiene e non impegnandoci moltissimo ci permette di continuare a svolgere le nostre attività. Si tratta di un evento che aumenta le relazioni, per le startup e per noi perché fa crescere le connessioni di tutti, e resterà gratis». L’obiettivo degli eventi di NaStartUp è «contaminare e far crescere l’ecosistema con soggetti che abbiano talenti diversi» spiega il creatore di Vulcanicamente: «Se viene una startup in biotecnologia, allora cerchiamo di invitare all’evento dei finanziatori che abbiano già fatto aziende in quell’ambito. Abbiamo scelto di sviluppare questo modello perché serve sì chi finanzia l’idea, ma serve anche il racconto di chi ha avuto successo e spiega quello che sta facendo e di quali professionalità ha bisogno. È un servizio sociale per tutti». Agli appuntamenti partecipano prevalentemente startup e investitori della Campania, ma c’è anche un 20% di gente che arriva da altre regioni o dall'estero, come Inghilterra e Svizzera. Il format secondo Prigiobbo funziona anche perché è frequentato da giornalisti delle redazioni locali, quindi diventa una sorta di mini conferenza stampa con cui si dà risalto ai progetti presentati. E soprattutto i finanziatori possono seguire mese dopo mese i traguardi raggiunti dalle startup e a quel punto decidere se investire o meno.  «La nostra accelerazione è comunicativa, perché lanciamo i comunicati, le interviste, i video. Acceleriamo come visibilità e mettiamo in competizione anche i finanziatori. Perché se vedi che l’idea è forte e ci sono più persone interessate, allora si accelera anche il tempo con cui i progetti vengono finanziati». L’obiettivo è quindi promuovere le connessioni: l’idea di fondo per una startup, secondo i fondatori di NaStartUp, è infatti quella di “condividere”, solo così si possono scoprire i competitors o le difficoltà. E a volte durante il free networking capita anche che alcuni componenti di una startup confluiscano con le loro idee e le loro capacità in altre startup, conosciute proprio durante l'evento. La condivisione resta la parte centrale degli eventi, per capire le esigenze delle startup in fieri. «Cerchiamo di dialogare con le istituzioni, dicendo cosa serve, creando dei fondi di seeds, spingendo le banche a fare altri tipi di proposte» insomma cercando di essere «un epicentro: è un format inclusivo per tutti». Per fare bilanci è ancora presto, il primo compleanno di NaStartUp sarà a marzo 2015, ma Prigiobbo è già contento: «Grazie a questa community sono cresciute le relazioni professionali di quanti hanno presentato i loro progetti. E si sta sviluppando un interesse, anche in ambito nazionale, con la possibilità di agganciarci a dei progetti con grossi brand nell’ambito delle comunicazioni. Stiamo vagliando l’ipotesi di cosa fare dei soldi di un grosso sponsor e pensiamo alla creazione di un seeds per dare opportunità a startup di social innovation». Il modello quindi sta crescendo ma resterà in Campania: «Alcuni ci hanno chiesto se volevamo fare una startup a Roma o a Firenze, ma a noi interessa il livello napoletano. È qui che viviamo ed è qui che vogliamo portare innovazione». Marianna Lepore

Rai, concorso per giornalisti a febbraio? L'Usigrai rassicura ma l'azienda tace

Quando, lo scorso febbraio, la Rai aveva annunciato di voler finalmente aprire un nuovo concorso per l'assunzione di giornalisti, in tanti avevano esultato. E infatti alla tv pubblica erano arrivati nell'arco di poche settimane quasi 5mila candidature. Ma siamo ormai a novembre, e tutto tace: non solo il concorso - anche se sarebbe più corretto parlare di "selezione" - ancora non c'è stato, ma non sono stati fatti nemmeno i primi passi per avviare la procedura. La Rai si trincera dietro un muro di silenzio e allora Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine dei giornalisti, si è fatto nei giorni scorsi portavoce dei 4.981 professionisti iscritti alle selezioni scrivendo sulla sua bacheca Facebook che «Il concorso Rai si farà» ma che «i tempi si allungano» e «la preoccupazione dell’annullamento resta, alimentata dai tagli e dai silenzi». Certo, il panico da cancellazione della selezione e le voci discordanti che sull’argomento si sovrappongono non troverebbero spazio se dall’azienda arrivassero comunicazioni chiare. Per questo motivo la Repubblica degli Stagisti ha provato a mettersi in contatto con il direttore risorse umane e organizzazione della Rai, Valerio Fiorespino, per avere conferma o meno delle ipotesi al momento in circolazione, prima fra tutte che il primo test dovrebbe essere calendarizzato entro il mese di febbraio. Ma l'ufficio stampa, dopo alcuni giorni di attesa, si è limitato a fornire via email una risposta che più generica non si potrebbe: «Appena saranno disponibilil le informazioni richieste, le faremo sapere». Per avere qualche notizia in più allora la Repubblica degli Stagisti ha deciso di parlare con Vittorio Di Trapani, dal novembre 2012 segretario nazionale dell’Unione sindacale dei giornalisti Rai (Usigrai), sindacato che a febbraio di quest’anno aveva accolto la pubblicazione del  nuovo bando per giornalisti come «un altro passo verso la Rai che vogliamo». Di Trapani si dice convinto che il ritardo nel decidere la data della selezione non sia un modo – come in tanti sui social network ripetono – solo per prendere tempo e poi sospendere tutto. «A nostra precisa domanda l’azienda ha confermato l’intenzione di svolgere la selezione pubblica», assicura alla Repubblica degli Stagisti, cercando poi di spiegare il perché di questi ritardi: «La Rai sta svolgendo la gara per l’assegnazione della società che si occuperà di gestire la prima prova, quella dei multiple choice. L’azienda è tenuta a seguire delle procedure precise per l’assegnazione di appalti» per questo motivo, sembra, sta impiegando tutto questo tempo. «A inizio anno dovremmo avere il nome della società che se ne occuperà e di lì a breve» spiega ancora il segretario Usigrai «la convocazione per lo svolgimento effettivo del test. Credo che per il mese di febbraio si riuscirà a fare la prima prova e visto che nell’accordo tra l’azienda e il sindacato c’è una previsione di massima per concludere tutto l’iter selettivo entro il primo settembre 2015, la Rai in questo modo ci conferma che rispetterà i tempi». Certo, la prima prova sarà solo l’inizio e servirà per scremare i quasi 5mila candidati e portarli ai 400 che faranno poi le altre prove, per arrivare a formare una graduatoria composta da 100 giornalisti con una validità di tre anni. Da lì quindi si chiamerà per le sostituzioni, perché in realtà ai 100 cronisti non corrispondono altrettanti posti già liberi in azienda. «Ci auguriamo che la Rai ricorra quanto prima a tutti i colleghi selezionati, però l’accordo è molto chiaro su questo punto». Di Trapani ha ragione, perché nel bando c'è scritto che «al termine della procedura selettiva verrà formata una graduatoria che avrà validità per tre anni dalla pubblicazione. L’eventuale assunzione con contratto a tempo determinato sarà subordinata al mantenimento dei requisiti richiesti per la partecipazione all’iniziativa di selezione». Nulla di certo, insomma, ma solo la possibilità per tre anni che l’azienda chiami da questa lista per eventuali sostituzioni. E quali sarebbero i tempi per gli aspiranti sostituti nel vedere eventualmente i propri contratti diventare definitivi? Qualche miglioramento in Rai su questo fronte c’è stato, come racconta ancora Di Trapani: «Siamo partiti quasi 10 anni fa, era il febbraio 2005,  con il primo accordo: i precari erano centinaia e il precariato durava molto a lungo. Con una serie di contrattazioni abbiamo ottenuto un alto numero di stabilizzazioni e una drastica riduzione della durata del precariato che dura non oltre tre anni e mezzo di mesi lavorati. Una condizione addirittura più vantaggiosa di quella prevista dalle norme sul mercato del lavoro vigente». E poiché i selezionati andranno a coprire tutte le esigenze dell'azienda, senza preferenze per una o l'altra testata, la previsione del sindacato è positiva. Tanto da far dire a Di Trapani: «Capisco le preoccupazioni, però ad oggi non ho nessun elemento per poter dire che le selezioni si fermeranno: anche perché di recente la Rai ci ha confermato che tutto procede».  Le rassicurazioni del sindacato, però, non bastano perché la grande assente e silente in questo momento è proprio l’azienda, come anche la Repubblica degli Stagisti  ha potuto verificare direttamente. «Manca una parola chiara, esplicita e formale da troppo tempo» concorda il presidente dell’Ordine dei giornalisti Enzo Iacopino. «Capisco che ci possano essere dei ritardi, ma nella prima comunicazione dell’azienda si parlava di un’iniziale scrematura entro la fine dell’anno. Quindi siamo in ritardo. Perché l’azienda non dice chiaramente con un comunicato “faremo lo screening entro il 28 febbraio”?» - Iacopino si riferisce alla data entro cui secondo indiscrezioni si dovrebbe fare il primo test: «Così si alimentano solo voci discordanti». La prima fase della selezione per giornalisti Rai che dovrebbe garantire una procedura trasparente di selezione pubblica, come più volte chiesta dal sindacato, potrebbe quindi svolgersi a febbraio. Ma i condizionali sono d’obbligo: «Sollecito una presa di posizione formale della Rai» chiude Iacopino. Al suo fianco i 4.981 professionisti che da sei mesi aspettano, nel silenzio e indifferenza totale di “Mamma Rai”, un qualsiasi tipo di comunicato, anche solo di tre righe, per avere una notizia precisa.Marianna Lepore

Parità retributiva, Italia 129esima nel mondo: strada ancora in salita per le donne che lavorano

  Ottantuno anni: è quanto ci vorrà, secondo il nono Global Gender Gap Report, prima di raggiungere a livello mondiale la parità dei sessi sul posto di lavoro. E l'Italia è ancora ben lontana dall'obiettivo: in base al report, pubblicato oggi dal World Economic Forum, il nostro Paese si piazza al 69esimo posto su 142 nazioni per quanto riguarda la parità tra uomini e donne, guadagnando due posizioni rispetto al 2013.Nel dettaglio l'Italia però resta indietro rispetto agli altri Paesi soprattutto per quanto riguarda la partecipazione delle donne all'economia, categoria in cui il nostro Paese scende al 114esimo posto: ancora peggio dello scorso anno, quando ci eravamo piazzati 97esimi. Siamo anche - tristemente - 88esimi per la partecipazione al mondo del lavoro e addirittura al 129esimo posto per quanto concerne la parità salariale.Cioè ottenere paghe uguali a parità di qualifiche, indipendentemente dal genere: i dati dimostrano che la lotta delle donne per ottenere retribuzioni analoghe a quelle dei colleghi uomini è sempre attuale, nonostante le prime battaglie risalgano ormai a decenni fa. “We want sex equality” era lo slogan delle 187 operaie Ford di Dagenham, a est di Londra, che volevano avere lo stesso salario dei colleghi uomini e per questo, nel 1968, scioperarono. E proprio allo striscione sventolato dalle operaie inglesi si ispirava il titolo del convegno “We want sex (equality)”, organizzato qualche settimana fa a Milano nel corso della kermesse “Il tempo delle donne”. In Italia la parità retributiva è infatti un tema di dibattito all’ordine del giorno: pur essendo un diritto garantito dalla Costituzione (l’art. 37 recita: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”), nella pratica il gap salariale tra uomini e donne è un dato di fatto.  Secondo il rapporto 2014 sulla parità di genere pubblicato dalla Commissione europea, nel nostro Paese il divario tra le retribuzioni degli uomini e quelle delle donne è pari al 7%: una cifra inferiore alla media europea, che è del 16%, ma comunque ben lontana dallo zero che sancirebbe l’uguaglianza. In più, in Italia le donne lavorano meno degli uomini: solo una su due è occupata, contro una media Ue del 63%. La disparità occupazionale tra uomini e donne nel nostro Paese raggiunge il 21%, mentre la media dell’Unione è del 12%. Eppure in Italia, nel lontano 1944, le operaie tessili del biellese ottennero per la prima volta un accordo che sanciva la parità di trattamento economico tra uomini e donne. Il cosiddetto “contratto della montagna”, questo il nome con cui passò alla storia, «fu firmato in piena guerra: industriali e operai si incontrarono prima nelle valli, clandestinamente, poi, a marzo del ’44, siglarono l’accordo», ha ricordato nel suo intervento al Tempo delle Donne Simonetta Vella, responsabile del centro di documentazione della Cgil di Biella. Il contratto, che riguardava un settore storicamente ad alta presenza femminile, prevedeva oltre alla parità salariale anche il diritto a lavorare 40 ore settimanali e alla maternità. Ma aveva un punto debole: era valido solo per le operaie in servizio al momento della firma. Negli anni, ha ricordato Vella, «si creò così una disparità tra le lavoratrici più anziane e quelle più giovani: finché nel 1963, grazie alla vertenza pilota intentata da una lavoratrice, venne sancito il diritto alla parità salariale per tutte le lavoratrici, che poi fu introdotto nel contratto firmato nel 1964». Cinquant’anni dopo, le disparità sono ancora presenti: e il gender pay gap è solo una delle discriminazioni che le lavoratrici donne subiscono. «Valgono ancora alcuni stereotipi di genere», ha spiegato nel corso del convegno l’economista Luisa Rosti dell’università di Pavia: «come il fatto che alcuni lavori, come quelli di cura o la lavanderia, vengono considerati appannaggio delle donne, mentre ci sono pochissime donne che lavorano come taxiste o tecnici informatici». Inoltre «al crescere del prestigio dell’incarico, diminuisce il numero di donne che lo ricoprono: se le insegnanti degli asili nido sono praticamente per il 100% donne, tra i professori ordinari la percentuale cala al 20%». Non solo: «Gli uomini lavorano per il mercato, le donne per la produzione domestica: fare la pizza è un lavoro, ma se la fa la mamma è gratis», ha sottolineato la docente. A causare disparità nelle retribuzioni sono poi alcuni atteggiamenti discriminatori, come il “maternal wall”. «Le madri sono giudicate meno competenti, meno adatte alle assunzioni, e ricevono proposte salariali più basse» ha sottolineato la docente: «Per i padri accade il contrario». Oppure il diffuso comportamento che si riassume con “Think manager, think male”: «Sulla base di un esperimento è emerso che lo stesso curriculum, ovviamente finto, inviato per una posizione manageriale è stato valutato il doppio se il nome era quello di un uomo. Per il ruolo di segretaria, invece, avviene l’esatto contrario». Le discriminazioni di genere, ha sottolineato la professoressa Rosti, «dipendono solo per il 12% da fattori spiegabili, mentre nell’88% dei casi avvengono appunto in maniera inspiegabile». La strada verso l’uguaglianza è ancora decisamente in salita.  

Centri per l'impiego, da Torino l'allarme al governo: senza investimenti non c'è futuro

Ogni mattina al Centro per l’impiego di via Bologna, nella periferia nord di Torino, c’è una fila lunghissima di persone che aspettano. Donne, uomini, giovani e meno giovani, italiani e stranieri. Ognuno con la propria storia alle spalle e un obiettivo comune: trovare un lavoro. Purtroppo, attraverso questi uffici pubblici che dipendono dalla Regione ma sono gestiti dalle Province, ci riusciranno in pochi. La colpa è soprattutto dell'enorme divario tra domanda e offerta di lavoro, ma non solo. La scarsa efficienza - che qualcuno bolla già come fallimento - dei Centri per l’impiego ha radici più profonde. Nel 1949, con la legge 264, in Italia nascono gli uffici di collocamento pubblici, predecessori dei centri per l’impiego. Il funzionamento è semplice: chi cerca un lavoro s’iscrive nelle apposite liste, mentre chi lo offre presenta la cosiddetta “richiesta di avviamento”, con il numero e le caratteristiche dei profili desiderati. La chiamata è numerica e chi trova lavoro è cancellato dalla graduatoria, per poi tornarci una volta terminato l’impiego. La grande rivoluzione avviene nel 1997, con il decreto legislativo 469 che sancisce la fine del monopolio pubblico e l’apertura ai privati all’attività di mediazione tra domanda e offerta di lavoro, in ritardo di qualche anno rispetto ad altri paesi europei (nel 1993 in Svezia, un anno dopo in Germania). Nascono così i centri per l’impiego e le agenzie per il lavoro; quest'ultime, con la successiva legge Biagi, aumentano le loro funzioni, arrivando a svolgere attività di intermediazione, ricerca e selezione del personale e fornendo supporto alla ricollocazione professionale. Un sistema riformato, ma che continua a funzionare male, soprattutto a causa degli scarsi investimenti dei governi che si sono succeduti a Palazzo Chigi. Il risultato è che oggi il sistema italiano dei servizi per il lavoro è il meno finanziato e sostenuto d’Europa: secondo i dati Eurostat ripresi dal ministero del Lavoro, la spesa media annua francese in servizi per ogni persona che cerca lavoro è di 1500 euro, quella tedesca di 1700 euro, quella italiana di 74 euro. Nel nostro paese c'è un orientatore ogni 300 disoccupati, in Germania uno ogni 40 e in Francia uno ogni 30. In sostanza, abbiamo investito dieci volte meno la media europea. E ancora: nel 2013 la spesa per servizi e politiche attive del lavoro è stata all'incirca del 20% sul totale delle risorse nazionali destinate alle politiche del lavoro, rispetto alla media europea che è intorno al 45%. Un sistema ancora di tipo assistenziale, se si considera che nel 2013, su 30 miliardi di euro, circa 20 sono stati destinati a trattamenti di disoccupazione e 6 a sgravi o incentivi alle imprese. «Investiamo poco e male» conferma ad Articolo 36 Carlo Chiama, assessore al Lavoro della Provincia di Torino: «basti pensare che in Italia, tra orientatori e operatori, lavorano in 7-8 mila, in Germania 90 mila e in Francia 70 mila. È impossibile andare avanti con questi numeri. I servizi di qualità hanno bisogno di finanziamenti, senza soldi c’è poco da discutere». In provincia di Torino operano 15 centri per l'impiego, dove lavorano un po' più di 200 dipendenti. Soltanto a Torino gli iscritti, più donne che uomini, sono circa 200mila, la maggior parte di età compresa tra i 35 e i 44 anni. «Non dimentichiamo poi la falsa credenza secondo cui il Centro per l’impiego debba trovare a tutti i costi un lavoro» conclude Chiama. In che senso “credenza”? I centri per l'impiego non servono a trovare alla gente un impiego? «Il nostro compito principale è fornire supporto nella ricerca del lavoro, ma poi le persone si muovono autonomamente» conferma Cristina Romagnolli, responsabile dei Centri per l’impiego della Provincia di Torino. «Facciamo tutto il possibile per fare incontrare domanda e offerta, ma c’è davvero poca richiesta e i disoccupati continuano ad aumentare. Nel 2013, nel nostro territorio di riferimento, circa 40 mila persone hanno terminato un rapporto di lavoro e sono rientrati nello status di disoccupazione: nel 2012 erano 20mila, quindi il numero è raddoppiato. Leggo spesso che i Centri per l'impiego intermedierebbero non più del 3% dei contratti di lavoro, ma sono numeri discutibili, anche perché capita spesso di operare insieme al privato, preselezionando profili che poi forniamo alle agenzie. In questo modo otteniamo dei risultati, poco importa chi c'è riuscito. Non ha senso la corsa tra operatori del mercato del lavoro fondata sul tentativo di dimostrare chi intermedia di più, semmai la vera questione è il coordinamento della rete dei servizi». I pochi investimenti sulle politiche del lavoro sono una ragione più che valida per spiegare la debolezza dei Centri per l'impiego. Detto ciò, le cose potrebbero funzionare meglio, ad esempio informatizzando alcuni servizi essenziali come la richiesta del fantomatico "certificato di disoccupazione". A Torino c'è la possibilità di ottenere l'autocertificazione (perché di questo si tratta) via email, saltando la fila, ma non tutti gli uffici hanno attivato questo servizio. Succede poi che ogni Centro, anche all’interno dello stesso territorio, porti avanti i suoi progetti, più o meno riusciti, senza seguire un percorso unitario che servirebbe a semplificare le cose. «Nel 2009 abbiamo attivato lo sportello "Alta professionalità e grandi clienti" che sta decisamente funzionando» aggiunge Romagnolli «attraverso il quale intercettiamo e selezioniamo figure tecnico-specialistiche che mettiamo in contatto con aziende medio-grandi. Dal 1° gennaio al 30 giugno 2014 abbiamo collocato 992 persone, un ottimo risultato. Un'altra iniziativa è l'apertura del lunedì dedicata ai giovani under 30, con servizi erogati ad hoc: ne sono arrivati più di 8 mila». Poi ci sono le relazioni con le amministrazioni del territorio: se un Comune intercetta un'azienda che vuole espandersi, il Centro per l'impiego compie una preselezione fra i lavoratori che risiedono in quel territorio. «Purtroppo le aziende medio-piccole non si rivolgono spesso ai nostri uffici» spiega la dirigente «preferiscono il passaparola, un'abitudine tutta italiana». Con la dismissione delle Province, transitoriamente, l'organizzazione dei Centri per l'impiego passerà alle Città metropolitane. All'orizzonte, però, potrebbero esserci novità più importanti. All'interno del Jobs act che il governo Renzi sta definendo proprio in questi giorni, ad esempio, ci sarebbe l'intenzione di creare una grande agenzia nazionale dei servizi per l'impiego. «Non so che tipo di scelta farà l'esecutivo, ma è ora di investire sul lavoro» conclude Romagnolli «Per troppo tempo questo settore è stato considerato poco e male. Servono operatori specializzati per ogni servizio, la gente che cerca lavoro aumenta né noi né il privato abbiamo la bacchetta magica».    

TFR in busta paga sì o no, gli esperti del mondo del lavoro si dividono

Nei giorni scorsi il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha presentato la proposta di trasferire in busta paga il trattamento di fine rapporto a partire dal prossimo anno ai lavoratori che ne facciano richiesta. Sempre il lavoratore può scegliere se ricevere la cifra, relativa all’anno precedente, in un’unica tranche a febbraio o rateizzarla lungo l’arco dei 12 mesi. Suddividendo il TFR per mensilità, l’importo percepito si aggirerebbe tra i 40 e gli 80 euro, a seconda del proprio reddito mensile. Chi dovrebbe accollarsi il pagamento anticipato del TFR? Secondo la proposta renziana, i soggetti coinvolti sarebbero o un apposito Fondo di anticipo del TFR, costituito da Cassa Depositi e Prestiti e banche, oppure soltanto gli istituti di credito, che opererebbero attraverso l’erogazione di prestiti.Renzi ha salutato la proposta, che potrebbe essere già inclusa nella prossima Legge di Stabilità, come il simbolo dell’abbandono del cosiddetto «Stato mamma» a favore di una nuova  fase di maggiore autonomia per il lavoratore, che potrebbe disporre liberamente del TFR, incrementando così entrate mensili e consumi.Cosa dicono gli esperti di lavoro a riguardo? Articolo 36 ha chiesto un’opinione a Pietro Ichino, giuslavorista e senatore PD, e Giampiero Falasca, avvocato esperto di diritto del lavoro e partner dello studio legale DLA Piper. Individuando posizioni non proprio concordi.Ichino sembra apprezzare la proposta renziana e sostiene la necessità di superare il concetto di paternalismo dello Stato per incentivare il consumo: «il TFR è una forma di risparmio obbligatorio a carico del lavoro dipendente, che esiste soltanto in Italia. L’istituto nasce da un errore commesso dal legislatore nel 1966, quando quella che era una indennità di licenziamento venne trasformata in retribuzione differita. Una forma di paternalismo, che rende la struttura della retribuzione dei lavoratori italiani più complessa e meno trasparente. Inoltre Il TFR obbliga i lavoratori a risparmiare, ma oggi per rimettere in moto la nostra economia abbiamo bisogno di ridurre la propensione delle famiglie al risparmio, di promuovere la loro propensione al consumo». Un consumo però sempre da stabilire, considerato che la «distribuzione» mensile del TFR non porterebbe comunque a un rilevante ingrossamento delle buste paga. Certo, esistono secondo Ichino delle controindicazioni: «per le imprese più piccole questa è però una forma di finanziamento preziosa e perderla potrebbe causare danni nella fase della transizione al nuovo regime. Una soluzione però c’è: oggi l’accantonamento per il TFR rende al lavoratore circa l’1,5 per cento ogni anno. Le banche, invece, possono procurarsi denaro dalla BCE a un costo annuo molto vicino allo zero; e hanno il problema di come utilizzare tutta questa liquidità senza rischiare troppo. Si può pensare, dunque, di stabilire che l’impresa a cui il dipendente chieda il TFR in busta paga abbia diritto a un prestito di entità identica, garantito dal Fondo di Garanzia dell’Inps, senza commissioni e a un tasso di interesse inferiore rispetto al rendimento del TFR. Il problema è che questo meccanismo rischia di costare in termini di attrito burocratico; però, se sia la banca sia l’impresa ne hanno un guadagno…». Centrale sembra essere insomma il ruolo delle banche, anche nel caso in cui si dovessero perdere gli accantonamenti effettuati dalle imprese di grandi dimensioni, gestiti per legge dall’Inps: «se quegli importi non vengono più accantonati è anche l’Inps a perdere una fonte importante di finanziamento. Però qui vale lo stesso discorso fatto prima: poiché quegli accantonamenti danno un rendimento superiore al costo del denaro per le banche, l’Inps, se ne ha bisogno, potrebbe ottenere quello stesso finanziamento dalle banche a un costo inferiore», chiarisce il giuslavorista. Tirando le somme Ichino vede più lati positivi che criticità, concludendo che «la cosa migliore è lasciar libera la persona che lavora di scegliere il modo di impiegare queste somme, pari al sette per cento circa del suo reddito. Magari incentivando sul piano fiscale la destinazione alla previdenza complementare. E obbligando le banche a prestare a rischio zero e a tassi molto bassi alle imprese fino alla cessazione dei rispettivi rapporti». Non sembra essere dello stesso avviso Giampiero Falasca, che mette sul tavolo una serie di problematiche legate alla proposta di Renzi: «dal punto di vista strettamente teorico, sono favorevole al superamento del TFR come istituto: è figlio di un paternalismo dello Stato che ormai mi pare antistorico. Passando dalla teoria alla pratica, non sono convinto per diversi motivi. Il primo riguarda la tempistica: in una fase di profonda crisi come quella attuale, lo sblocco del trattamento di fine rapporto rappresenta un onere eccessivo per le imprese, che difficilmente sarà compensato da prestiti bancari o misure simili, sempre troppo burocratiche per essere accessibili a chiunque». Le stesse aziende, attraverso Confindustria, non si sono mostrate nei giorni scorsi particolarmente entusiaste e Falasca non sembra essere molto fiducioso neppure sulla capacità delle banche di riuscire a far totalmente fronte a questa nuova esigenza. Anche se a suo avviso chi ne uscirebbe più svantaggiato sono proprio i giovani: «il sistema ha puntato, meno di 10 anni fa, sul TFR per far decollare la seconda gamba previdenziale, oggi questa scelta viene rimessa in discussione, è un fatto da non sottovalutare: per i giovani, soprattutto quelli con lavori più flessibili, la speranza di una pensione decorosa è legata solo ad una solida previdenza complementare». Va però fatta un’ulteriore importante precisazione: hanno diritto al TFR i lavoratori con contratti a tempo indeterminato, determinato e d’apprendistato ma non i cosiddetti «atipici», come i collaboratori a progetto, per cui già una gran fetta di lavoratori, tra cui numerosi giovani, non è di fatto contemplata nell’ ipotesi renziana. Falasca non ha al momento cifre sul numero effettivo di beneficiari della proposta renziana, ma ipotizza che essa riguarda tutti i lavoratori dipendenti.L’avvocato esperto di diritto del lavoro non ha poi molta fiducia neppure del fatto che il TFR possa restare a lungo un’«entrata parallela» rispetto alla normale retribuzione mensile: «vedo il rischio che il TFR diventi presto un pezzo della retribuzione, con la conseguenza di essere assorbito nei prossimi rinnovi dei contratti collettivi, determinando nel lungo periodo un impoverimento dei lavoratori. Da ultimo, non mi piace il messaggio che ne viene fuori: sembra che dobbiamo vendere l'argenteria per far fronte alle spese quotidiane». In che direzione andare allora? Secondo Falasca «la misura alternativa è quella di lasciare tutto come è, il tema del TFR non è una priorità. Se si vogliono mettere più soldi in busta paga bisogna rilanciare la contrattazione di secondo livello potenziando gli incentivi fiscali e contributivi esistenti per la retribuzione di produttività, quella è la strada maestra».Nei giorni in cui il Jobs Act è entrato nelle aule parlamentari, il dibattito sui temi del lavoro è più che mai acceso e di TFR si sentirà ancora parlare per un bel po’. Così come continueranno a non svanire molte perplessità. Su tutte una non proprio banalissima: se molti lavoratori non hanno già diritto al TFR e chi ne beneficia vedrà aumentare il proprio reddito mensile di una cifra sicuramente non rilevante, si può davvero considerare questo un provvedimento di svolta?   Chiara Del Priore

Capitalismo paziente, il lato femminile che valorizza le aziende

E se provassimo a guardare la nostra azienda, le nostre istituzioni, i nostri modelli di business con gli occhi dei nostri figli? Semplice, dovremmo cambiare molte cose. Questo significherebbe rinunciare al profitto? Certamente no, ma cambiare mentalità certamente sì. Si chiama economia positiva o capitalismo paziente, un tema discusso da una decina d'anni. A Milano se n'è parlato al workshop  “Economia positiva passaporto per il futuro”, evento inserito nella tre giorni “Il tempo delle donne”, un’iniziativa voluta a fine settembre dal gruppo Rcs e Corriere della Sera in collaborazione con ValoreD, l'associazione di imprese creata per sostenere la leadership femminile in azienda.  Durante la tavola rotonda le espressioni più usate sono state “pratiche sociali di business” e “comportamenti sostenibili”. Tanti modi per dire la stessa cosa: spostare l’attenzione dalle logiche del profitto di breve periodo a quelle di lungo periodo e avere una maggiore attenzione per le nuove generazioni e per l’ambiente. Insomma, le aziende devono ripensare i propri fondamenti e la propria  governance: anche attraverso un ruolo sempre più importante per le donne.L’economia positiva diventa dunque un modello di business. Secondo il positive economy index , l’indice che misura il grado di realizzazione dell’economia sociale, l’Italia si piazza al terzultimo posto nel ranking europeo a causa della mancanza di fattori ritenuti chiave come l’altruismo e la cooperazione fra le generazioni, fra i territori e fra gli attori sociali. L’indice prende in considerazione 29 indicatori, di cui soltanto undici sono di tipo economico: gli altri riguardano le caratteristiche sociali, culturali e di governance. «Da questo punto vista l’Italia ha intrapreso un cammino che può essere virtuoso, ma che deve proseguire ancora a lungo» ha detto in un videointervento Jacques Attali, economista e uno dei più quotati teorici  dell’economia positiva.«Per continuare questo percorso» ha proseguito Roberto Fumagalli, senior partner di Kpmg, gruppo specializzato nella revisione e nella riorganizzazione contabile «bisogna rivedere il concetto stesso di sostenibilità produttiva e scollegare le aziende dalle logiche a breve termine. Non conta più solo il valore creato, ma anche i benefici sociali e ambientali che l’azienda è in grado di produrre. La nuova sfida è costruire insieme una metrica in grado di misurare questi benefici».Oggi è necessario generare qualcosa che vada oltre il profitto, farsi portartori - e portatrici - di valori positivi, perché il pubblico è sempre più attento: «Soltanto il 40% dei consumatori valuta solamente il prodotto» ha detto Marcella Logli, direttore della divisione Responsabilità sociale di Telecom Italia: «Per il 60% contano anche altre caratteristiche del brand: le sue politiche ambientali e i suoi comportamenti virtuosi. Ma nel lungo periodo queste buone pratiche portano anche a benefici economici. Come? I fondi di investimento che in borsa sostengono le aziende premiano quelle che hanno comportamenti sostenibili».  Ma che ruolo possono avere le donne in questo cambiamento? Claudia Parzani, avvocatessa 42enne - ’«unica donna partner in Italia del prestigioso studio internazionale Linklaters», si legge in un suo ritratto pubblicato qualche mese fa dal mensile Style - e presidente di Valore D, ha spiegato cosa può fare la differenza in azienda: «Il “materno”, cioè la capacità di inclusione e sviluppo è una attitudine delle donne a prescindere dal fatto che siano o meno madri, è indispensabile nelle organizzazioni complesse». Una battaglia che non è solo questione di ruolo, perché anche la mera presenza del gentil sesso al lavoro è ancora troppo bassa. Nella fascia fra i 15 e i 64 anni in Italia lavora il 64% degli uomini e solo il 46,6% delle donne. La dice lunga anche il tasso di inattività: quelle che non lavorano e non cercano attivamente un impiego sono il 46,1%. Praticamente una su due non ha un lavoro o non lo cerca perché disincentivata dalle condizioni del mercato, da una condizione fiscale che rende paradossalmente più conveniente il lavoro domestico del secondo stipendio. Dati che fanno ancora più impressione se confrontati con la media europea, dove il tasso di occupazione femminile è al 58,1%, quasi il 12% in più del nostro paese. «Eppure ogni donna che lavora produce un 10% in più di posti di lavoro» ha detto Luisa Todini, presidente di Poste Italiane e membro del consiglio di amministrazione della Rai, che ha chiuso il suo intervento al dibattito lanciando un appello al Governo: «Una madre che sceglie di non rinunciare alla propria carrriera si deve creare una rete di sostegno rispetto alla cura della famiglia. Su questo deve puntare il governo  perché il lavoro femminile aumenta la produttività, migliora l’economia e genera altri posti di lavoro».