AirHelp, quando i voli in ritardo fanno il successo di una startup

Marianna Lepore

Marianna Lepore

Scritto il 30 Dic 2014 in Articolo 36

startupperCapodanno è sinonimo di viaggi, spesso per raggiungere le famiglie lontane, ma in questo periodo ancor più che in altri può capitare di arrivare in aeroporto e scoprire che il proprio volo è in ritardo, e non permetterà di prendere la coincidenza, o è stato cancellato. Cosa fare? Di certo non perdersi d’animo e ricordarsi che da un anno a questa parte, per questi casi, c’è una startup che aiuta a ottenere dalle compagnie aeree un rimborso per il passeggero fino a 600 euro. Questa startup, che si chiama AirHelpha fatto fortuna applicando una legge europea, la 261 del 2004. Nel team c'è anche Danilo Campisi, 27enne siciliano, studi alla Bocconi di Milano, un corso in business administration and management a Miami e varie esperienze in ambito startup sia in Italia sia all’estero. Ed è da lui che la Repubblica degli Stagisti si è fatta raccontare la storia di questa avventura.

Quella di cui Campisi è marketing manager è una start up fondata dal
danese Henrik Zillmer, oggi amministratore delegato, ad agosto 2013, dopo alcuni anni necessari per creare i database. «AirHelp si occupa di fornire ai passeggeri che hanno avuto un volo in ritardo o cancellato, un rimborso da 250 a 600 euro, come previsto dalla regolamentazione europea che stabilisce che in caso di volo cancellato o in ritardo per più di tre ore senza che il passeggero sia stato avvisato almeno due settimane prima, il viaggiatore abbia diritto a un rimborso dalla compagnia aerea», spiega Campisi. Una legge che non ha ricevuto molta pubblicità, anche perché è stata molto contestata dalle compagnie aeree: in un certo senso la fortuna di AirHelp arriva pure dallo scarso interesse dei possibili competitors verso questo tema.

L’idea iniziale è stata di Zillmer, che aveva lavorato precedentemente in un’altra azienda con Campisi, che ha poi contattato Greg Roodt e Nicolas Michaelsen e poi lo stesso ex bocconiano, tutti suoi precedenti amici o collaboratori, a far parte della start up. Così si è formato il team iniziale che oggi lavora a New York, mentre il resto dell’azienda è distribuito tra Polonia, Svezia e Spagna. Per partire, oltre a un’idea brillante, sono stati necessari però i finanziamenti: «Il primo è stato di 400mila dollari ed è arrivato da Morten Lund. Grazie a lui abbiamo coperto i mercati italiani, danese, inglese e polacco, e aperto uffici in Inghilterra, Polonia e a Hong Kong. Dopo» racconta Campisi
alla Repubblica degli Stagisti: «Siamo andati nella Silicon Valley a cercare nuovi investitori. Ne abbiamo trovati molti, che partecipano con piccole quote, più Khosla Ventures, quello che ci ha dato il più importante finanziamento: tre milioni di dollari». Cifra che farebbe impallidire qualsiasi startupper italiano, alle prese con concorsi di idee, investitori timidi e una legislazione non sempre di aiuto.

L’ex bocconiano ne sa qualcosa, visto che ha provato a fare start up anche in Italia: «Gli svantaggi da noi sono di diversi tipi, ma chiunque ti dirà che fare fund raising è veramente difficile. Chi lo fa investe su poche start up e per un ammontare molto basso. In America c’è più propensione al rischio mentre in Italia si guarda di più alle carte e a più di un anno dalla presentazione del progetto, a volte non si è ancora ricevuta una risposta. Tutto questo è impensabile per una startup» prosegue Campisi: «E pensare che la nostra AirHelp in un anno è passata dall’essere una startup con cinque persone a un’azienda con 50 dipendenti!». Eppure il nostro Paese non è, come si potrebbe pensare, senza idee. Tutt’altro: «all’ultimo Smau di Milano emergeva come ci fossero più idee in Italia rispetto a Londra e Berlino, ma molte meno si trasformano in startup. La burocrazia è tantissima, sono state fatte agevolazioni per incentivare l’imprenditoria giovanile ma è ancora difficile far partire una startup e poi molti incubatori italiani si fermano dentro i confini per cercare investitori, mentre non bisognerebbe farlo».

In effetti AirHelp non si è fatta spaventare dai confini e nel primo anno è arrivata ad avere circa 5 milioni di fatturato oltre a tanti progetti per il futuro. «Stiamo lanciando un nuovo prodotto, in questo caso assicurativo, ancora in fase di test e quindi dobbiamo assumere circa 11 persone». Un servizio che obbligherà il cliente a pagare qualcosa all’azienda, una somma intorno ai 20 dollari, ma che gli consentirà in caso di volo cancellato di ricevere immediatamente 200 euro – pagati da AirHelp – a cui si potranno aggiungere i rimborsi normali fino a 600 euro.

Ma tra gli obiettivi più importanti ce n’è un altro che sta a cuore a Campisi: la start up è pronta a espandersi anche in Italia. «Stiamo assumendo business developer per aiutarci a sviluppare la nostra impresa anche in Italia. Penso che apriremo la sede entro il prossimo maggio e sarà probabilmente a Torino, dove c’è un clima per le start up molto favorevole: i prezzi degli affitti sono bassi, il Politecnico sta lanciando vari incubatori e la città sta iniziando a competere con Milano, che è quasi satura, ed è a solo 45 minuti di treno». Gli italiani che quindi saranno assunti nei prossimi mesi, due già sono stati reclutati, dovranno però inizialmente lavorare in Polonia visto che nel nostro Paese manca l’ufficio operativo, ma questo dato non sembra scoraggiare gli invii di curriculum. Tutt’altro: «I giovani che stiamo selezionando sono molto più contenti di andare in Polonia che di stare in Italia: qualcuno la vede come un’esperienza all’estero, altri come la realizzazione della loro fuga dal Paese».

Pur avendo la sua sede dirigenziale a New York, AirHelp ha come utenti una platea europea anche perché la legge comunitaria che sfrutta si può applicare solo a voli di compagnie europee che dall’America arrivano in Europa o a voli che partono dall’Europa con una qualsiasi compagnia e arrivano negli Stati Uniti. «I nostri primi due mercati, anche perché lì abbiamo investito di più, sono Inghilterra e Danimarca. Poi un po’ a sorpresa ci sono Italia, Portogallo e Spagna». Ad oggi i passeggeri aiutati sono stati più di 60mila e il tasso di vincita, inizialmente sul 60%, è arrivato al 90% dei casi.

Per chiedere aiuto basta compilare il form online, a quel punto è la startup a prendere in carico tutte le pratiche e nel caso in cui la compagnia aerea non sia subito disponibile a pagare, a portarla davanti alla Corte. Una volta ottenuto il risarcimento, AirHelp trattiene il 25% della somma ottenuta ma se per qualche motivo la compagnia aerea non paga anche la start up non pretende alcun pagamento. Un’ipotesi, quella del non rimborso, che con il tempo si sta riducendo: «Le compagnie aeree hanno cominciato a conoscerci e capito che risparmiano più a collaborare e pagare subito piuttosto che andare in tribunale».

Se il successo di Campisi è arrivato grazie a una startup creata all’estero, sulla così detta fuga dei cervelli lui è scettico: «Ogni posto offre cose diverse in base a cosa si vuole fare. Non credo che sia impossibile creare qualcosa in Italia. Certo è più difficile e molte cose vanno cambiate, ma è possibile farlo. E andare all’estero non è uno svantaggio per il nostro Paese: chi lo fa può comunque portare capitali in Italia come stiamo facendo noi di AirHelp che abbiamo il progetto di tornare e assumere oltre a investire lì».  E sulle critiche o elogi che arrivano sul tema startup, Campisi ha un’idea precisa: «È sicuramente un campo interessante ma non bisogna dimenticare che il 99% delle startup falliscono. E significa perdita di tempo e soldi. Il suggerimento è fare startup ma in maniera prudente e dimenticarsi che i finanziamenti arrivano subito. Perché purtroppo, soprattutto in Italia, non succede».

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