200mila giovani all'anno lavorano mentre studiano: scelta meritoria o fallimento del diritto allo studio?

Ilaria Mariotti

Ilaria Mariotti

Scritto il 18 Gen 2020 in Approfondimenti

borse di studio studenti università e lavoro

A catturare l'attenzione mediatica sono i Neet, ovvero i giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano né lavorano, e che in Italia – rispetto al resto dell'Ue – raggiungono purtroppo il picco (le ultime rilevazioni parlano di una quota pari a circa il 23 per cento, oltre due milioni di ragazzi, il doppio della media europea). Eppure esiste un rovescio della medaglia, rappresentato da una folta comunità di chi non solo è iscritto a un corso di studi, ma che nel frattempo lavora anche, dandosi quindi un bel da fare: i cosiddetti studenti lavoratori.

Secondo dati dell'Istat elaborati per la Repubblica degli Stagisti, la fetta di 15-29enni che nel 2018 era impegnata in ambedue le attività riguarda 206mila soggetti, con una leggera maggioranza di femmine (sono 109mila, pari al 53%). Un numero che negli anni ha subito forti oscillazioni. Se guardiamo per esempio a dieci anni fa, il totale era di 250mila studenti lavoratori, poi sceso progressivamente – forse per gli effetti della crisi economica
fino a toccare il suo minimo, a quota 166mila, nel 2015. Da quell'anno la cifra risulta di nuovo in salita. Il riscontro arriva anche da Almalaurea, che nell'ultimo rapporto pubblicato afferma come «nell'ultimo decennio si è assistito a una flessione della quota di laureati con esperienze di lavoro durante gli studi, passati dal 74 al 65 per cento, per colpa della crisi ma anche del progressivo ridursi della popolazione iscritta all'università».

Numeri che dicono molto, ma che hanno inevitabilmente anche un limite. Perché larga parte degli studenti lavoratori, specie se universitari, svolgono 'lavoretti' spesso non contrattualizzati e quindi invisibili. «Non si sceglie certo il lavoro della vita in questi casi» taglia corto con la Repubblica degli Stagisti Camilla Guarino [nella foto], 26enne studentessa di Sociologia e coordinatrice nazionale di Link, associazione studentesca che promuove i diritti degli studenti. Si finisce «nella ristorazione o tra i riders» esemplifica. Ma c'è anche chi dà ripetizioni, fa la babysitter o consegna volantini, per lo più in nero: ed è difficile che questi casi finiscano nelle statistiche ufficiali, andando invece a popolare un sottobosco di lavoretti. Anche qui però bisogna distinguere.

Perché tra i motivi dietro la scelta di dividersi in una doppia attività possono nascondersi le ragioni più disparate. Più di frequente è proprio l'urgenza di mantenersi gli studi senza dover pesare sui familiari e quindi la spinta è prettamente economica; talvolta avviene solo per coprire le spese personali senza delegare alla famiglia e conquistare così un pezzetto di indipendenza. Sempre secondo Almalaurea infatti, il 59 per cento dei laureati del 2018 ha compiuto una qualche esperienza di lavoro nel corso degli studi universitari, mentre solo il 6 per cento si è laureato lavorando stabilmente.

Non mancano neppure i casi di chi nella condizione di studente lavoratore ci si ritrova perché nel mezzo del percorso universitario incrocia un'opportunità lavorativa e decide di portare comunque a termini gli studi. Oppure di chi, da lavoratore, magari per salire di grado in azienda, decide di iscriversi all'università. E per questi sono di solito previsti dei permessi speciali, fino a un totale di 150 ore da spalmare su tre anni, che consentono di assentarsi per sostenere degli esami e studiare (a sancirlo è l’art. 10 della legge 300/1974).

Una scelta in ogni caso «meritoria»,
 come la definisce il Rapporto Giovani dell'Istituto Toniolo che nel 2014 realizzò un focus sul tema, «quella di cercare durante gli studi di mantenersi del tutto o parzialmente da soli, tanto più in un Paese come il nostro che presenta i più alti tassi di dipendenza economica dei giovani dai genitori nel mondo sviluppato». E non è neppure la provenienza da una classe meno abbiente l'aspetto decisivo: «La volontà di farlo è dettata non sempre e solo da necessità» prosegue il rapporto, «ma è determinata anche dal desiderio di autonomia e da un senso di responsabilità». Tanto che «tra coloro che studiano, la quota di chi svolge una qualche attività lavorativa supera di poco il 16 per cento tra chi proviene da famiglie con classe sociale più bassa». Cambia poco per chi ha origini più borghesi: a lavorare e studiare contemporaneamente è il 15 per cento.

La questione si lega poi in modo diretto anche al tema del diritto allo studio . «Non tutti gli studenti che hanno diritto a una borsa di studio, ovvero quelli con Isee sotto i 23mila euro, riescono a ottenerla» ricorda
Camilla Guarino, e anzi «al momento sono almeno un paio le Regioni che non coprono tutte le borse: Sicilia e Lombardia». Alcuni passi sono stati fatti «perché al Fondo nazionale per il diritto allo studio, su cui sono stanziati 250 milioni, sono stati aggiunti 31 milioni in questa legge di Stabilità».

Le borse di studio non cambiano la vita, ma  forniscono un po' di ossigeno. L'ammontare «va dai 900 ai 5mila euro annuali a seconda delle Regioni». E c'è anche il problema degli alloggi universitari: «Sono 21mila in Italia gli studenti che ne avrebbero diritto ma che non lo ricevono per mancanza di fondi o strutture», con il risultato «di aumentare ulteriormente il costo degli affitti sul mercato privato».

Anche gli atenei danno una mano a chi si sobbarca la doppia fatica di lavorare e studiare. «I sistemi cambiano a seconda delle università» fa notare Guarino. La norma è però di solito «il percorso part time, che adotta ad esempio La Sapienza di Roma, e che consente di restare in corso sostenendo la metà degli esami annuali e quindi raggiungendo la metà dei crediti previsti». Per chi va fuori corso le tasse di solito salgono, mentre rimane nella no tax area chi possiede un Isee al di sotto dei 13mila euro. In sostanza «si paga la metà delle tasse annuali ma il percorso si allunga» fa notare Guarino.

Di per sé si tratta di un servizio «positivo» a giudizio di Link, «perché consente di scegliere quale percorso adottare». Il problema di fondo resta però che l'essere studenti lavoratori dovrebbe essere una scelta e non una costrizione. «Alla radice c'è il diritto allo studio, che non funziona se si è obbligati a lavorare per poter studiare». Da noi, a differenza che in altri Paesi, «mancano servizi e welfare». Una soluzione potrebbe essere «un reddito di formazione pensato per chi studia: prevedere una misura simile allargando la possibilità di studiare sarebbe una ricchezza per il Paese».

Ilaria Mariotti 

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