Roma: «Potenziamento delle lauree triennali e sgravi fiscali per i giovani che si mettono in proprio: ecco la ricetta del Censis per rilanciare l’occupazione»

Chiara Del Priore

Chiara Del Priore

Scritto il 20 Giu 2011 in Interviste

Per avere un quadro più completo dell’analisi Censis su giovani e lavoro e per comprendere quali soluzioni concrete possano essere messe in campo, la Repubblica degli Stagisti ha chiesto al direttore generale Giuseppe Roma di commentare i dati del documento da lui presentato durante una recente audizione parlamentare. 62 anni, laureato in urbanistica e docente presso la scuola di specializzazione dell’università La Sapienza,  Roma è entrato al Censis nel 1975 e da quasi vent'anni ne è direttore generale.

Direttore, uno dei dati più significativi del testo che avete presentato in Commissione lavoro è che, nel nostro Paese, i laureati lavorano meno dei diplomati: 64% di laureati occupati contro il 70% [media Ue 84% e 76%, ndr]. Anche un paese come la Spagna, che pure ha un alto tasso di disoccupazione giovanile, ha percentuali di laureati che lavorano più alte delle nostre. Cosa non va?
I problemi occupazionali dei giovani italiani sono dovuti a una serie di fattori. Una delle cause del minor livello di occupazione dei laureati è una percezione sbagliata, ma molto diffusa, dell’università. Mi spiego: le cosiddette “lauree brevi” da noi non hanno nessuna incidenza, a differenza di quanto accade in alcuni paesi europei. Dato che il più delle volte la “triennale” non è spendibile sul mercato del lavoro, la maggior parte dei ragazzi studia fino alla magistrale, con il risultato che i giovani si laureano a 26/27 anni, entrano tardi nel mondo del lavoro e il più delle volte senza le competenze adatte, per cui fanno fatica a collocarsi sul mercato.
Quindi c’è un problema di formazione scolastica e universitaria? Il vostro studio evidenzia che un quarto delle aziende dichiara di non riuscire a trovare profili adatti o per il ridotto numero di candidati o per mancanza di un adeguato livello di preparazione.
Il problema è a monte: l’università viene concepita in Italia come un momento di acculturazione generico e non come una tappa strumentale al lavoro. Il sistema formativo del nostro Paese non aiuta i giovani, ma li inserisce in un percorso lento e poco stimolante.
I dati Isfol diffusi di recente vanno, però, in controtendenza : la laurea paga e i laureati avrebbero un salario e  un’occupazione migliori dei diplomati.
La ricerca dell’Isfol analizza l’occupazione di chi ha una laurea a cinque anni dal conseguimento del titolo : è normale che le cifre, sia in relazione che agli stipendi che al numero di occupati, siano più alte.
Anche i contratti “flessibili”  non hanno migliorato la situazione: un milione e mezzo di giovani impiegati con questo inquadramento, senza legame diretto con l’innalzamento del livello di occupazione. Cosa c’è di sbagliato nell’applicazione di questa tipologia contrattuale?
Sul discorso contratto ho un’idea definita: il malfunzionamento del mercato del lavoro non è legato alle leggi che hanno introdotto questi tipi di contratti. Allo stato attuale non ci può essere una strada diversa per le aziende: la maggior parte delle nostre imprese non può garantire continuità, il mercato è incerto. Da qui la flessibilità. Il problema principale è nel valore che ha nel nostro Paese il contratto flessibile: anche all’estero esistono contratti a tempo determinato e a progetto, ma sono dei gradini funzionali all’upgrade di carriera del lavoratore. Da noi si passa semplicemente da un contratto all’altro senza prospettive, anche perché spesso è l’unica alternativa possibile.
Il Censis avanza tre proposte: modifiche nell’iter di formazione dei giovani, maggiore sviluppo dell’iniziativa imprenditoriale, incentivazione del ricambio generazionale in azienda. Può spiegare meglio in che modo queste opzioni possono contribuire a risolvere i problemi di cui abbiamo parlato?
La formazione deve andare in due direzioni: da un lato potenziamento della laurea breve, così da abbreviare i tempi di ingresso del mondo nel lavoro; dall’altro riqualificazione del lavoro tecnico, ad esempio, attraverso un percorso che preveda il diploma e 2 anni di master professionalizzante preparatorio a un mestiere specifico. L’Italia è un paese prevalentemente manifatturiero, che richiede personale tecnico qualificato, attualmente insufficiente a soddisfare la domanda di lavoro. In secondo luogo, non si può pensare che i giovani svolgano solo lavoro dipendente e impiegatizio, esiste anche il lavoro autonomo. Per questo, bisogna favorire l’iniziativa imprenditoriale: una soluzione potrebbe essere, ad esempio, esonerare dal pagamento delle tasse le imprese per i primi tre anni di vita.
La terza proposta inserirebbe più rapidamente i giovani nella realtà imprenditoriale, introducendo un meccanismo secondo cui, a fronte di ogni lavoratore con contratto a tempo indeterminato ma il cui apporto in azienda non risulta congruente con gli obiettivi di competitività e sviluppo occupazionale, l’azienda assume due giovani a maggiore livello di professionalità, ricollocando il lavoratore in altre unità produttive.
A proposito di formazione tecnica, il governo si sta orientando verso un rilancio dell’apprendistato, che dovrebbe servire a orientare i giovani verso settori quali il primario e il secondario e ridurre, così, la domanda in ambiti in cui si registra una sovraoccupazione, come il settore dei servizi. Non c’è in qualche modo il rischio che la formazione universitaria sia penalizzata?
Se ci si orienta sia per un innalzamento della formazione nella scuola secondaria che per la valorizzazione della laurea breve non c’è questo rischio. Bisogna, però, muoversi in entrambe le direzioni.
Nel testo dell’audizione si fa costantemente il confronto con la situazione europea. Può citare alcuni esempi di politiche occupazionali estere di successo e se qualcuna di esse potrebbe trovare applicazione anche in Italia?
Faccio una premessa: nonostante in molti paesi europei i dati siano più confortanti, il problema occupazione non è completamente assente. La differenza principale tra l’estero è l’Italia sta nella maggiore attenzione ai giovani: in Germania i corsi di laurea sono istituiti in base alle richieste di lavoro che ci sono per quel settore, di modo che si studia perché si sa che dopo il titolo c’è lavoro; in Francia gli universitari ricevono dall’ateneo un contributo mensile di 300 euro per l’alloggio. La legge non può risolvere tutti i problemi, non è sufficiente, bisogna cambiare l’atteggiamento nei confronti dei giovani.

Chiara Del Priore



Per saperne di più su questo argomento, vedi anche:
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