Contrordine, la formazione professionale non è l'antidoto alla disoccupazione (secondo i nuovi dati dell'Ilo)

Ilaria Mariotti

Ilaria Mariotti

Scritto il 13 Apr 2020 in Notizie

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Contrordine: la formazione professionale, quella per intendersi del sistema duale alla tedesca, non è più un trampolino di lancio verso una solida carriera professionale né un antidoto alla disoccupazione. Meglio, al contrario, la laurea. A smentire una delle politiche più in voga degli ultimi tempi riguardo la lotta alla disoccupazione giovanile è un recente report dell'Organizzazione internazionale del lavoro Ilo, agenzia delle Nazioni Unite per la promozione del lavoro dignitoso.

Si chiama Global Employment Trends for Youth 2020 e viene pubblicato ogni due anni. Lo studio, che analizza le tendenze mondiali sull'occupazione giovanile, conclude in questa nuova edizione concentrata sulle conseguenze della tecnologia sul lavoro giovanile che i soggetti che hanno seguito percorsi legati alla formazione professionale hanno più probabilità di finire disoccupati a causa di una maggiore tendenza di questi mestieri a essere sostituiti dall'automazione. Il motivo? Si tratta di attività che possono trasformarsi presto in obsolete.

«I giovani con minori competenze e un background di tipo professionale potrebbero ritrovarsi a passare da un lavoro precario all'altro fino a sfociare nella condizione di Neet» scrivono gli analisti dell'Ilo. E questo perché «le competenze specialistiche di quel tipo di formazione tendono a diventare 'superate' più velocemente rispetto a quelle più generali di problem solving» esemplificano, «di solito impartite da istituti di istruzione di più alto livello».

Un bagaglio di conoscenze elevato e più teorico diminuirebbe insomma il rischio di essere sbalzati fuori dal mercato del lavoro. Secondo i calcoli il pericolo cala di 8,8 punti per i paesi Ocse, mentre per quanto attiene alla formazione per così dire 'meno qualificata', le probabilità di essere scalzati via dall'automazione salgono del 2,5%. E ancora, tra i giovani con impieghi – attuali o passati – suscettibili di essere sostituiti da robot, risultava occupato il 53%, contro l'86% tra quelli dotati di un tasso di istruzione più elevata. E l'Italia sembrerebbe anche uno dei Paesi più esposti al rischio automazione, posizionandosi al nono posto su venti Paesi per numero di robot applicati all'industria manifatturiera in rapporto a 10mila dipendenti.

Ma davvero la laurea è un'ancora di salvezza contro la disoccupazione? «L'istruzione superiore non garantisce l'immunità dalla perdita del lavoro» chiarisce lo studio, «anche perché i giovani sono di solito disposti, all'inizio della carriera, a accettare lavori al di sotto della loro qualifica al fine di acquisire esperienza». Il vantaggio sta invece nella capacità di adattarsi: «I laureati si collocano in una posizione migliore rispetto all'opzione di intraprendere percorsi di studio o formazione ulteriori per trovare lavoro in un altro settore». C'è poi un'altra criticità sottilineata dal report, e cioè che il generale aumento di giovani laureati riscontrati nella forza lavoro non è stato accompagnato da un'analoga crescita di lavori altamente qualificati. Si è così creato «uno squilibrio tra domanda e offerta di laureati – a partire dalla Grande Recessione della fine degli anni 2000 – che ha visto diminuire il ritorno dell’investimento nell'istruzione terziaria».

Eppure il lungo materiale messo a disposizione dall'Ilo evidenzia proprio l'incremento nella popolazione mondiale di giovani impegnati in percorsi di studio. Il che potrebbe «anche se solo parzialmente» motivare la discesa nella quota di partecipazione al lavoro delle giovani generazioni. Rispetto al 1999, i giovani iscritti all'università sono infatti passati dal 18 al 38%. Ne discende che il tasso di occupazione sia calato, in vent'anni, dal 46 al 35%. In Europa e in Asia Centrale la situazione sembrerebbe però incoraggiante. Il tasso di disoccupazione nella zona è passato dal 19% del 2012 al 15% attuale (anche se al di sopra della quota mondiale, pari al 13%).

Un dato da accorpare al consistente aumento – mondiale - dei Neet tra i 15 e i 24 anni verificatosi negli ultimi anni nel mondo: erano 259 milioni nel 2016, sono diventati 267 nel 2019, e diventeranno – secondo le stime Ilo – 273 nel 2021. L'Europa va invece in controtendenza: qui la quota di Neet si è alleggerita, scendendo dal 15,8% del 2012 al 14,6 di oggi. Non è tuttavia sufficiente. «Il tasso di Neet non è diminuito in modo sostanziale in nessuna regione dal 2005» ammonisce il report, il che «impedisce il raggiungimento del traguardo 8.6 degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile [programma sottoscritto nel 2015 per i Paesi Onu, ndr] che mira a una riduzione significativa della percentuale di Neet entro il 2020».

Molto pesante poi la sottoutilizzazione della forza lavoro giovanile, stimata in un 22% secondo l'Ilo. «Il tasso di disoccupazione misura l'esplicita domanda di lavoro» osservano i ricercatori Ilo, «ma non rileva l'intera estensione della sottoutilizzazione della forza lavoro». Perché esistono anche giovani che stanno completando gli studi o che sono disponibili a lavorare ma non si dichiarano in cerca di occupazione. Una forza lavoro non intercettata e che secondo l'Ilo «è formata da circa 41 milioni di giovani». Uno spreco immenso di risorse che si aggiunge a un altro problema, e cioè che i giovani, si evidenzia ancora, «hanno una probabilità tre volte maggiore rispetto agli adulti di essere disoccupati». Questo per «lo svantaggio derivato della poca esperienza lavorativa nel momento in cui ci si candida ai primi lavori ma anche per le barriere strutturali che impediscono ai giovani di entrare nel mercato del lavoro».


Ilaria Mariotti

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