Il precariato? Per Giuliano Cazzola è un problema «immaginario» 

Giulia Cimpanelli

Giulia Cimpanelli

Scritto il 12 Nov 2012 in Interviste

Che la precarietà sia un falso problema? Che la retorica del precariato annebbi ed inquini menti, aspirazioni ed aspettative dei piu' giovani?
Conduce a riflettere su queste e altre tematiche il nuovo saggio Figli miei precari immaginari di Giuliano Cazzola, deputato del PdL e vicepresidente della Commissione Lavoro Pubblico e privato. Pur avendo già 71 anni, il bolognese Cazzola non è uno dei "dinosauri" del nostro Parlamento: vi è entrato solamente nel 2008, dopo aver ha insegnato diritto della previdenza sociale all’università di Bologna e ricoperto incarichi sindacali; dirigente generale del ministero del Lavoro e in tale veste presidente del collegio dei sindaci prima dell’Inpdap, poi dell’Inps. È stato componente del Comitato delle politiche sociali della Ue in rappresentanza del governo italiano ed è autore di diversi libri in materia di lavoro e welfare, tra cui un saggio sulla vita di Marco Biagi di cui era amico.
Il libro si propone di esplorare la condizione giovanile al di là dei luoghi comuni nella convinzione che i ragazzi non avranno in premio quel posto di lavoro stabile a cui agognano, perché le monete d'oro non crescono sugli alberi. È la parabola evangelica dei talenti a indicare la via giusta. Non viene premiato né chi ha consumato il suo né chi lo ha gelosamente custodito, ma colui che lo ha fatto fruttare. E il talento non è solo una moneta ma rappresenta il capitale umano che una persona deve essere in grado di investire, nell'ambito delle condizioni complessive in cui si trova a vivere e ad agire, assumendo anche su se stesso la responsabilità del proprio futuro. In pochi, oggi, sono portati a chiedersi se hanno fatto tutto il possibile per realizzare le proprie aspirazioni e quanta parte di responsabilità ciascuno di noi porta nel dare un profilo accettabile al proprio destino. «Bisogna sempre ricordare che a fronte di un 36% di disoccupati c’è anche un 64% di occupati», commenta il parlamentare e aggiunge: «Stiamo combattendo la terza guerra mondiale, la prima e la seconda erano in trincea, questa è la guerra delle situazioni difficili, in ogni campo. Sono contento di essere vecchio perché farei fatica a vivere nel mondo che ci aspetta». La Repubblica degli Stagisti gli ha posto qualche domanda.

Perché, che mondo ci aspetta?

Un’Europa spinta fuori dal mercato. Confusioni, movimenti populisti, odio sociale e antipolitica. Per i giovani un totale decadimento, con una scuola che non prepara al mondo del lavoro.
Dunque perché descrive i giovani come precari “immaginari”?
Perché si vede il problema nel precariato, quando al massimo il problema potrebbe essere la disoccupazione e il precariato la risposta ad essa. La flessibilità potrebbe salvare i giovani dalla mancanza di lavoro.
Dunque considera il precariato qualcosa di positivo? Nessuna obiezione a riguardo?
Quello che manca sono leggi che lo regolino. Bisognerebbe normare la flessibilità. Trovare un sistema di welfare pubblico che riconosca ed estenda la parità dei diritti ai lavoratori precari. Ed è proprio questo uno dei punti in cui ha fallito la riforma Fornero. Non pensa ai precari per un problema di assenza di risorse economiche. Quindi niente ammortizzatori sociali innovativi.
E in cos’altro ha fallito?
La danza macabra intorno all’articolo 18 non ha consentito di mettere adeguatamente in luce il punto debole di tutta la vicenda, che stava nello squilibrio con cui erano state poste in relazione tra loro le due grandi operazioni che la riforma avrebbe dovuto affrontare: garantire, mediante una minor rigidità in uscita dal rapporto di lavoro, l’avvio di un miglior quadro di tutele e di stabilità in entrata. È qui che la riforma auspicata, nella sua prima versione proposta dal governo ad aprile, era diventata una controriforma reale: sulle tipologie del lavoro flessibile era calato un cono d’ombra di sospetto, di illiceità. Un’aura truffaldina da contrastare con una legislazione persecutoria, anche a costo di creare problemi alle imprese, di ostacolare l’occupazione e di ampliare le dimensioni del lavoro sommerso. Per fortuna, il Senato ha trovato il coraggio di modificare nella misura possibile il provvedimento sul versante della flessibilità in entrata.

Dunque lei appoggia il concetto di flessibilità: cosa c'è di sbagliato nella concezione di quest'ultimo da parte dell'opinione pubblica?
È doveroso eqilibrare il concetto di precarietà: non si può prendersela solo con il contesto ma forse anche con una mancata capacità di farsi strada che si sta sempre più insinuando nei giovani. Non bisogna vedere la precarietà come un destino immodificabile ed è sbagliato prendere a modello la condizione dei padri Iniziamo a pensare che anche in Italia ci sono state generazioni di giovani in passato che stavano peggio dell'attuale. A quei tempi c'era la guerra o la fame e per uscirne si prendeva una valigia di cartone e si emigrava in cerca di fortuna.
Quindi è d'accordo col ministro Fornero, i giovani sono "choosy"?
Sono d'accordo ma avrei reso il concetto in altro modo. Sono certo che il ministro non volesse dire che i ragazzi d'oggi siano schizzinosi. Il suo era un consiglio per suggerire di entrare al più presto nel mondo del lavoro, anche se non con l'occupazione dei sogni. Io non avrei solamente definito tutto questo con un termine.
In cosa sbagliano i giovani?
A difendere le loro catene, a usare la generazione degli anni Settanta come modello. Dovrebbero avere menti più flessibili, in realtà non le hanno. Per fortuna non sono tutti così, c’è anche chi si lancia in progetti di start-up, chi si impegna e si inventa. E chi sa cogliere le innumerevoli opportunità che gli anni 2000 regalano loro.
Quali?

Non c’è solo offerta di risorse ma anche domanda: esiste tutta una serie di lavori manuali che nessuno vuole più fare, ma che sono remunerativi e meravigliosi. I più svegli lo capiscono. Per esempio, io ho deciso di concludere il mio libro con storie di giovani che si sono impegnati e ce l’hanno fatta.
Un esempio?
Silvia Balestriero ha 34 anni e attualmente lavora per una delle più note agenzie per il lavoro dove si occupa di inserimento lavorativo dei giovani neodiplomati e neolaureati. È una delle ragazze che si è raccontata alla fine del mio libro. Lei ha capito che il criterio importante è la possibilità di esprimere chi siamo attraverso ciò che facciamo, che il lavoro è un’opera che si costruisce, magari non capendone sempre nell’immediato il senso, magari perdendoci il sonno molte notti e abbattendosi per alcune battaglie perse, ma è questo l’unico modo di vivere il lavoro per non subirlo. E lei ce l’ha fatta.

Giulia Cimpanelli

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