Professioni del commercio tra le più richieste. Un'opzione sbarcalunario per chi è poco choosy

Ilaria Mariotti

Ilaria Mariotti

Scritto il 23 Dic 2012 in Approfondimenti

Ci sono professioni che reggono meglio alla crisi e altre meno. Tra queste, quelle del commercio sembrerebbero le più resistenti, almeno a guardare i dati Unioncamere del 2011 secondo cui restano scoperte il 14% delle offerte di lavoro in questo ambito (su 117mila posti totali che non vengono occupati), creando l'odioso fenomeno del mismatch tra offerta e domanda di lavoro, di cui la Repubblica degli Stagisti si sta occupando da qualche tempo. Sedicimila posti di difficile reperimento concentrati soprattutto al Nord-Est (19,7%), al Nord-Ovest (17,6%) e al centro (16,4), e meno al Meridione, dove il problema riguarda solo il 15% delle offerte. Dalle rilevazioni di settembre 2012 emerge che è proprio nel commercio - un settore che comprende secondo l'Istat (dati 2009) circa 1milione 200mila esercizi con quasi 3 milioni di addetti - che si collocano alcuni tra i profili più ricercati: le stime parlano di più di 10mila assunzioni per il 2013, assegnando al comparto il terzo posto dopo le prime due categorie formate dai lavoratori del turismo e dagli operatori delle pulizie. I motivi? Il rapporto Unioncamere sottolinea che le imprese nel «commercio e turismo sono più guidate nei loro programmi di assunzione da necessità legate a fattori di stagionalità» e hanno dunque continua esigenza di personale. A questo proposito Alessio Di Labio delle politiche giovanili della Filcams, fa notare che - a fronte di un blocco di contratti indeterminati che nella grande distribuzione supera l'80% del totale - esiste una «quota di precariato fissa chiamata solo per coprire periodi di ferie, festività natalizie o altro». Si tratta di momenti di picco delle vendite «sempre meno prevedibili data la congiuntura economica, e che gli esercenti fronteggiano reclutando nuovo personale selezionato attraverso pacchetti di curriculum sempre disponibili». In sostanza, una delle ragioni della resistenza del mismatch si troverebbe nell'instabilità «fisiologica» e nelle esigenze mutevoli del settore. 
Ma c'è dell'altro. Nello studio di Unioncamere si legge che «la carenza dell’offerta è di frequente motivata dal fatto che si tratta di mestieri ritenuti meno gratificanti o che vengono intrapresi con una buona dose di improvvisazione e che non sono considerati sufficientemente appetibili nonostante possano garantire retribuzioni migliori rispetto a opzioni alternative, come nel caso delle professioni manuali/artigiane, alle quali vengono spesso preferite professioni meno remunerative nel settore dei servizi». Tant'è che il 41% delle imprese con difficoltà di reperimento di addetti del commercio, lo attribuisce alla mancanza di interesse da parte dei candidati o perfino - nel 31% dei casi - all'assenza di adeguate caratteristiche personali. Le stesse imprese che poi ritengono tanto importanti le abilità comunicative orali e scritte (48%) quanto le abilità manuali (43%) come skill richieste, a dimostrazione che il settore non è aperto a chiunque e che esiste una soglia di istruzione di medio livello. Non solo: anche se non si esige un titolo formativo specifico, ci sono tutta una serie di abilità di cui disporre: saper parlare correttamente, ma soprattutto capacità di trattare con i clienti e problem solving, che i candidati, spesso improvvisati, non hanno. 
E per quelli che invece sono commessi con tutti i crismi, magari anche navigati, si presenta talvolta il nodo della retribuzione. Le aziende se li 'litigano' ma poi non sono disposti a offrire uno stipendio adeguato, ripiegando quindi su candidati meno esperti e meno impegnativi sul piano economico. Tutti fattori che insieme rendono il mismatch nel settore del commercio un fenomeno duro a morire o quasi irrisolvibile. 
Certo è che fare il commesso o lo shop manager - il responsabile di negozio che gestisce tutto lo staff - (o l'informatico o l'operatore del turismo, anch'esse professioni del commercio inquadrate nell'omonimo contratto nazionale) difficilmente sarà la massima aspirazione lavorativa di chi ha conseguito un titolo di studio alto come una laurea o un master. Ma la realtà attuale racconta di una fetta crescente di studenti lavoratori e neolaureati che finiscono a lavorare in un negozio di abbigliamento (per citare l'esempio più tipico di vendita) in attesa che la fortuna di un impiego migliore bussi alla loro porta. Un esercito di giovani ben poco choosy che però a quanto pare non basta ad appianare i numeri vertiginosi del mismatch. A testimoniarlo c'è Paolo P., commesso di Zara in un negozio del centro di Roma: i curriculum che arrivano «sono anche di ragazzi che stanno studiando o che hanno appena finito l'università e non trovano altro». «Sono solo una minoranza», ma non si tratta co
munque di casi isolati.
Pina Parnofiello, coordinatrice nazionale del settore moda di Confesercenti, oltre a confermare un incremento nella richiesta di impiego da parte di candidati laureati, spezza una lancia in favore della figura della commessa moderna, non più impiegata di basso profilo e molto più colta rispetto al passato«oggi è necessario un diploma e la conoscenza almeno dell'inglese, che è la principale richiesta che riceviamo dai nostri imprenditori». «Non esiste più il modello della commessa anni Ottanta con al massimo la scuola media». C'è poi a parte tutto un settore, quello del lusso, dove a moltiplicarsi sono sia i requisiti di accesso che lo stipendio a fine mese. Per una casa di abbigliamento come Prada, (per cui le barriere all'ingresso sono come minimo bella presenza e capacità di parlare fluentemente diverse lingue) le buste paga possono lievitare fino a duemila euro al mese, senza contare bonus e commissioni sulla vendita, assicura C., impiegata di questa maison che preferisce però mantenere l'anonimato.
Come altrove tuttavia, nonostante la descrizione rosea del settore, 
non mancano gli abusi. Oltre agli stage in negozio (
un fenomeno di cui conferma l'esistenza alla Repubblica degli Stagisti Beatrice Cimini della Filcams), l'altro è quello delle associazioni in partecipazione «utilizzate spesso dalle imprese familiari, benché la riforma Fornero ne abbia parzialmente ridotto l'uso» riferisce Cimini denunciando anche lo scadimento della tipologia contrattuale applicata: «oggi un commesso semplice è inquadrato con un contratto del quinto livello del settore del commercio, prima era un quarto». Traduzione per i non addetti ai lavori: un salario minore. 
Al netto di tali considerazioni, lavorare nel commercio può significare talvolta una temporanea via di uscita per chi annaspa nella disoccupazione, e forse non delle peggiori se si pensa che nella maggior parte dei casi viene offerto un contratto regolare e si è dignitosamente retribuiti. 
Del resto non essere choosy, come ha infelicemente consigliato il ministro Fornero in una dichiarazione di qualche tempo fa, può non funzionare nel lungo termine ma aiuta nell'immediato a sbarcare il lunario.

 

Ilaria Mariotti


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