Luci e ombre del contratto di apprendistato - una buona occasione, ma preclusa (o quasi) ai laureati

Eleonora Voltolina

Eleonora Voltolina

Scritto il 11 Nov 2009 in Editoriali

Il contratto di apprendistato è davvero la soluzione? Quando si parla di giovani e lavoro, e più in particolare della difficoltà dei giovani italiani a trovare buona occupazione (cioè contratti "sani", che prevedano una retribuzione adeguata alle esigenze del lavoratore e che siano in linea con il suo grado di istruzione e le sue aspirazioni), spesso lo si invoca come forma contrattuale che potrebbe salvare la situazione.
Facciamo un passo indietro. L'apprendistato esiste da sempre: fino a qualche anno fa con questa parola si intendeva il periodo in cui un ragazzo molto giovane imparava un mestiere, spesso nella bottega di un artigiano, osservando e appunto apprendendo i gesti e le tecniche. Con la legge Biagi questo particolare contratto di
«formazione lavoro» è stato e suddiviso in tre tipologie: la prima dedicata ai giovanissimi (per il diritto-dovere di istruzione e formazione, con una durata massima di tre anni), la seconda «professionalizzante» (per il conseguimento di una qualificazione attraverso una formazione sul lavoro e un apprendimento tecnico-professionale, con una durata variabile da due a sei anni), e la terza per «percorsi di alta formazione» (per chi sta facendo l’università o altre forme di alta specializzazione).
Sulla carta si tratta di un'occasione molto vantaggiosa non solo per i ragazzi, che hanno la possibilità di fare una "formazione on the job" percependo un vero e proprio stipendio, ma anche per le aziende che possono contare su una quota contributiva molto bassa. In un certo senso, l'apprendistato non è altro che uno stage  provvisto di retribuzione e coincidente con l'i
nserimento lavorativo del giovane in formazione.
Peccato però che questa occasione sia appannaggio quasi esclusivo delle persone con titoli di studio bassi. Dei 600mila contratti di apprendistato attivati nell'ultimo anno monitorato, il 2007, più del 95% ha riguardato persone non laureate (oltre un terzo erano artigiani). Il recente rapporto di monitoraggio dell'Isfol  Apprendistato, un sistema plurale [nell'immagine, la copertina] sottolinea che questo dato fino a qualche anno fa era ancor più basso: nel 2002 la percentuale di apprendisti laureati si fermava allo 0,2%, ora è arrivata al 4,7%. Ma un incremento del 4,5% in cinque anni non sembra una grande conquista, specialmente se lo si traduce in numeri concreti: poco più di 28mila laureati, vale a dire meno di un decimo dei 300mila "dottori" sfornati ogni anno dalle università italiane, hanno potuto ottenere nel 2007 un contratto di apprendistato.
Questi dati sono in netto contrasto con le indicazioni che oggi come ieri arrivano dal ministero del Lavoro. Roberto Maroni, ministro nel passato governo Berlusconi, aveva dedicato all'apprendistato la circolare 40/2004 definendolo «l'unico contratto di lavoro a contenuto formativo presente nel nostro ordinamento
» e indicandolo come il solo «strumento idoneo a costruire un reale percorso di alternanza tra formazione e lavoro». A distanza di cinque anni il suo successore, l'attuale ministro Maurizio Sacconi, nel documento Italia 2020 – Piano di azione per l’occupabilità dei giovani attraverso l’integrazione tra apprendimento e lavoro ammette che «delle tre tipologie introdotte dalla legge Biagi risulta operativo solo l’apprendistato professionalizzante. Del tutto virtuale, in assenza delle necessarie intese tra Stato e Regioni, è l’apprendistato per l'espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione. Lo stesso può dirsi per l’apprendistato di terzo livello, finalizzato al conseguimento di un diploma o di un titolo di alta formazione, compresi i dottorati di ricerca. Una opportunità unica, specie per le nostre piccole e medie imprese, per investire con costi ragionevoli nella ricerca e nella innovazione, ma utilizzata, di fatto, solo nell’ambito di un progetto sperimentale da tempo concluso e che ha visto il coinvolgimento di non più di mille apprendisti».

La Repubblica degli Stagisti crede nel contratto di apprendistato, tanto da averlo inserito nell'ultimo punto della sua Carta dei diritti dello stagista
dove si legge che «lo stage non deve essere considerato l’unico strumento per realizzare una formazione: va incentivato l’utilizzo dei contratti di apprendistato». Ma per convincere le aziende italiane ad usarlo non bastano le parole. Bisogna intervenire prima di tutto, e con decisione, per rendere disponibile questo contratto anche ai laureati: per non lasciare che sia lo stage, di fatto, l'unico strumento utilizzato per loro come «formazione lavoro».

Eleonora Voltolina

Per saperne di più su questo argomento, leggi anche:
- Giovani e lavoro, il manifesto dei ministri Sacconi e Gelmini: «Non c'è bisogno di grandi riforme, basta avvicinare la scuola alle imprese»
- Apprendistato questo sconosciuto – Tiraboschi: «No allo stage come "contratto di inserimento": per quello ci sono oggi altri strumenti»
- Rapporto Excelsior 2009: sempre più stagisti nelle imprese italiane, sempre meno assunzioni dopo lo stage

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