La delusione di un lettore dopo un master: «Perché le aziende prendono stagisti se non ne hanno bisogno?»

Chiara Del Priore

Chiara Del Priore

Scritto il 01 Dic 2011 in Storie

Mi chiamo Bernardo Bassoli, ho 30 anni, sono originario di Roma ma da sempre vivo a Latina. Attualmente mi occupo di traduzioni in inglese di manuali tecnici per una piccola casa editrice. Non ho un vero e proprio contratto, ma incarichi di prestazione occasionale. Mi sono laureato al Dams presso l'università Roma Tre: in quel periodo ho passato alcuni mesi facendo il pendolare, altri trattenendomi a Roma grazie ad alcuni lavoretti e alle borse di studio messe a disposizione dal mio ateneo.
Nel 2008 mi sono trasferito a Milano per frequentare il master in Cinema digitale e produzione televisiva, organizzato dall'università Cattolica di Milano nell'ambito dell'Alta scuola in media, comunicazione e spettacolo. Un anno finalizzato alla formazione nel campo dell'ideazione e produzione di cinema digitale e televisione, che comprende uno stage finale, costo totale seimila euro. A mantenermi a Milano sono stati i miei genitori, che mi hanno pagato la quota del master, l’affitto e le altre spese.
Dopo un periodo di corso, iniziato a ottobre, con un bilancio tutto sommato positivo sul fronte della didattica, ad aprile 2009 sono stato convocato dai tutor del master per un colloquio individuale di orientamento, per indicare le mie preferenze sullo stage da svolgere. Da questo incontro alcune cose sono iniziate a non andare per il verso giusto: nel momento in cui la redazione individuata dai tutor ha accettato la mia candidatura per lo stage, sono stato costretto a fare lo stesso. Nel caso in cui non avessi gradito l’azienda, o mi fossi reso conto di non essere adatto a quel posto, avrei potuto certamente rifiutare, ma sarebbe stato più difficile per le tutor trovare una nuova collocazione. A questo punto, sarebbe stato preferibile provvedere da solo. Se pensiamo che di solito si frequentano i master per trovare buoni stage, che senso ha seguirlo per poi dover trovare comunque uno stage autonomamente?
Su queste premesse, ho preferito accettare e a giugno dello stesso anno ho incontrato il capo redattore e l’ispettore di produzione della redazione di Okkupati, trasmissione sui temi del lavoro e del precariato, prodotta dalla Palomar e andata in onda su Rai Tre fino all'anno scorso, con sede a Roma. Lì avrei dovuto svolgere il mio stage di quattro mesi, gratuito e senza alcun tipo di benefit.
Al momento del colloquio, mi ha stupito il fatto che, a parte qualche domanda generica personale, non c’è stato nessun interesse verso la mia vita professionale: tipo di studi, competenze o esperienze di lavoro precedenti. A loro praticamente sono andato subito bene. Mi hanno dato indicazioni sulle attività dello stage e poi hanno chiarito subito che le possibilità di essere assunto in futuro dalla Palomar erano pari a zero. Dopo aver tentato con le tutor di trovare un soluzione alternativa, ho deciso di accettare, anche perché avrei dovuto aspettare mesi prima di un’altra, tra l’altro incerta, possibilità di stage.
Una volta iniziata quest’esperienza, ho capito quasi subito che la mia presenza era inutile: a parte aver accompagnato qualche volta le redattrici del programma a fare riprese per i loro servizi, ero escluso dalle riunioni di redazione e il mio «lavoro» è stato essenzialmente quello di rispondere a qualche e-mail e passare la giornata davanti al computer. Ho provato a fare qualche proposta, ma con scarsi risultati. Vivere un’esperienza in un ambiente che non aveva alcuna necessità della mia presenza per me è stata una vera e propria batosta. Ho anche pensato di andare via prima, ma già dall’inizio ci era stato chiarito che chi avesse finito lo stage con più di una settimana di anticipo non avrebbe poi potuto ottenere l’attestato di frequenza del master. A quel punto ho portato a termine la mia esperienza. Inutile dire che non ho mantenuto alcun tipo di contatto con nessuno dei membri dello staff.
Dopo questo stage, non ne ho fatti altri e ho rinunciato definitivamente a possibilità di carriera nel cinema o nella televisione. Oggi penso che, anche se i master non sono un’agenzia di collocamento per statuto, col tempo lo sono diventati, perché tutti li frequentano soprattutto per trovare uno stage che dia quante più alte possibilità di assunzione possibili. La formazione, l’apprendimento sono solo una bella forma, che serve agli organizzatori per rendere quel master appetibile. Alle società, soprattutto quelle che lavorano nel campo della comunicazione, interessa raramente ciò che hai fatto in quei mesi, quello che importa sono le relazioni, i galloni che un’università ha da spendere nei confronti delle società cui spedire i propri studenti.
Ho perso fiducia nel valore formativo dello stage, ma l’aspetto peggiore di tutta la storia è che puoi sempre convincerti della situazione, della depressione economica e di tante altre vie di fuga, ma ci sarà sempre una sottile vocina che ti suggerirà che la colpa è solo tua e che in qualche modo sei anche tu che hai contribuito al fallimento del tuo stage. Sono certo che i responsabili del master fossero in buona fede, e convinti di averci assegnato ad ambienti propedeutici al nostro ingresso nel mondo del lavoro. Ma le redazioni e le aziende dovrebbero agire con più responsabilità, ed evitare di prendere stagisti se non ne hanno affatto bisogno.

Testo raccolto da Chiara Del Priore

Per saperne di più su quest'argomento, leggi anche:
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