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Miglior stagista dell'anno, quest'anno Bip premia i due assunti più giovani

Presto e bene. Iscriversi all'università giusta, macinare esami con buona lena, buttarsi in un'esperienza “on the job” ancor prima di essersi laureati. Fare uno stage mentre si scrive la tesi: doppio impegno, doppia energia. E a volte anche doppia ricompensa. Come è accaduto a Alia Falcone e Alberto Bruschi, che insieme non fanno mezzo secolo, e che hanno firmato un contratto a tempo indeterminato prima ancora di finire l'università. Ad assumerli è stata Bip, società di consulenza tra le aziende virtuose del network della Repubblica degli Stagisti, con tanto di Bollino OK Stage e di AwaRdS 2016 per il miglior tasso di trasformazione di stage in contratti (oltre il 90%!). L'altra sera, all'Alcatraz di Milano, alla convention annuale di Bip sono stati premiati come “migliori stagisti dell'anno”, scelti proprio con il criterio dei due più giovani assunti del 2016.«La consulenza è un mondo che mi ha subito affascinato» racconta il 24enne Alberto alla Repubblica degli Stagisti: «Fin dai primi anni di università lo sentivo come uno strumento per riconoscere e applicare i modelli teorici che stavo studiando a realtà sempre diverse, adattando e perfezionando via via le mie conoscenze». Originario di San Donato Milanese, attualmente iscritto alla facoltà di Ingegneria gestionale presso il  Politecnico di Milano – se tutto va secondo i piani, si laureerà nella primavera del 2017 – Alberto è entrato in Bip a marzo di quest'anno e, in pochi mesi, da stagista si è ritrovato assunto a tempo indeterminato. Un'esperienza che si sta rivelando strategica anche per la stesura della sua tesi di laurea: «Lo stage in Bip mi ha offerto un'opportunità molto interessante: lavorare su un progetto Six Sigma, uno dei temi che più mi avevano interessato in università. La tesi è venuta di conseguenza!»«Il mio percorso di ingresso nel mondo del lavoro è stato più "veloce" rispetto a quello dei miei compagni di corso» riflette Alia: «Molti miei amici stanno ancora aspettando risposte dalle aziende a cui hanno mandato cv o con cui hanno fatto colloqui, mentre altri sono ancora in stage». In tempi di disoccupazione giovanile al 40%, non capita spesso di firmare un contratto così a 23 anni, e la prima ad esserne stupita è proprio la diretta interessata: «Sicuramente non me lo sarei mai aspettato» confessa «ma è una sensazione “liberatoria”. So di poter crescere, senza dovermi preoccupare di altro».Originaria di Taranto, laureata in Management alla Bocconi giusto giusto tre giorni prima della convention in cui ha ricevuto il premio [nella foto qui a fianco, il momento della consegna della targa con Eleonora Voltolina, direttrice della Repubblica degli Stagisti, e Costanza Ramorino, vicepresidente di ValoreD], Alia considera il suo incontro con Bip una fortunata «opportunità. Mi ha inserita nel mondo del lavoro e mi fa crescere ogni giorno, mettendo a frutto quanto appreso in università». Oggi lavora in un team che si occupa di governante e PMO lato technology. La sua giornata tipo inizia alle 9: «generalmente ci si prende un caffè tutti insieme e poi si parte. Mi piace fare una lista delle attività delle attività da completare, così da non perdermi nulla e organizzare il mio tempo. Tipicamente si lavora a stretto contatto non solo all’interno del team, ma anche con i clienti. Gli imprevisti non mancano mai, ma è anche il bello della nostra attività».«Per me Bip rappresenta un modello di azienda per la quale sono orgoglioso di lavorare e alla quale voglio contribuire» aggiunge Alberto: «dal punto di vista professionale ha espresso fiducia anche nei confronti del più giovane arrivato, offrendomi attività stimolanti e la giusta autonomia. Dal punto di vista umano, pur crescendo molto e arrivando di fatto a affiancare come dimensioni in Italia le multinazionali anglosassoni della consulenza, Bip è riuscita a rimanere un ambiente più informale, con un'organizzazione di fatto orizzontale, molta collaborazione e attenzione alla crescita dei più giovani».Sia Alia sia Alberto non erano al primo stage. «Io ne avevo già svolto uno durante la triennale» ricorda Alia: «Nell’ambito di un progetto con l’università, che si intitolava “Dai un senso al tuo profitto”, avevo passato tre mesi in una cooperativa sociale, Dimensione Lavoro, che in provincia di Milano occupa persone con disabilità fisiche o mentali o con vissuti di emarginazione alle spalle». Un'esperienza lontana dal suo lavoro attuale, ma certamente molto formativa dal punto di vista umano.Più vicina alla consulenza, invece, la precedente esperienza di Alberto: «A 18 anni avevo passato un'estate presso una allora piccola società di consulenza in ambito farmaceutico a Boston» aggiunge Alberto: «Studiavo ancora al liceo, quindi il mio contributo all'azienda si limitava a curare i database e altro back office. Il vero contributo l'ho dato alla mia crescita: è stato il mio primo contatto "in solitaria" con una realtà estera e di convivenza quotidiana con ragazzi di altra nazionalità, da cui ho tratto molto».Su una cosa Alia e Alberto concordano: nel mondo del lavoro è meglio entrare con determinazione, senza paranoie. «Il consiglio che darei ai miei coetanei? Di non farsi scoraggiare dai primi no e di cercare un lavoro che consenta di continuare ad imparare» dice Alia. «Per prima cosa di non farsi prendere da ansia e paura durante la ricerca: a volte tutto quello che serve è tenere gli occhi aperti alle occasioni che ci si aprono davanti» aggiunge Alberto: «E poi seguire le proprie passioni, che a volte sono la chiave per conquistarsi una competenza particolare: io devo molto al fatto di aver coltivato il mio interesse per la statistica, che ora è parte importante della mia tesi e di alcune attività sul lavoro». Parola di stagisti dell'anno Bip!

Idee, proposte, analisi degli italiani “fuori dai piedi”: metti una sera al Meetalents a Bruxelles

«Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dov'è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi», la frase pronunciata qualche giorno fa dal ministro del lavoro Giuliano Poletti si cala nel dibattito molto acceso negli ultimi anni su quanti, per un motivo o per un altro, scelgono o subiscono un lavoro all'estero. Tematiche che di recente sono state al centro del MeeTalents 2016, l’appuntamento annuale organizzato da Italents, associazione che dal 2011 svolge attività per la promozione dei talenti entro e fuori i confini nazionali (a proposito: Italents ha pubblicato la lettera aperta di risposta di una expat al ministro Poletti, e ha lanciato una call dando la disponibilità a pubblicare altre risposta di expat!). L'evento si è aperto con un video “sempreverde” in cui Renzo Piano, architetto e senatore a vita, dice una cosa molto diversa dal ministro Poletti: «Secondo me i giovani devono partire, devono andare via per curiosità, non per disperazione. E poi devono tornare. Devono andare per capire com’è il resto del mondo, ma anche una cosa più importante: capire se stessi». Quest'anno il MeeTalents è stato organizzato per la prima volta fuori dall’Italia, a Bruxelles, un luogo che Eleonora Voltolina presidente di Italents dal 2016 definisce «città più rappresentativa per gli expat italiani», visto che proprio qui vivono molti nostri connazionali e qui passano, per un periodo più o meno lungo, tantissimi giovani impiegati negli stage presso le tante istituzioni europee.La serata si è aperta sul tema dell’importanza di continuare a incidere sulle politiche italiane pur vivendo all’estero, con un panel moderato dal giornalista Roberto Bonzio che, prima di introdurre Francesco Cerasani, segretario PD Bruxelles, ha voluto raccontare la sua storia di rinascita. «Dopo 30 anni in redazione ho deciso di fare un investimento per la famiglia e i ragazzi e sono andato sei mesi in Silicon Valley». Un’esperienza che cambia la sua vita e gli fa scoprire due tratti caratteristici del talento italiano, che portano a sperperarlo: «La capacità di affrontare la complessità del mondo ma anche l’incapacità di fare squadra e l’invidia che ci fa giorire della sconfitta altrui». Da tutto questo Bonzio ha costruito un progetto multimediale, Italiani di Frontiera, in cui ancora oggi continua a raccontare la storia di italiani capaci di fare nuove imprese.Tra i primi relatori a parlare, Cerasani sottolinea l’importanza di «investire a livello politico su questa comunità di nuovi migranti». E soprattutto sulla «necessità di fare rete, di incidere e fare politica dentro le amministrazioni politiche di riferimento e di comprendere realmente cos’è la cittadinanza europea». Senza dimenticare quella di provenienza, però, e ricordandosi di esercitare il proprio diritto al voto: dal 2001 infatti i residenti all'estero possono eleggere i propri rappresentanti in una apposita circoscrizione. Ma è altrettanto importante fare vita politica attiva, come dice Gianluca Cerri, del MeetUp Movimento 5 stelle Bruxelles, che emigrato in «età avanzata» è riuscito a dare una svolta alla sua vita. «Dall’estero ho avuto la possibilità di ricostruirla. E di continuare l’attività politica iniziata in Toscana».Fare politica ma anche, e soprattutto, fare rete. Un concetto sottolineato da Maria Chiara Prodi, presidente della VII Commissione “Nuove migrazioni e generazioni nuove” del Consiglio generale italiani all’estero, l’organo consulente del governo e parlamento sui temi di interesse per chi non vive più nel nostro Paese. «La nostra emigrazione, oggi, è individuale ma è importante riunirsi» ha detto Prodi, ricordando come il crescente individualismo degli emigranti abbia portato sempre più italiani residenti all’estero a non iscriversi all’Aire. «E invece è importante abbandonare l’ottica pietista del cervello in fuga e pensare che se non ci si iscrive si sprecano risorse: solo per fare un esempio, circa 2mila euro l’anno alla voce sistema sanitario».Fare rete, dunque, tra quanti vivono all’estero anche per rendere più semplice la fase di integrazione nel nuovo contesto sociale. È il lavoro che fa anche la Comune del Belgio, un’associazione che in un’ottica di mutuo soccorso mette insieme tutta una serie di conoscenze che possono aiutare chi arriva dall’Italia. Anche perché, ci tiene a sottolineare Pietro Lunetta – da sei anni a Bruxelles «nonostante fossi tra quelli che non volevano partire dall’Italia» – se «negli anni ’70 la rappresentazione all’estero era più forte, ora lo è di meno e questo comporta una debolezza estrema nella fase di integrazione». Soprattutto se si considera che moltissimi tra gli espatriati hanno un profilo professionale non qualificato e quindi ancora più difficoltà a integrarsi nel nuovo contesto. Tra gli altri intervenuti al primo panel anche Alessandro Facchin, responsabile del comitato giovani nuove emigrazioni dell’associazione Trevisani nel Mondo, che oggi conta 10mila iscritti e cerca di mantenere un rapporto tra quanti già sono emigrati all’estero e quanti invece oggi vogliono emigrare. Anche se non è facile perché «abbiamo a che fare con chi è emigrato di recente come con quelli ormai di quarta o quinta generazione». A chiudere il primo panel, la ricercatrice Ilaria Maselli illustra il progetto “I vote where I live campaign” che cerca di convincere gli italiani da tempo residenti all’estero a partecipare attivamente alla vita politica anche attraverso il voto alle elezioni comunali nel Paese che li ha accolti.Il secondo panel è stato invece dedicato alla circolazione dei talenti e a coloro che decidono di tornare in Italia. Qui ci si è soffermati sulla percentuale, altissima, di giovani convinti che per realizzarsi sia necessario andare all’estero. Situazione che ha favorito lo sviluppo di progetti come Eures o Erasmus, e la nuova idea di servizio civile europeo avanzato, come ha raccontato Federico Pancaldi, Policy officer alla DG occupazione Commissione europea. La storia di emigrazione di Pancaldi è cominciata già a 16 anni con un viaggio con Intercultura; oggi lui è più che mai convinto che «l’Europa non può parlare di brain drain, perché in realtà quello che noi facciamo è facilitare le opportunità degli individui di andare a cercarsi un futuro in un altro Paese».Futuro cercato non solo dai giovani ma anche dagli imprenditori. Matteo Lazzarini, segretario generale della Camera di Commercio belgo italiana, racconta infatti la storia degli imprenditori espatriati e delle difficoltà che incontrano nel continuare ad avere rapporti con l’Italia vista, ad esempio, l’impossibilità di partecipare a molti bandi pubblici a causa di requisiti prettamente italiani. Ma alla Camera di commercio non vanno solo imprenditori, anche giovani appena emigrati che non sanno bene come cercare un lavoro. A loro è stato dedicato un nuovo sportello unico che prenderà il via nel 2017.Emigrazione che spesso parte dal sud Italia: un dato che Bruno Cortese, funzionario della Regione Siciliana Bruxelles ricorda correlato alla percentuale di rischio povertà che se nella media italiana è del 18% al Sud sale fino al 39. Numeri «umilianti ed allarmanti».E se emigrare non sempre significa rimanere all’estero, c’è però una soglia critica  – citata da Paolo Balduzzi, professore di scienza delle finanze alla Cattolica di Milano e segretario di Italents – oltre la quale è molto difficile si torni indietro. Sono i tre anni: se si sta fuori dall'Italia olltre quella soglia, è probabile che si resti stabilmente lontano da casa. Ma come facilitare il  rientro? In Italia nel 2010 è stata approvata la legge Controesodo, che ha introdotto incentivi fiscali molto vantaggiosi per rientrare, aperti agli italiani laureati che avessero un'esperienza di almeno due anni all'estero.. Tra chi ha scelto di usufruire della legge anche Cecilia Gozzoli, membro del gruppo informale Controesodo che racconta come la sua scelta di tornare fosse stata presa con un obiettivo “controcorrente”: far nascere i suoi figli in Italia. Gozzoli sottolinea che «l’incentivo aiuta, ma non è il driver principale: i motivi personali determinano la scelta di ciascuno». Oggi, dall’interno del gruppo Controesodo, Cecilia si batte perché questa misura da temporanea diventi un po’ più programmatica in modo da consentire a tanti come lei di decidere con calma se e quando tornare.Nell’ultimo dibattito, moderato da Eleonora Voltolina, è stato affrontato un altro tassello, forse il più importante: quello inerente al mercato del lavoro. Partendo innanzitutto dai dati dell’ultimo Rapporto Giovani illustrati da Alessandro Rosina, responsabile del rapporto e professore di demografia all’università Cattolica nonché ex presidente di Italents. L’indagine, partita nel 2012 in Italia, è stata estesa dall’anno scorso in tutta Europa con l’obiettivo di capire quale idea abbiano i giovani proprio dell’Ue. E così si scopre che, un po’ a sorpresa visti i tempi, «hanno la consapevolezza che è meglio essere uniti piuttosto che tanti Paesi in ordine sparso». Questo nonostante la libera circolazione e la moneta unica non siano stati vissuti come veri vantaggi. Cosa vorrebbero quindi i giovani? «Una politica sociale comune, intesa come lavoro e welfare».Ma oggi l’Europa fa fatica proprio sulla politica sociale, evidenzia Brando Benifei, europarlamentare PD e grande sostenitore del Meetalents 2016, che sottolinea come nell’attuale Europa a 28, molto eterogea, sia più difficile rispetto al passato trovare un unico sistema comune. «Proprio per questo serve un’Europa più avanzata, anche sul tema delle pensioni, visto che oggi si rischia che chi lavora in vari paesi europei perda i contributi accumulati in diversi luoghi. Senza dimenticare che anche il riconoscimento dei titoli non è automatico».Proprio sul tema dei diritti sociali è Germana Viglietta, membro della Rappresentanza permanente d’Italia presso l’Unione europea, a dire che «nessuno deve esserne escluso, perché sono collegati con la mobilità e rientrano tra i principi cardine della costituzione europea». E spiega che se «i giovani europei chiedono per il 77,2% un Europa più sociale, è perché effettivamente è la prima percezione quando si gira l’Europa per sentirsi parte integrante del sistema».L’orizzonte, però, non sembra positivo ed è Eleonora Medda, Inca Cgil Belgique e membro del Consiglio Generale degli Italiani all'estero, a confermarlo: «Frans Timmermans, presidente del partito socialista europeo, ha dichiarato nel 2015 che l’accesso al mercato del lavoro non significa un accesso automatico alla previdenza sociale»  e questo secondo Medda «significa tornare indietro di 60 anni». Un ritorno al passato che nei fatti si sta già concretizzando, con «paesi democratici come il Belgio in cui ci sono italiani o altri cittadini europei che ricevono l’ordine di lasciare il Paese perché hanno fatto la richiesta del sussidio sociale». Se i giovani dimostrano di voler credere nel progetto europeo, in realtà «i diritti civili vanno nell’altro senso».Per tutti questi motivi, l’armonizzazione dei contributi per quanti hanno lavorato in più Paesi sarebbe necessaria, ribadisce Andrea Brunetti, responsabile politiche giovanili Cgil. Lanciando un allarme: il rischio che l’assenza di queste misure porti ad avere invece di un “brain drain”, uno “youth drain”, un calo demografico tale che andrebbe affrontato subito.In chiusura un altro intervento di Ilaria Maselli, che ha voluto ricordare i due motivi principali per cui, oggi, il tema di un sussidio europeo di disoccupazione sia molto importante. Perché «permetterebbe di creare un piccolo budget per stabilizzare le economie quando una va su e una giù. Significa che se oggi c’è una disoccupazione al 4,5% in Germania e al 20 in Spagna, un sussidio comune permetterebbe di intervenire per pagare con i contributi di un paese i sussidi di un altro. E poi perché è un semplicissimo diritto dei lavoratori. Abbiamo un mercato unico per tantissime cose, perché non per il lavoro? Oggi c’è una mobilità incompleta e aggiungere un sussidio di disoccupazione europeo andrebbe a completarla». Nonostante di questa idea si parlasse già in un rapporto del lontano 1978, oggi nel 2016 sembra di nuovo tutto fermo. Perché dopo il referendum sulla Brexit del 23 giugno «tutti i sogni si sono infranti» e sembra molto difficile riuscire a trovare un accordo sul tema nonostante ci siano molti motivi per farlo.Un vero peccato se si pensa alla partecipazione a questo MeeTalents fuorisede, che in una fredda sera a Bruxelles è riuscito a radunare un centinaio di persone in una sala per diverse ore. Tutti pronti a ragionare e interrogarsi. E a portare a tante riflessioni e spunti per il futuro, su un tema che, da vicino o da lontano, coinvolge ormai moltissimi italiani. Lavorare e vivere lontani dal proprio Paese, qualche volta per libera scelta, altre volte meno. Senza dimenticare, però, di provare a incidere sull’Italia, anche da lontano.Marianna Lepore

Borse di studio differenziate, forse un lieto fine per i dottorandi della Statale di Milano

Giovanni è iscritto al dottorato dell’università Statale di Milano ed è contento perché da qualche mese ha ricevuto un aumento del 20% della sua borsa di ricerca, passando da 1000 a 1200 euro mensili. Una boccata d’aria fresca in una città per cui in media si spendono 500 euro solo per l’affitto. La sua amica Alice, invece, è un po’ meno contenta: anche lei fa il dottorato alla Statale, ma la sua borsa è ancora di 1000 euro. Nonostante viva anche lei a Milano e debba far fronte alle stesse spese, l’aumento non l’ha ricevuto. Per non parlare di Ismail, escluso anche lui: è venuto in Italia dal Libano e ha un bel po’ di spese extra, a partire dal permesso di soggiorno. Perché l’aumento è arrivato ad uno e non agli altri? Il motivo è che Alice e Ismail, a differenza di Giovanni, sono iscritti a dottorati consorziati, cioè organizzati dalla Statale in partnership con altri atenei. Nessuno di questi vuole adeguarsi alla nuova misura: e allora sono rimasti esclusi dall’incremento. I nomi sono di fantasia, ma riflettono una situazione reale. Il caso è quello del programma Nasp, Network for the Advancement of Political Studies, che conta circa 130 studenti, la metà dei quali stranieri. Divisi tra gli indirizzi di Sociologia economica e studi del lavoro (Esls), Studi politici (Pols) e Sociologia e metodologia della ricerca sociale (Somet), questi dottorandi ricevono finanziamenti dagli atenei di Genova, Brescia, Torino, Pavia e altri del nord ovest, oltre alla Statale. Dato che però questi non hanno risposto all’invito ad aumentare le borse ai propri dottorandi, quest'ultima ha deciso di lasciare invariata la somma per tutti quanti, escludendo quindi i suoi borsisti inter-universitari a priori. L’intento, è stato spiegato, è di evitare discriminazioni interne allo stesso corso. Ma la disparità che si crea così tra dottorandi dello stesso ateneo per i dottorandi è difficile da digerire. Per diversi mesi i dottorandi hanno cercato un incontro con gli organi istituzionali universitari per far valere le loro istanze, senza successo. Chiedono che vengano aumentate almeno le borse dei dottorandi della Statale. A fine novembre una delegazione ha organizzato un sit-in in via Festa del Perdono, in occasione della riunione mensile del cda, per cercare di farsi ascoltare dal rettore Gianluca Vago con tanto di striscione: “Milano è cara per tutti”. Finalmente l’apertura è arrivata e il confronto ha portato due opzioni sul tavolo: l'effettiva erogazione di borse differenziate all'interno dello stesso corso, oppure la distribuzione di benefit alternativi (alloggio, trasporti) per sopperire al mancato aumento. «Siamo contenti che la nostra voce sia arrivata fino ai vertici dell'università e che il rettore si sia dimostrato pronto ad accogliere la nostra richiesta. Questo ci fa ben sperare, anche se non c'è certezza» ha dichiarato alla Repubblica degli Stagisti Marta Migliorati, una dei dottorandi del corso di Studi Politici finanziati della Statale: «Ovviamente poi la battaglia dovrà andare avanti in modo che tutti i dottorandi di Nasp abbiano l'aumento, non solo gli appartenenti ad Unimi, anche se questo non dipende dall'università di Milano, ma dalle altre» Nella giornata di domani, 22 dicembre, è previsto un altro incontro per valutare la soluzione migliore dopo il vaglio del Miur. Visti i recenti scombussolamenti governativi, però, il rischio è che la risoluzione venga rinviata ulteriormente. Rimane il dubbio del perché ci sia voluto tanto per arrivare fino a questo punto, così come riguardo la possibilità del graduale aumento anche da parte degli altri atenei in futuro.E viene spontaneo chiedersi come mai sia così difficile per le università mettersi d’accordo, soprattutto su una questione importante per gli studenti. Continuare a non trovare una soluzione equivarrebbe non solo a ostacolare uno sviluppo positivo delle condizioni dei giovani ricercatori, ma anche a classificare, di fatto, quelli di Nasp come dottorandi di seconda categoria. Con in più l’aggravante del carattere internazionale del consorzio: in uno dei corsi più rappresentativi dell’attrattività dell’ateneo per gli studenti stranieri, di cui spesso ci si è vantati, creare discriminazione è quantomeno controproducente ai fini del prestigio, della reputazione e della attrattività.Irene Dominioni

Chi l'ha detto che la matematica non è da femmine?

«Quello bravo in matematica era mio fratello». Sembra incredibile che a pronunciare questa frase sia stata l'iraniana Maryam Mirzakhani, prima donna nella storia a vincere nel 2014 la Medaglia Fields, considerata il “Nobel della matematica”. E rende bene l’idea di quanto si faccia fatica a riconoscere che una femmina sia “portata” per i numeri.Ma sono i numeri stessi ad aiutare a smentire qualche pregiudizio. I corsi di laurea in Matematica sono infatti tra i pochi in ambito Stem in cui le donne non sono in minoranza. Secondo i dati dell’Anagrafe nazionale studenti (Ans) sulle immatricolazioni ai corsi appartenenti alla classe di lauree in “Scienze matematiche”, nell’ultimo decennio le femmine sono sempre state più numerose dei maschi. Tuttavia il vantaggio si sta assottigliando: se nell’anno accademico 2005/06 la differenza era nel 10%, nel 2015-16 si è ridotta al 4%.«Le immatricolazioni delle donne a mio avviso hanno avuto un calo perché in tempi non troppo lontani erano legate agli sbocchi nell'insegnamento, considerata professione più interessante per una donna» commenta Vincenzo Nesi, preside della facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali dell'Università degli Studi di Roma La Sapienza. «mentre oggi le prospettive lavorative sono molto diversificate ed includono professioni molto ricercate anche dagli uomini». Tra i grandi atenei, il suo è quello dove il crollo di iscrizioni femminili è risultato più evidente: negli ultimi dieci anni accademici la quota di ragazze è passata dal 59% al 46% (-13%), con il sorpasso dei ragazzi.Ma la facoltà di Scienze dell'ateneo romano è anche tra quelle più sensibili al tema del gender gap, cui riserva un'apposita sezione sul sito, "Questione di genere", e una figura Garante. Proprio in questi giorni il Dipartimento di Matematica sta ospitando la mostra itinerante Women in Mathematics throughout Europe: a gallery of portraits (visitabile fino al 21 dicembre), a cura dell'European Mathematical Society (EMS), sull'importante contributo delle donne al settore.Nelle materie Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics) il divario di genere si manifesta soprattutto quando si tratta di accedere al mondo del lavoro. «Il problema non si pone tanto nell’iscrizione quanto nel proseguire la carriera accademica e professionale»  dice alla Repubblica degli Stagisti Alessandra Celletti, matematica e astronoma, direttrice del dipartimento di Matematica dell'università di Roma Tor Vergata. Nel suo Ateneo - in controtendenza - le donne immatricolate in dieci anni sono passate dal 34% al 51%.Tuttavia «meno donne accedono al dottorato, meno donne diventano ricercatrici e ancor meno ricercatrici ordinarie», spiega Celletti, che è specializzata nella meccanica celeste – le è stato dedicato anche un asteroide scoperto nel 2005, denominato 117539 Celletti – ed è impegnata concretamente per abbattere questo gap. È notizia recente la sua nomina da parte dell'Executive Committee dell'European Mathematical Society quale chair della commissione Women in Mathematics (WiM) per il periodo 2017-2020. Alla domanda su quale sarà il suo primo impegno, risponde: «La prima proposta sarà quella di creare un database europeo di donne matematiche, per dar loro visibilità e distruggere l’alibi che non si conoscono persone adeguate a certi incarichi».L’idea trae ispirazione dall’esperienza di 100esperte.it, il neonato archivio online di donne italiane esperte nell’area Stem, nato per combattere il gender gap nei mezzi di informazione. Tra i 100 nomi c’è anche il suo: «Il divario non riguarda solo le interviste, ma anche l’invito alle conferenze, la partecipazione ai comitati editoriali di importanti riviste», precisa lei. Tutti momenti importanti per la crescita della carriera scientifica, e che troppo spesso sono preclusi alle donne. Donne che frequentemente sono discriminate anche in sede di concorso, dove tuttavia oggi sta maturando una maggiore sensibilità al tema della parità di genere. «In alcuni concorsi» spiega la matematica e astronoma «viene richiesta una presenza femminile nelle commissioni, ed è importante, perché ad esempio una donna considera i periodi di interruzione per la ricerca dovuti all’arrivo di un figlio».Nonostante la strada da fare sia ancora lunga, ciò non deve scoraggiare le ragazze ad intraprendere gli studi matematici. In questo settore, infatti, gli sbocchi occupazionali sono tra i pochi dove ancora la domanda supera l’offerta. «Studiare matematica» conclude Celletti «offre tante possibilità: statistica, big data, finanza, modellistica spaziale. Poche attività concrete si risolvono senza matematica, dal mettere in orbita un satellite alla forma per fare la pasta passando per il management».Ma in Italia il gap che riguarda i numeri non è solo di genere. Secondo l’ultimo rapporto Ocse-Pisa dal titolo “Low performing students”, un quindicenne italiano su quattro è analfabeta in matematica. A bocciare gli alunni italiani sono stati qualche giorno fa anche il Timss (Trends in International Mathematics and Science Study) e il Timss Advanced 2015, indagini dell'Iea (International Association for the Evaluation of Educational Achievement) di Boston volte a valutare le performance degli allievi di quarta elementare, di terza media e di quinto superiore di circa 50 paesi industrializzati. Dalla prima edizione del 1995 a quest'ultima, gli studenti italiani hanno sempre peggiorato le proprie prestazioni, e per le competenze matematiche avanzate nel 2015 si sono piazzati addirittura all'ultimo posto.Non a caso, nonostante stando ai dati Istat uno studente su quattro – nel proseguire la carriera scolastica – scelga il liceo scientifico, sono in pochi a decidere poi di fare di queste materie un lavoro. Gli immatricolati ai corsi di “Scienze matematiche” nell’anno accademico 2015/16 sono stati solo 2.494 (meno dell’1% del totale).Ma come fare per dare appeal alla matematica? Ci prova ogni giorno Chiara Burberi, ex manager che ha lasciato il posto fisso in una multinazionale bancaria per una scommessa: far sì che le mamme e i loro figli si riappacificassero con i numeri. La sua sfida, lanciata nel 2014, si chiama Redooc ed è una piattaforma di education online per l’apprendimento della matematica e di altre materie (finanza, economia, fisica), ispirata a Code.org, progetto partito in America per sensibilizzare i giovani allo studio dell’informatica. «Redooc propone una modalità di apprendimento pensata e realizzata con i loro strumenti – telefono, tablet, pc – e linguaggi, come brevi video narrati ed esercizi gamificati con tanto di livelli crescenti e classifiche di punteggio» dice Burberi alla Repubblica degli Stagisti: «Perché la matematica è uno sport, bisogna allenarsi, ognuno nei modi e nei tempi propri».Redooc è una start up innovativa a vocazione sociale, nata grazie all'autofinanziamento dei fondatori e agli investimenti di otto Business Angel. Si rivolge agli studenti di scuole medie, superiori e università, ai genitori e ai professori, e sta nascendo inoltre una sezione dedicata alla scuola primaria. Nell'anno accademico 2015-16 la piattaforma è stata utilizzata da 35 scuole secondarie, da 60 professori e da 120 classi per un totale di 2mila studenti, e la maggioranza ha dichiarato risultati positivi: voti più alti e meno debiti. Per fruire dei servizi occorre registrarsi e scegliere fra le varie modalità di abbonamento: da 8,70 euro al mese per le scuole medie a da 9,90 euro mensili per le superiori e per l'università. E ancora, è disponibile la formula per simulare i test Invalsi (0,90 euro al mese) e quella per prepararsi alla seconda prova della maturità (2,90 euro al mese). L’obiettivo è far sì che la materia diventi alla portata di tutti, e non solo per raggiungere la sufficienza a fine anno scolastico. «La matematica serve a diventare dei liberi cittadini consapevoli» aggiunge la fondatrice di Redooc: «Non a caso l’etimologia della parola "matematica" è conoscenza, è scoperta del mondo». E questa scoperta passa anche per l’abbattimento degli stereotipi di genere. «Il grande problema è di tipo culturale. Un esempio: le ragazze» sostiene Chiara Burberi «statisticamente sono meno propense a rispondere agli esami in forma di test, perché non sono cresciute alla sfida, alla corsa contro il tempo, ma alla cura, all’attenzione a seguire le regole». Secondo un recente studio internazionale, a frenarle il più delle volte non sono le capacità ma è piuttosto la maths anxiety, l’ “ansia da matematica”, che porta a vivere lo svolgimento del compito con maggiore stress emotivo rispetto ai ragazzi. Questo avviene per fattori genetici, sociali e ambientali, tra i quali appunto la percezione della matematica quale settore di dominio maschile. Un retaggio che la società si porta dietro da troppo tempo e che è arrivato il momento di superare.Rossella Nocca

Party con Sve, una festa per il ventennale del servizio volontario europeo

Una sala piena di giovani, entusiasmo alle stelle, risate e emozioni: 'Party con Sve', l'evento organizzato dall'Agenzia nazionale giovani al Maxxi di Roma – presentato da Federico Taddia di Radio24 - ha celebrato la settimana scorsa il ventennale del servizio volontario europeo, uno dei pezzi del programma Erasmus+. Dunque non l'Erasmus vero e proprio, bensì uno strumento «molto più inclusivo», come lo ha definito nel suo intervento Giacomo D'Arrigo, presidente dell'Ang, perché non richiede l'iscrizione all'università. «Consente a chiunque di andare fuori e non solo conoscere la lingua ma anche capire il mondo». Ci si avvicina alla realtà dell'associazionismo e alle questioni sociali più delicate, dalle case famiglia ai progetti per disabili. E le spese non sono tutte a proprio carico ma si può contare su vitto, alloggio, assicurazione, pocket money mensile e formazione predisposta dall'associazione che ospita il volontario con l'intermediazione della diverse agenzie nazionali. I ragazzi che hanno partecipato sembrano sprizzare energia da tutti i pori: all'incontro sono stati suddivisi in gruppi e hanno raccontato la propria esperienza mettendo in scena piccole rappresentazioni teatrali. C'è Riccardo, volontario a Tbilisi in Georgia, che si è «avvicinato ai valori della tolleranza e della crescita». C'è un giovane dall'Emilia Romagna, «con una carriera facile nello studio legale di mio padre». Su consiglio di un amico è partito per Cipro e adesso «si sta arricchendo dentro». Perché, dice, «non c'è niente di più preoccupante di un futuro sicuro». C'è il ragazzo timido, «che si è arruolato per un progetto di inclusione per disabili in Danimarca». E adesso è trasformato, «sa parlare alla folla». E poi Susanna, che dopo una laurea in Lettere non aveva le idee molto chiare, e così ha aderito allo Sve, destinazione Francia: «Dopo l'assistentato in lingua adesso ho un lavoro vero e proprio come addettta alla relazione clientela».Perché se c'è qualcosa che il volontariato trasmette (diventando poi un fattore prezioso quando si cerca lavoro) sono quelle «competenze trasversali che trovi in contesti informali in cui ti confronti con altri e diventi protagonista di qualcosa che ti mette al centro» ha sottolineato Alessandro Rosina, ordinario di Demografia e esperto di problematiche giovanili. È nel Rapporto Giovani che cura annualmente che si occupa di quel fenomeno per cui l'Italia vanta un triste primato, e cioè il numero di Neet, gli inattivi sotto i 30 anni.Ce ne sono milioni, benché quella sala del Maxxi rimandi un'immagine completamente diversa delle nuove generazioni: «Abbiamo una narrazione pubblica che enfatizza le tinte fosche, e dipinge i giovani come superficiali, passivi e individualisti» spiega. Invece «quando trovano una proposta i risultati si vedono, diventano accesi e intraprendenti. Ribaltano la situazione». Sulla stessa linea anche Pablo Rocas, giornalista Rai: «Il Paese è raccontato come negativo e depresso e si pensa che i giovani stiano solo davanti a Facebook a trollare». E ammette che è «in difetto anche la tv pubblica per non aver colto questi altri aspetti e non averli raccontati finora».  Sono soprattutto le donne a aderire allo Sve (70%), e i laureati (65%), secondo il sondaggio 'Sve-liamo l'Europa' condotto dall'Ang su 500 ex volontari. Si scelgono soprattutto Francia e Spagna (25%) e se ne esce con un forte bagaglio linguistico (per l'80% che dichiara di aver imparato almeno una lingua), mentre per circa la metà degli intervistati lo Sve ha permesso di capire quale strada intraprendere nella vita, ha aiutato a sviluppare se stessi ed è stato uno strumento utile per trovare lavoro.Del fatto che lo Sve debba avere un riconoscimento istituzionale si dice convinta anche Sofia Corradi [nella foto]. Questa appassionata 82enne è considerata 'mamma Erasmus' perché ideatrice del progetto europeo e per questo insignita recentemente di un premio da parte del Re di Spagna e del presidente del Parlamento dell'Unione europea Martin Schulz. «All'inizio non volevano riconoscermi nulla» ricorda. «Dicevano che volessi andare alla Columbia University a divertirmi» rivela, «e ho lavorato 18 anni per ottenere che gli studi all'estero fossero riconosciuti in patria per la laurea». Adesso tocca allo Sve, che ha bisogno «dell'istituzionalizzazione dei crediti di formazione extra scolastici». Occorre andare avanti in questa direzione, perché l'Erasmus nacque come «progetto per favorire la pace e la comprensione internazionale» evidenzia la Corradi. Un obiettivo che – ricordando anche che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, «fu proprio dalla vendita all'asta dei rottami di carri armati e aerei abbattuti che si ricavarono i fondi per le prime borse di studio» – sembra cruciale anche adesso.Ilaria Mariotti 

9 dicembre, a Bruxelles l'evento che rende gli expat italiani protagonisti

Gli italiani all'estero sono stati di recente protagonisti di un filone del dibattito sul referendum costituzionale: quello sul voto anticipato degli iscritti all'anagrafe degli italiani residenti all'estero. Purtroppo di loro si parla pochissimo, e solo in funzione di qualcos'altro: nel caso specifico, appunto, della polemica per il sì e per il no al referendum. Eppure i quasi 5 milioni di iscritti all'Aire sono lì sempre, 365 giorni all'anno. E sono sempre di più: sono cresciuti del 55% negli ultimi dieci anni. Nel 2015, secondo i dati della Fondazione Migrantes, quasi 108mila persone sono partite - il 6,2% in più dell'anno prima - che vanno ad aggiungersi al +3,8% registrato nel 2014 al +7,6% del 2013. Numeri peraltro largamente per difetto, perché moltissimi expat attendono mesi, se non anni, prima di trasferire ufficialmente la residenza e iscriversi all'Aire.Invece il tema è importantissimo. Tornare a una sana circolazione delle persone, anziché a una fuga che impoverisce il paese e deprime i diretti interessati, è l'obiettivo dell'associazione Italents, attiva ormai da oltre cinque anni proprio per la valorizzazione dell'“Italia diffusa”. Venerdì 9 dicembre c'è a Bruxelles l'appuntamento annuale organizzato dall'associazione, il “Meetalents” (per partecipare basta iscriversi qui, l'ingresso è gratuito fino a esaurimento posti!).Il dibattito sarà organizzato su tavole rotonde pensate per approfondire tre sfaccettature del macrotema “expat”, ciascuna moderata da uno dei soci fondatori di Italents; un'ora e un quarto la durata prevista per ciascun panel, con interventi veloci e informali, e l'ultimo quarto d'ora espressamente dedicato all'interazione con le domande e interventi del pubblico.Si partirà alle 17:30 e la prima tavola rotonda, dal titolo «L'Italia diffusa – Continuare a seguire e incidere sulle politiche italiane vivendo all'estero», coinvolgerà persone che, vivendo fuori dall'Italia, si impegnano a livello politico e nell'associazionismo: il segretario del circolo PD di Bruxelles Francesco Cerasani; Maria Chiara Prodi, cofondatrice di Exbo ed esponente della Commissione "nuove migrazioni" del Consiglio generale degli italiani all'estero; Gianluca Cerri del MeetUp Movimento 5 Stelle di Bruxelles; Paola Cammilli della Comune del Belgio, associazione che si propone di realizzare un “mutuo soccorso tra migranti”; il presidente dell'associazione Trevisani nel mondo Alessandro Facchin e Ilaria Maselli di The Conference Board. A moderare, il creatore del progetto multimediale Italiani di Frontiera Roberto Bonzio.La seconda tavola rotonda, «La circolazione dei talenti – Partire, lavorare e fare impresa all'estero, tornare», si concentrerà sulle condizioni e situazioni che si trovano ad affrontare gli italiani che scelgono di espatriare, e quelli che desiderano tornare. Prima ospite di questo panel l'europarlamentare Alessia Mosca, che da deputata PD era stata tra i promotori della legge Controesodo varata con l'obiettivo di riportare in Italia i “cervelli in fuga”; poi Federico Pancaldi della Direzione generale Employment della Commissione europea; il presidente della Camera di commercio belgo-italiana Matteo Lazzarini; Cecilia Gozzoli in rappresentanza del gruppo informale Controesodo (costituito un paio d'anni fa dai “controesodati” in un momento in cui sembrava che potessero essere messi in discussione i vantaggi fiscali promessi a chi era tornato); e Bruno Cortese,  dell'ufficio della Regione Siciliana Bruxelles, con cui si focalizzerà il tema specifico dei giovani in fuga dalle regioni meridionali del nostro Paese. A coordinare il dibattito il professor Paolo Balduzzi, docente di Scienza delle finanze all'università Cattolica.Alla fine di questa tavola rotonda, un break per una cena in piedi, offerta da Italents, con la possibilità per relatori e pubblico di approfondire le tematiche emerse e mangiare e bere ottimi prodotti tipici piemontesi (l'evento sarà ospitato all'interno di Iosono, il wine bar situato al piano terra del palazzo dove ha sede la Regione Piemonte a Bruxelles).Alle 21:15 tutti pronti per l'ultimo panel, il più “politico”: «Europa, l'Unione incompleta – A quando l'armonizzazione di previdenza e sussidio di disoccupazione?». Qui, moderati dalla giornalista Eleonora Voltolina - da qualche mese presidente di Italents - parleranno  l'europarlamentare Brando Benifei, grande sostenitore della misura Eubs (European Unemployment Benefit Scheme); la sindacalista Eleonora Medda dell'Inca Cgil Belgique, recentemente eletta al Consiglio generale degli italiani all'estero; il responsabile del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) di Bruxelles Luca Moretti, che parlerà del progetto di “Maastricht delle idee”; e poi Germana Viglietta della Rappresentanza permanente d'Italia presso l'UE, che farà il punto sul processo di revisione del regolamento europeo 883/2004 relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale tra Paesi membri, e Alessandro Rosina, direttore del dipartimento di Statistica dell'università Cattolica nonché ex presidente di Italents, che porterà alcuni dati tratti dal Rapporto Giovani su come gli under 30 percepiscono il tema del trasferirsi all'estero.        Giunto ormai alla sua quinta edizione, ma per la prima volta “in trasferta” (negli altri anni si era sempre svolto in Italia: a Milano nel 2012, Napoli nel 2013, Perugia nel 2014 e Bologna nel 2015), il Meetalents ha la caratteristica di coinvolgere direttamente gli expat e i “rientrati” nella discussione sui grandi temi che li riguardano, mettendoli a contatto con i policy makers e favorendo la creazione di network e collaborazioni trasversali. Un momento di condivisione, riflessione ma anche proposta politica. Per gli italiani di stanza a Bruxelles... un evento imperdibile!

Donne, al lavoro! Oggi a Roma debutta il primo festival dedicato all'occupazione femminile

Oggi a Roma c'è un appuntamento molto importante per tutti coloro che hanno a cuore il tema dell'occupazione femminile. Si tratta di «Donne al Lavoro», primo festival interamente dedicato a questo argomento; l'ha ideato e prodotto una giovane giornalista, Francesca Guinand, con la volontà caparbia di capire perché le donne hanno così tante difficoltà a lavorare, perché il tasso di occupazione femminile è talmente basso in Italia, e come si può creare un mercato del lavoro a misura di donna. Tre i fili conduttori del festival, ospitato negli spazi di Luiss Enlabs alla Stazione Termini: la maternità/genitorialità, che da elemento critico e fonte di discriminazione dovrebbe diventare invece un elemento di valore, perché le madri (e i padri) non diventano meno efficienti quando hanno figli, ma il contrario. Il denaro, inteso anche come gender pay gap cioè come il tema della disparità di trattamento economico tra uomini e donne. E infine i lavori del futuro, cioè come indirizzare le politiche e anche la formazione in modo da avere in futuro donne più preparate per i mestieri di domani e dunque più competitive nel mondo del lavoro. Nel menu della giornata tre talk e una tavola rotonda con ospiti con molte cose da dire e due workshop, uno dei quali ideato ad hoc per il Festival da Eleonora Voltolina, la giornalista che ha fondato e dirige la Repubblica degli Stagisti: «Ho voluto focalizzare il tema dei pregiudizi di genere sulla formazione e lavoro» dice Voltolina: «Alle ragazze che avrò di fronte proporrò un percorso di riflessione sui condizionamenti che riceviamo dalla scuola, dalla famiglia, dalla società, dai media rispetto alle nostre scelte, anche quando dobbiamo scegliere la scuola superiore o l'università, come se esistessero scuole e facoltà da femmine e scuole facoltà da maschi. Naturalmente questo poi sfocia in condizionamenti simili anche sul lavoro, per cui ci sono ancora delle professioni fortemente connotate dal punto di vista di genere. E' ora di darci un taglio» L'obiettivo del Festival (qui la pagina Facebook) è quello di dare voce a chi da anni si occupa di questi temi, riflettendo sulle criticità e sulle possibili soluzioni, ma anche ad esempi di donne che con il loro lavoro, con un'idea, un progetto, un'iniziativa sono riuscite-magari addirittura in consapevolmente - a cambiare le cose e a offrire un nuovo modellodi donna al lavoro.Il programma della giornata, che ha ricevuto il patrocinio del Comitato Nazionale Italia di UN Women e del Comune di Roma, prevede un primo talk dal titolo «Genitorialità condivisa: la formula per più #mumatwork», con gli interventi della vicepresidente del Senato Valeria Fedeli, della giornalista Chiara Valentini, di Riccarda Zezza, presidente di Piano C e creatrice del progetto Maam (Maternity as a master), e Linda Laura Sabbadini dell'Istat. A moderare Pietro Del Soldà, giornalista di Rai Radio3.A seguire, il primo workshop della giornata, «Non siamo supergenitori. Come possiamo conciliare la famiglia con il lavoro? Prima di tutto una questione di coppia», a cura di Serena Baldari (Alveare) e Francesca Guinand.A mezzogiorno secondo talk: «Esclusione finanziaria delle donne. Teniamo il budget di casa, ma non il patrimonio familiare», con Magda Bianco della Banca d’Italia, la docente di Economia politica Annalisa Rosselli, anche membro dell’International association for feminist economics, il consulente finanziario Andrea Boda (anche blogger di PianoInclinato) e Fabrizio Ghisellini, dirigente del Dipartimento del Tesoro per la pianificazione e il coordinamento delle operazioni finanziarie autore di Spread arrosto con patate (Fazi Editore) manuale di finanza per le famiglie. Modera la giornalista economica Roberta Carlini.All'ora di pranzo è prevista la proiezione del film documentario di Wilma Massucco, «Margherite volanti. Essere donne ed essere uomini nel mondo del lavoro oggi», prodotto all'interno del progetto educativo sugli stereotipi di genere sul lavoro promosso dall'UDI Unione Donne in Italia di Modena.Alle 15 si riparte con un terzo talk, «Quali sono i lavori del futuro? Ecco il nuovo mercato del lavoro», con la direttrice generale del dipartimento Pari opportunità della Presidenza del consiglio Monica Parrella, la CEO&founder Work Wide Women Linda Serra, e poi Paola Diana, presidente di PariMerito e autrice de La salvezza del mondo, sottotitolo «Donne fattore di cambiamento del XXI secolo» e Mary Franzese, co-founder della pluripremiata startup Neuron Guard. A moderare la giornalista Barbara Leda Kenny di InGenere.it.Per le 16 è previsto l'inizio del workshop di Eleonora Voltolina dedicato alle ragazze, «Dove stai andando con il tuo lavoro? Come scegliere il percorso migliore per una working girl», con la collaborazione di Maria Grazia Avataneo Fey, vice presidente Donne A Lavoro.Contemporaneamente partirà anche la tavola rotonda conclusiva, prima dell'aperitivo finale: «Tra #diversity e #smartworking. Si può essere #felici a lavoro?». Qui ci saranno Sofia Nasi di Ferrovie dello Stato, Sabrina Corbo di GreenNetwork, Iliana Totaro di Enel e Filomena Pucci, autrice del libro Appassionate.Partecipare è ancora possibile; per chi non si fosse registrato nei giorni scorsi è possibile registrarsi direttamente all'ingresso. Buon lavoro al Festival!

A Perugia la prima edizione degli Stati Generali dei giovani: l'associazione dei direttori HR fa il punto su formazione e lavoro

Come sta cambiando la fase di passaggio dalla scuola al lavoro? Attraverso quali canali arrivano i giovani italiani al mondo del lavoro, come si muovono, come - e con quali competenze - entrano in contatto con le imprese? Si tratta del tema più importante di tutti: senza una buona transizione formazione-lavoro, senza un buon tasso di occupazione e senza una prospettiva per i giovani di trovare un impiego degno e degnamente retribuito in tempi ragionevoli, dopo aver concluso gli studi, nessun Paese sopravvive a lungo termine. Lo sa bene Aidp, associazione che raggruppa 3mila direttori del personale in Italia, che per domani – giovedì 1 dicembre – ha convocato a Perugia la prima edizione degli “Stati generali dei giovani”: una intera giornata di dibattiti e riflessioni sui tre temi chiave (istruzione, formazione e lavoro) per tracciare «scenari, prospettive e investimenti per il nostro futuro».L'idea è venuta ad Adriana Velazquez, vulcanica 42enne manager italo-argentina presidente di Aidp Umbria [qui a fianco, in una foto di qualche giorno fa insieme al Gruppo Giovani dell'associazione], che ha voluto pensare in grande progettando nella sua Regione di adozione, dove vive e lavora da molti anni, un evento che “normalmente” avrebbe avuto luogo a Milano, oppure a Roma. «Ma anche Perugia è perfetta, abbiamo una posizione centrale e un tessuto imprenditoriale vivace!» spiega Velazquez: «Puntiamo a far diventare questi Stati generali dei giovani un appuntamento biennale di Aidp, facendone di Perugia la sede permanente».Una città a vocazione spiccatamente giovanile, con quattro istituzioni formative di alto livello (l'università di Perugia, l'università per Stranieri, il Conservatorio di musica Francesco Morlacchi e l'Accademia di belle arti) che però negli ultimi anni ha un po' sofferto: «Abbiamo avuto una ricaduta negativa dopo il terribile fatto di cronaca del 2007» aggiunge Velazquez facendo riferimento all'omicidio di Meredith Kercher, la studentessa inglese uccisa nella casa che aveva affittato a Perugia (per il quale sono stati condannati e poi assolti Amanda Knox e Raffaele Sollecito, giudicato colpevole Rudy Guedé). Anche alla luce di questo è ancor più rilevante «la buona notizia: abbiamo registrato quest'anno un +36% nelle iscrizioni di giovani».I giovani tornano a farsi attrarre da Perugia, insomma, e Perugia proprio da loro riparte. La prima edizione di questi "Stati generali", ospitata nella Sala dei Notari del bellissimo Palazzo dei Priori, si rivolge a un pubblico formato sopratutto da universitari, neolaureati ma anche studenti di scuole superiori: «Siamo riusciti “miracolosamente” a coinvolgere anche i ragazzi di alcune scuole terremotate, abbiamo un pullman che porterà da Norcia oltre 50 giovani» dice con orgoglio Velazquez. A questo pubblico Aidp offrirà una giornata densissima di contenuti e anche interattiva: i partecipanti avranno la possibilità di incontrare i soci di Aidp Umbria e i rappresentanti delle aziende presenti ai desk nella Sala dei Sindaci di Palazzo dei Priori, per  «avere un primo contatto con il mondo del lavoro». Tra le aziende disponibili vi sono Aboca, Articolo 1 srl, Gi Group, Manpower, Orienta spa e Randstad Italia.I quattro dibattiti in programma, tutti strutturati con una parte introduttiva iniziale e poi una tavola rotonda, focalizzeranno in particolare ciascuno un aspetto. Dopo una introduzione ai lavori della presidente nazionale di Aidp, Isabella Covili Faggioli, il primo panel della mattinata alle 09:30 partirà trattando il tema de «Il talento dei giovani per lo sviluppo sostenibile dell’economia e della società». Si comincerà con una introduzione di Romano Benini, giornalista e autore tv esperto di lavoro e docente alla università La Sapienza, che intervisterà il coordinatore del Centro Studi Aidp dedicato alla presenza giovanile nel mondo del lavoro, David Trotti. Poi spazio a una tavola rotonda sulla «presenza giovanile nel mondo del lavoro», moderata da Serena Santagata del gruppo Giovani di Aidp Umbria, che coinvolgerà il presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria Umbria Marzio Presciutti Cinti, la presidente dei Giovani Imprenditori di Confcommercio Toscana Simona Petrozzi, il presidente di Eurodesk Italy Ramon G. Magi, e Alfredo Mattiroli di International Fashion Consulting.Anche il secondo panel della mattinata, «Dopo gli studi, il lavoro: percorsi e competenze. Cosa vogliono le aziende» sarà suddiviso in due parti. La prima avrà una introduzione di Luca Ferrucci, docente del dipartimento di Economia dell'università di Perugia, e una intervista ad Adriano Bei, dirigente del Servizio Istruzione e Formazione professionale della Regione Umbria. La seconda parte sarà la tavola rotonda «Dopo la scuola e l’università ,il gap fra la domanda e l’offerta di lavoro ...» condotta e moderata dalla giornalista Eleonora Voltolina, esperta di lavoro e fondatrice della Repubblica degli Stagisti oltre che presidente dell'associazione Italents (dedicata al tema dei giovani “expat”). A dialogare con Voltolina e rispondere alle domande dei giovani ci saranno l'HR & Communication director di Umbra Cuscinetti Beatrice Baldaccini e poi Luigi Torlai, HR manager di Ducati, e Antonio Guarrera, HR manager di Aboca spa. Prima della pausa pranzo, spazio anche per una mezz'ora di presentazione del lavoro di Aidp Giovani con Enrico Perasso, referente per la Liguria.Dopo pranzo, alle 14, si passerà al tema dei «Lavori del futuro. Giovani e innovazione. Start-up. Investimenti. Idee e strumenti», con l'introduzione di Stefano Cianciotta, docente di Comunicazione all'università di Teramo, che ispirerà il suo intervento «Allenarsi per il lavoro che verrà» al suo libro «Allenarsi per il futuro» (scritto un paio d'anni fa a quattro mani con Pietro Paganini). Sarà poi la volta di Cristiano Radaelli, presidente di Anitec Confindustria, che presenterà eSkills for Job, un progetto focalizzato sui giovani e sulla promozione delle competenze digitali. La tavola rotonda, moderata da Alessandro Belli del consiglio direttivo di Aidp Umbria, coinvolgerà Stefano Di Giulio, HR business partner di Nestlé Italia (una delle “storiche” aziende aderenti al network virtuoso della Repubblica degli Stagisti!), il founder di ItaliaCamp Luigi Mazza, la segretaria generale di Unioncamere Umbria Giuliana Piandoro e Marco Tili, direttore generale di Gepafin, società finanziaria partecipata dalla Regione Umbria.Ultimo panel della giornata, quello dedicato a «Giovani e non profit. Opportunità nel Terzo settore. Crowdfunding. Sviluppo e cooperazione». Qui Aidp ha affidato l'introduzione a Paolo Nicoletti, presidente di Etimos Foundation, e per la tavola rotonda ha riunito i punti di vista del presidente del Forum degli oratori italiani, Don Riccardo Pascolini, del portavoce del Forum Regionale Giovani dell'Umbria, Gabriele Biccini, e poi di Donatella Boccali della Fondazione Marisa Bellisario e Marcella Loporchio, CrowdMentor di Aidp Puglia. A moderare Sylvia Liuti, vicepresidente di Aidp Umbria.Un evento importante in una Regione, l'Umbria, che ha oltre 130mila giovani tra i 15 e i 29 anni residenti sul suo territorio, e vede ogni anno l'attivazione di circa 6mila tirocini (con un tasso di trasformazione in lavoro però tra i più bassi d'Italia, fermo al di sotto del 7%). Con l'auspicio che possa “oliare” la cinghia di trasmissione tra formazione e lavoro, e aiutare il “matching” tra aziende in cerca di nuovo personale e giovani in cerca di lavoro.

Ragazze, niente deve impedirvi di studiare materie scientifiche: scienziate e giornaliste in campo contro i pregiudizi

Nell’anno accademico 2015/16 le facoltà scientifiche si sono attestate per la seconda volta in cima alle preferenze dei giovani italiani. Secondo i dati dell’Anagrafe nazionale studenti (Ans), il 36% dei nuovi iscritti hanno optato per l’area scientifica, preferendola all’area sociale (34%), a quella umanistica (19%) e a quella sanitaria (11%). Il sorpasso era avvenuto l’anno prima, quando le immatricolazioni nell’area scientifica (34,45%) avevano superato di misura quelle nell’area sociale (34,31%).Un cambiamento epocale, se si pensa che dieci anni prima le facoltà dell'area sociale – tra cui rientrano Giurisprudenza, Scienze politiche, Economia e Psicologia – registravano un +13% su quelle scientifiche (42% contro 29%). In un decennio gli immatricolati di queste materie sono passati da 91mila a quasi 100mila. Questo, nonostante la riduzione del numero di immatricolazioni totali, dalle 318mila del 2005/06 alle 276mila del 2015/16. Insomma, le materie Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics) – nonostante la crisi di fiducia generale verso l'università – fanno sempre più presa sulle nuove generazioni, soprattutto alla luce dei maggiori sbocchi occupazionali, oltre che degli stipendi mediamente più alti. Si stima infatti che nel 2020 in Europa si creeranno 900mila posti di lavoro solo nel settore Computer science.Ma la rivincita dei numeri riguarda anche le donne? Da questo punto di vista esiste ancora un gap di genere. Nell’anno accademico 2015/16 l’area scientifica è stata scelta solo dal 37% delle donne contro il 63% degli uomini. Esattamente le stesse percentuali di dieci anni prima. Dunque non è cambiato proprio nulla in un decennio? La Repubblica degli Stagisti lo ha chiesto a Sveva Avveduto, già direttrice dell' Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) e attiva nell’associazione Donne e Scienza: «In realtà qualcosa è cambiato. Ci sono molte più donne ingegnere e chimiche, per esempio. In generale oggi le donne laureate sono più degli uomini: il problema si registra soprattutto nell’accesso al mondo del lavoro». Avveduto ha trattato questo tema in due volumi scritti a più mani, Portrait of a Lady e Scienza, genere e società. Prospettive di genere in una società che si evolve. Emblematici i dati riguardanti le donne e la ricerca. Qui, se al grado iniziale di carriera si registra quasi una parità di genere (48% di donne), subito dopo subentra la sperequazione: solo nel 39% dei casi le donne diventano primi ricercatori, nel 24% dirigenti di ricerca e appena nel 17% dei casi direttori di istituti di ricerca e di dipartimento.Ma quale potrebbe essere la soluzione per infrangere il famoso “soffitto di cristallo”?  «Quella fisiologica presume un enorme quantità di anni» afferma la dirigente di ricerca Irpps-Cnr «quindi forse sarebbe meglio imporre un obbligo di equilibrio di genere, come è stato fatto negli enti pubblici e nei consigli di amministrazione. Le quote di genere sono un modo per forzare la situazione, ma almeno far sì che si possa sbloccare in breve tempo».Tante le iniziative a livello internazionale e nazionale per promuovere la parità nell’accesso alle carriere scientifiche. Una delle più significative è l’Ada Lovelace Day, una giornata mondiale in onore delle donne scienziate e dei risultati da esse ottenuti. Ada Lovelace, figlia del poeta Byron, collaborò con Charles Babbage alla nascita del primo algoritmo “per computer” al mondo, nell’Ottocento, ed è quindi considerata la prima programmatrice informatica della storia. In coincidenza con l’International Day of Women and Girls in Science 2016, il Miur, attraverso il portale Noi siamo pari, ha lanciato “Le studentesse vogliono contare - Il mese delle STEM”, un’iniziativa rivolta alle scuole per contrastare il divario di genere attraverso una serie di attività: percorsi di formazione e didattica specifica, giochi logico-matematici, convegni.Ma nonostante l’impegno per promuovere la parità e i successi raggiunti nei secoli dalle donne in campo scientifico, nel 2016 ancora restano in piedi molti pregiudizi. A tal proposito ha fatto discutere un recente articolo del matematico Piergiorgio Odifreddi su Repubblica, in cui si legge: «Le donne scienziate sono comunque meno di quante ci si potrebbe aspettare. Ad esempio, quest’anno nessuna donna ha vinto un premio Nobel. E fino allo scorso anno l’hanno vinto 16 nella pace, 15 in letteratura, 12 in medicina, 4 in chimica, 2 in fisica e 1 in economia. Inoltre, 2 donne hanno vinto finora il premio Turing per l’informatica, 1 la medaglia Fields in matematica e nessuna è mai stata campionessa mondiale di scacchi. Una progressione discendente, che sembra indicare come l’attitudine femminile sia direttamente proporzionale alla concretezza e indirettamente proporzionale all’astrazione».È davvero solo questione di attitudine? Sveva Avveduto stronca questa interpretazione: «Le ragioni sono tante, ma tra queste non c’è assolutamente l’attitudine all’uno o all’altro tipo di studio. La questione è soprattutto culturale e composta di norme sociali e stereotipi che subiamo sin da quando siamo bambine, con l’imposizione della scelta della Barbie e non dell’aeroplanino, del rosa e non dell’azzurro».Anche l’immagine della società proposta dai media contribuisce ad alimentare gli stereotipi di genere. Secondo il Global Media Monitoring Project 2015, uno studio internazionale sulla copertura delle notizie da parte dei media, questi ultimi dedicano molta più visibilità agli uomini rispetto che alle donne. «In Italia le voci femminili nei mezzi di informazione rappresentano solo il 18%, percentuale che scende al 10% per quanto riguarda le fonti esperte in area Stem» conferma alla Repubblica degli Stagisti Giovanna Pezzuoli, giornalista dell’Associazione Gi.U.Li.A. (Giornaliste Unite Libere e Autonome) e co-ideatrice – insieme alla collega Luisella Seveso e a Monia Azzolini dell’Osservatorio di Pavia Media Research – del progetto 100 donne contro gli stereotipi.Dall'inizio di novembre è online 100esperte.it, una banca dati virtuale che raccoglie 100 nomi di esperte nell’area STEM fra accademiche e professioniste, selezionati con criteri di merito (pubblicazioni, brevetti, incarichi), territorialità e interesse giornalistico, dal Centro Genders di Milano, e passati al vaglio di un Comitato scientifico. Il progetto, che si avvale della collaborazione della Fondazione Bracco e della Rappresentanza in Italia della Commissione europea, nel 2017 dovrebbe allargarsi ad altri settori a predominanza maschile: economia, finanza, storia e archeologia.«La nostra speranza è quella di contribuire entro il 2020, anno in cui sarà pubblicato il prossimo Global Media Monitoring Project, a raddoppiare il numero di donne esperte interpellate dai media» dice Giovanna Pezzuoli, e la sfida di “100 donne contro gli stereotipi” va ben oltre il piano mediatico: «Il nostro progetto vuole essere uno strumento per incentivare le ragazze a scegliere una carriera nell’area Stem, proponendo modelli positivi di donne che ce l’hanno fatta, professioniste in gamba che lavorano ad altissimi livelli e che, nella maggior parte dei casi, hanno anche famiglia». Ma perché oggi una ragazza dovrebbe avere interesse a prendere in considerazione le materie scientifiche? «Perché sono settori strategici per lo sviluppo del paese, dove c’è meno disoccupazione, dove si fa carriera in modo più chiaro, per titoli e meriti, e dove chi ottiene dei risultati quasi sempre viene premiato». Non proprio fattori di secondo piano.Rossella Nocca

Lavorare (ben pagati!) nella cooperazione, 6 dicembre ultimo giorno per presentare domanda per il JPO Programme

C'è tempo fino a martedì 6 dicembre per provare a partecipare al prossimo JPO Programme (Italian associate experts and junior professional officers programme), il programma di cooperazione multilaterale organizzato dalla Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo del ministero degli Esteri in collaborazione con il dipartimento Affari Economici e Sociali delle Nazioni Unite.Per i partecipanti al JPO un contratto di un anno, rinnovabile per un secondo, di importo annuale di circa 45mila euro, presso organizzazioni internazionali del settore della cooperazione, con inquadramento contrattuale equivalente al livello iniziale della categoria dei funzionari delle Nazioni Unite.Non è ancora fissato il numero di posti disponibili; l'anno scorso erano stati 18, presi d'assalto da ben 2.484 candidati. Possono inviare il cv persone di età non superiore ai 30 anni (nati dopo il primo gennaio 1986, per i laureati in medicina sono invece ammessi candidati nati dopo il primo gennaio 1983), di nazionalità italiana e con un'ottima conoscenza della lingua inglese. I candidati devono aver conseguito una laurea specialistica, magistrale a ciclo unico o triennale con un master.La domanda può essere presentata esclusivamente online, collegandosi all'applicativo presente sul sito UN/DESA. Anche quest'anno il processo di selezione inizierà a dicembre/gennaio con l'analisi e la scrematura delle domande per concludersi a settembre del prossimo anno con i corsi di formazione destinati ai candidati selezionati.Chi invece è già stato selezionato definisce il JPO Programme come «il programma più prestigioso di inserimento per giovani all’interno dell’Onu». A raccontare la propria esperienza alla Repubblica degli Stagisti è Andrea Milan, 30 anni, nato e cresciuto a Caltanissetta e attualmente a New York, dove sta svolgendo il JPO presso UN Women, organismo delle Nazioni Unite per la promozione dell’uguaglianza di genere. «Ho una laurea triennale e una specialistica in economia a Ferrara, con tre esperienze all’estero durante gli studi: un anno all’Università di Birmingham in Inghilterra, un semestre al Middlebury College negli Stati Uniti e un tirocinio al Dipartimento per gli affari economici e sociali dell’Onu, UN|DESA appunto, a New York. A giugno 2016 ho conseguito un dottorato di ricerca in Governance and Policy Analysis all’università di Maastricht in Olanda. Seguivo il programma già dal 2009 quando ho svolto il tirocinio all’Onu a New York. La mia supervisor era proprio una JPO tedesca, e lei, come tanti altri colleghi, mi parlò benissimo del programma».Da lì la decisione di provare a partecipare e il superamento della selezione, grazie anche all'esperienza all’estero: «sia la mia preparazione universitaria sia le mie competenze ed esperienze pregresse mi hanno permesso di candidarmi per il JPO con un curriculum di respiro internazionale. Iniziare il JPO dopo un paio di esperienze all’interno del sistema Onu mi ha permesso di adattarmi velocemente al nuovo contesto e credo mi abbia anche messo in condizione di contribuire immediatamente al lavoro del mio ufficio».Ogg Milan è perfettamente integrato sia nel contesto lavorativo sia cittadino di New York: «La mia è un’ottima esperienza, New York ospita il quartier generale dell’Onu per cui è un ottimo posto per sviluppare le competenze e il network per lavorare all’interno del sistema Onu nel lungo periodo. Sono contentissimo di lavorare per UN Women, l’ente delle Nazioni Unite per l'uguaglianza di genere e l'empowerment femminile e di occuparmi di migrazioni, uno dei temi chiave del dibattito globale. A livello di abitudini di vita, New York è una città meravigliosa e che offre opportunità che forse nessun’altra città al mondo può offrire, sia dal punto di vista culturale che dal punto di vista sociale e sportivo».Quali sono i consigli utili a chi vuole provare a intraprendere questo percorso? «Consiglierei due cose. Primo, andare a fondo nella conoscenza di due o tre lingue, possibilmente tra quelle ufficiali dell’Onu (arabo, cinese, francese, inglese, russo, spagnolo). Conoscerle a livello intermedio serve poco, bisogna conoscerle a un livello tale per cui ci si possa lavorare in maniera professionale. Secondo, durante gli anni dell’università, sviluppare competenze ed acquisire esperienze che vadano al di là del curriculum accademico. Migliaia di giovani italiani hanno ottimi curriculum accademici, e molti di loro sono interessati al programma JPO. Spesso, quello che fa la differenza tra un profilo e un altro nella selezione per programmi come il JPO sono le esperienze ed attività extracurriculari».A questo punto non resta altro che collegarsi al sito, provare a candidarsi e aspettare i primi mesi del prossimo anno quando saranno resi noti gli esiti delle selezioni.Chiara Del Priore