Dall'Armenia all'Italia col servizio volontario europeo, «il primo passo per cambiare la propria vita»

Giada Scotto

Giada Scotto

Scritto il 28 Gen 2018 in Storie

#buone opportunità #esperienza all'estero #servizio volontario europeo

La Repubblica degli Stagisti prosegue la rubrica sullo Sve, con l'obiettivo di raccogliere e far conoscere le esperienze dei giovani che hanno svolto il Servizio volontario europeo, una particolare - e ancora poca conosciuta - opportunità offerta dal programma europeo Erasmus+ ai giovani tra i 17 e i 30 anni. Grazie allo Sve, che copre i costi di viaggio, vitto, alloggio e garantisce un “pocket money” mensile per le spese personali, è possibile svolgere un'attività di volontariato, per un periodo dai 2 ai 12 mesi, in uno dei Paesi dell’Unione europea o in altri Paesi del mondo che hanno aderito al programma. Sono molti i settori nei quali i giovani possono impegnarsi: arte, sport, ambiente, cultura, assistenza sociale, comunicazione, cooperazione allo sviluppo e altri ancora. Per partire - dopo essersi candidati al progetto - è necessario avere un’organizzazione di invio in Italia (sending organization) e una di accoglienza nel Paese ospitante (hosting organization). Per avere maggiori informazioni sul Servizio volontario europeo, consigliamo di leggere la sezione dedicata dell’Agenzia nazionale per i giovani. Ecco la storia di Nona Simonyan.

La mia storia è iniziata a Yerevan, in Armenia, dove sono nata 28 anni fa. Sin dalle scuole superiori ho avuto le idee chiare su cosa volevo fare: mi piacevano le lingue straniere, soprattutto l’inglese, e nel 2005 sono riuscita ad essere ammessa alla facoltà di filologia romanza dell’Università di Yerevan, dove ho studiato, oltre all’inglese, l’italiano, di cui mi sono subito innamorata. Dopo soli due mesi di studio, infatti, già mi cimentavo nella scrittura di poesie in italiano e, a distanza qualche anno, ho preso anche la certificazione linguistica Cils.

Mi sono laureata in triennale nel 2009 e ho iniziato subito la magistrale, sempre nella stessa università, ma questa volta alla facoltà di traduzione
. In quei due anni sono riuscita a fare la mia prima breve esperienza in Italia: due mesi di studio presso l’università per stranieri di Perugia. Da lì l’amore per l’Italia non mi ha più lasciata.

Terminati gli studi mi sono trovata ad affrontare la difficile ricerca di un’occupazione e, dopo vari mesi trascorsi da un lavoro all’altro nell’ambito della traduzione e dell’insegnamento dell’italiano, ho trovato finalmente un’occupazione seria: coordinatrice di programmi di formazione, traduttrice e interprete presso il Council of international studies dell’Hayq-Yan University. Facevo finalmente quello che mi piaceva, avevo un buon rapporto con capi e colleghi e i miei studenti erano diventati anche degli amici. Per questo è stato difficile, inizialmente, decidere di lasciare tutto e partire per lo Sve in Italia!

Ho scoperto l'esistenza di questo programma grazie a mia sorella, che durante gli studi aveva fondato insieme a due amici una ong in cui realizzavano progetti a livello locale ed europeo del programma Youth in action, adesso Erasmus+.

Il progetto mi attirava tantissimo: si trattava di sei mesi a Matera, presso una onlus che si occupa di immigrati, e il mio compito sarebbe stato quello di organizzare eventi che favorissero la loro integrazione nella società italiana nonché fare attività in scuole e università. L’idea di perdere il lavoro che avevo tanto cercato mi ha inizialmente bloccata ma poi, non riuscendo a togliermi dalla testa il pensiero di quest’opportunità, ho deciso di mollare tutto e candidarmi per il progetto. Ho scritto una lettera di motivazione, professionale ma allo stesso tempo molto sincera, in cui mi sono lasciata andare anche a qualche riga più emozionale, ho allegato il mio cv e ho inviato la mail all’associazione Link. Dopo qualche settimana ho saputo di esser stata selezionata e, nel giro di poco tempo, mi sono ritrovata finalmente in Italia.

Sono arrivata a Bari, dove sono rimasta una settimana per fare un “on arrival training”, un corso di preparazione prima dell’inizio vero e proprio, e poi sono partita in direzione Matera, dove l’associazione Tolbà mi aspettava per dare avvio al progetto.

Sono stati mesi intensi, in cui ho fatto cose che, da sola, avrei impiegato anni a fare
: abbiamo realizzato progetti coi bambini, come ad esempio la costruzione di un enorme drago con gli alunni della scuola media in occasione del capodanno cinese, in modo che i ragazzi scoprissero una cultura diversa e interessante e che i bambini cinesi si sentissero ancora più integrati nella comunità italiana. Ho tradotto articoli e storie, alcune delle quali sono state poi pubblicate in un libro in più lingue tradotto dai volontari e dagli immigrati con cui lavoravo. L’associazione ospitante organizzava poi anche progetti nelle scuole elementari, nei quali preparavo testi e canzoni tradizionali e brevi lezioni di lingua.

Oltre ad aver imparato tanto dai progetti seguiti, grazie allo Sve ho avuto modo di riflettere sulla mia cultura e sulle mie tradizioni e di capire che, pur avendo differenti nazionalità, abbiamo tanto in comune e quelle che riteniamo “differenze”, differenze di esperienze o di conoscenze, sono in realtà ciò che di più bello possiamo far conoscere di noi stessi agli altri. Ho capito che neanche la differenza di religione può essere un ostacolo nella convivenza con una persona: la mia compagna di stanza era una ragazza musulmana franco-marocchina, con la quale ho avuto da subito un buon rapporto e con la quale continuo tuttora ad essere in contatto. Ho fatto amicizia velocemente, sia con italiani che con stranieri, migliorando sempre più la mia conoscenza dell’italiano e imparando anche un po’ di dialetto materano. Anche i mentor che seguivano me e gli altri volontari sono diventati come una seconda famiglia, e questo è stato fondamentale soprattutto nei momenti in cui sentivo la mancanza dei miei cari.

Credo che lo Sve sia un’esperienza che fa crescere sia professionalmente che mentalmente, perché devi imparare a gestire il tuo tempo, creare rapporti con i colleghi, e organizzare le spese con i soldi che non bastano mai: percepivo un compenso di 160 euro al mese per il vitto e 115 euro di pocket money; è vero che non pagavo l’affitto dell’appartamento, che era incluso nel budget del progetto, ma per riuscire a far tutto con quella somma bisognava organizzarsi, e questo aiuta a maturare e a diventare più forti. C’è solo una cosa di cui mi pento e che, tornassi indietro, farei diversamente: viaggiare di più. Ero così dedita al lavoro che cercavo di fare ore extra, di imparare di più, e mi sono goduta troppo poco la natura e i paesaggi.

Alla fine del progetto sono tornata in Armenia, intenzionata a cercare un lavoro e ad andare a vivere da sola, dato che i mesi in Italia mi avevano fatta crescere e mi avevano resa indipendente. Ho fatto vari lavori come traduttrice simultanea, finché non sono stata contattata da una ong per lavorare come pr manager e assistente ai progetti, e lì ho conosciuto il ragazzo italiano grazie al quale ho trovato il coraggio di tornare in Italia e trasferirmi finalmente qua. A settembre 2016 abbiamo fondato insieme l’associazione Nous, con la quale facciamo partire tanti ragazzi per progetti nell’ambito di Erasmus+ e anche, quindi, per progetti Sve. Il nostro obiettivo è informare i giovani sulle opportunità di mobilità grazie ai finanziamenti europei, perché vogliamo condividere quello che abbiamo imparato.

Lo Sve è stata sicuramente l’esperienza più bella della mia vita e a tutti i ragazzi che vorrebbero trovare il coraggio di cambiare la propria vita dico che lo Sve è il giusto primo passo. Bisogna trovare la forza per lasciare tutto e scoprire se stessi, cercare il progetto giusto e mettersi in gioco senza arrendersi, perché tutte le difficoltà sono temporanee e poi sono le stesse difficoltà a farci maturare.

Testo raccolto da Giada Scotto

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