Salario minimo, avrebbe senso in Italia se non valesse per lavoratori autonomi e parasubordinati?

Eleonora Voltolina

Eleonora Voltolina

Scritto il 09 Dic 2021 in Approfondimenti

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Quando si parla di salario minimo gli animi si infervorano tra sostenitori e detrattori. Il tema è spinoso perché non tutti sono d’accordo sul fatto che garantire a chiunque svolga un lavoro – di qualsiasi tipo – il diritto a una paga minima (mensile, oppure oraria) sotto la quale non si possa per nessun motivo andare sia positivo per le dinamiche del mercato del lavoro. I detrattori pensano che danneggi l’economia, limitando la libertà dei datori di lavoro di concordare salari adeguati con i loro dipendenti e collaboratori, addirittura favorendo il lavoro nero. I sostenitori ribattono sottolineando che attraverso il salario minimo si riducono le possibilità che i lavoratori, specie quelli più fragili, vengano sfruttati e si ritrovino a lavorare per una retribuzione troppo bassa rispetto alla prestazione offerta.

stage lavoro salario minimoMa dentro al salario minimo c’è una questione ancor più spinosa e ancor più aperta, apparentemente insolubile. E cioè: il salario minimo va applicato a tutti i lavoratori, o solo quelli subordinati? (Spoiler: in Italia il salario minimo porterà davvero un cambiamento positivo solo se tutelerà tutti. Anche gli autonomi.)

Piccolo recap: si definiscono subordinati, secondo il diritto del lavoro italiano, quei lavoratori che vengono assunti appunto con un contratto di tipologia subordinata, che li pone quindi nel ruolo di dipendenti rispetto al datore di lavoro.

Questo inquadramento come dipendenti comporta diritti e doveri: la persona assunta viene posta all’interno di un organigramma, con una gerarchia a cui rispondere, orari di lavoro – stabiliti dal datore – da rispettare, una sede di lavoro – sempre definita dal datore – presso cui recarsi per svolgere le proprie mansioni. A fronte di tutto ciò, il lavoratore subordinato ha diritto a una retribuzione fissa (solitamente mensile, talvolta oraria) più tutte le varie ed eventuali integrazioni previste dal suo contratto, che fa riferimento al contratto collettivo di lavoro del settore in cui il datore di lavoro opera, più l’eventuale contratto integrativo, cioè quello “di secondo livello”. Tale retribuzione è certamente legata anche alla produttività del singolo lavoratore, alla sua capacità di svolgere attività lavorative specifiche; ma principalmente quel che viene pagato è il tempo del lavoratore e la sua disponibilità a eseguire, nello spazio e tempo dato, le mansioni che gli vengono affidate.

Il contrario – per così dire – del lavoro subordinato è il lavoro autonomo. In questo caso tra datore di lavoro e lavoratore si instaura un rapporto diverso, in cui il lavoratore mantiene una sua autonomia, che si precisa in alcune specifiche caratteristiche come il fatto di non dover rispondere alla linea gerarchica aziendale, poter decidere in autonomia quando e dove lavorare; e soprattutto  dover rispondere sostanzialmente solo del proprio lavoro finito, cioè del progetto per il quale il datore di lavoro l’ha ingaggiato. 

La tipologia di lavoro non subordinata è pensata per essere applicata su lavoratori indipendenti (“autonomi”, appunto; in alcuni settori professionali li si chiama anche “freelance”) che abbiano una competenza in un determinato ambito professionale e che quindi siano in grado di svolgere autonomamente la prestazione e offrirla al datore di lavoro “chiavi in mano“.
L'esempio classico qui è la storiella del tecnico che ripara un computer, mettendoci solo pochi minuti, e sulla fattura da mille euro scrive “1 euro per serrare una vite, 999 per sapere quale vite serrare”. 

È proprio in questo grande insieme che, quantomeno in Italia, si annida una grandissima parte del lavoro sottopagato.


In Italia il salario minimo per decenni non è esistito proprio perché, data la date le caratteristiche del mercato del lavoro italiano, non se ne sentiva più di tanto la necessità: le organizzazioni sindacali supplivano – e tuttora suppliscono – a questa mancanza definendo all’interno dei contratti collettivi di lavoro di ogni settore dei minimi, cioè il famoso “minimo sindacale”, che altro non è se non la paga più bassa prevista dai contratti collettivi che poi va ovviamente ad aumentare secondo tabelle prestabilite a seconda del ruolo svolto in azienda e dell’anzianità di servizio. Dunque di fatto in Italia il salario minimo è rappresentato da tanti salari minimi quante sono le tante “retribuzioni base” previste dalle decine di contratti collettivi (quello del commercio, metalmeccanico, ristorazione, e così via).

I sostenitori del salario minimo in Italia specificano che non tutte le professioni, e quindi non tutti i lavori, hanno un contratto collettivo di riferimento; e inoltre che vi è una percentuale di lavoratori subordinati che ancora oggi può essere pagata troppo poco. In effetti, si calcola che vi sia un 10-15% di lavoratori con contratto subordinato che non è tutelato da “minimi sindacali”, e che quindi è a rischio sfruttamento. Ed è anche vero che vi sono dei contratti collettivi con minimi estremamente bassi, il che danneggia i lavoratori di quei settori. Ma è evidente che la grande maggioranza dei lavoratori subordinati in Italia è già tutelata.

Prova ne sia che negli ultimi due decenni c’è stata una vera e propria fuga dal contratto subordinato (specie quello più tutelante di tutti per il lavoratore, e cioè il contratto a tempo indeterminato). Sulla base della innegabile esigenza delle aziende di poter disporre di modalità meno “stabili” con cui inquadrare i lavoratori ci sono state riforme normative (la legge Biagi è la più nota) che hanno introdotto ex novo – o “formalizzato” meglio – modalità di lavoro più flessibili. Contratti di collaborazione a progetto (cocopro), contratti di collaborazione coordinata e continuativa (cococo), collaborazioni a partita Iva, associazioni in partecipazione... In troppi casi queste nuove tipologie contrattuali sono state utilizzate in maniera truffaldina dai datori di lavoro, solo per pagare di meno i lavoratori. È proprio nei cococo, cocopro e nelle collaborazioni a partita Iva infatti che si annida molto spesso lo sfruttamento più spudorato.

Tanto è vero che in Italia, patria degli azzeccagarbugli, ci siamo pure inventati la dicitura “contratti parasubordinati”, per dire sostanzialmente che ad alcuni lavoratori si chiedono prestazioni di lavoro subordinato offrendo un contratto di lavoro subordinato, e invece ad altri lavoratori si chiedono prestazioni di lavoro subordinato ma... inquadrandoli con un contratto di lavoro autonomo. Che però non è proprio-proprio autonomo, e dunque… chiamiamoli “parasubordinati”, dai. Ovviamente i contratti “parasubordinati” sono contratti di serie B, con retribuzioni solitamente più basse, contributi a carico del datore di lavoro più bassi (talvolta addirittura inesistenti), niente tredicesima, niente tfr, niente ferie pagate.

La domanda è: ha senso pensare a una legge sul salario minimo, se già a monte si pensa a questa legge come un modo per tutelare esclusivamente i lavoratori subordinati? È un po’ come fare una legge contro il razzismo, con tante buone intenzioni per carità, ma che punisca solo chi discrimina, per dire, le persone orientali. E tenere fuori dal raggio di tutela della legge tutte le persone di altre etnie, a cominciare da quelle di colore che sono anzi più spesso il bersaglio di atti di razzismo. Ecco, fare una legge sul salario minimo che non includa i lavoratori autonomi sarebbe più o meno come fare una legge che condanni gesti razzisti ma solo verso una specifica categoria, perfino minoritaria, di persone potenzialmente esposte a crimini razzisti; e lasciando scoperti tutti gli altri.

Se dobbiamo finalmente arrivare a una legge sul salario minimo, che questa legge tuteli davvero tutti. È difficile, certo. Trovare il modo per rendere applicabile un salario minimo su rapporti di lavoro che per loro natura non contano (quantomeno sulla carta) le ore di lavoro, a favore di lavoratori che non “timbrano il cartellino”, è complesso: noi della Repubblica degli Stagisti abbiamo una proposta, altre possono essere messe sul tavolo, l'importante è trovare una quadra. Ma non escludere i lavoratori autonomi dal raggio d'azione del salario minimo prossimo venturo è l’unico modo per contrastare davvero il lavoro sottopagato, stante la peculiarità della situazione italiana in cui la piaga delle retribuzioni troppo basse si annida proprio tra le pieghe dei contratti “atipici”.

Se alla fine prevarrà la modalità rinunciataria, e anche in Italia si procederà con l'approvazione di un salario minimo limitato alle persone con contratto subordinato, certo ci sarà qualche decina di migliaia di lavoratori che ne trarrà beneficio. Ma la stragrande maggioranza di chi davvero è sottopagato resterà senza tutela.


L'immagine è di Ivan Radic, tratta da Flicr in modalità Creative Commons

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