Badanti e braccianti agricoli laureati, l'Italia non valorizza gli immigrati con alto grado di istruzione: eppure «hanno una marcia in più»

Paolo Ribichini

Paolo Ribichini

Scritto il 08 Set 2016 in Approfondimenti

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L’Italia non è un paese per laureati, tantomeno per quelli stranieri. Il nostro Paese non è in grado di attrarre immigrati qualificati e, quando lo fa, offre loro impieghi al di sotto del loro grado di istruzione. È quanto emerge dai dati del nuovo Rapporto annuale “I migranti nel mercato del lavoro in Italia”, realizzato dal Ministero del Lavoro. L’8,4% dei laureati extracomunitari residenti in Italia svolge la mansione di operaio non specializzato. Una percentuale decisamente superiore a quella degli italiani, pari all’1,3%. Ci troviamo, quindi, di fronte ad un vero spreco di capitale umano che potenzialmente potrebbe dare nuova linfa al mercato del lavoro e nuova vitalità all’economia.

Pochi laureati e mal impiegati.
Se da una parte il sistema Italia non riesce a trattenere le sue “menti migliori” come i ricercatori, dall’altra non è nemmeno in grado di attrarre laureati dall’estero né di valorizzare quel capitale umano che entra nei confini nazionali. Così, persone che hanno conseguito una laurea in ingegneria, economia o diritto si ritrovano in fabbrica o a servire tra i tavoli di un ristorante. E l’Italia diviene “terra di conquista” di chi ha un basso livello di istruzione: solo il 11,8% della forza lavoro extra Ue è laureato, mentre più del 53% raggiunge al massimo un livello di istruzione equiparabile alla nostra scuola media. Un dato significativo se paragonato a quello dei laureati italiani nel mercato del lavoro nazionale, pari al 22,1%, già tra i più bassi dell’Europa occidentale. Oliviero Forti«Attiriamo pochi laureati dall'estero perché costringiamo tanti laureati italiani ad andare all'estero», spiega alla Repubblica degli Stagisti Oliviero Forti, responsabile immigrazione della Caritas italiana. «Non abbiamo un mercato del lavoro in grado di assorbire delle competenze né a livello interno, né tanto meno a livello internazionale. Gli immigrati si posizionano nei segmenti medio-bassi del mercato del lavoro. È una tipicità tutta italiana e degli altri paesi del “modello mediterraneo”, come Spagna, Portogallo, Grecia».

Ma il problema riguarda anche il riconoscimento dei titoli di studio: «Attiriamo pochi laureati stranieri perché c’è un problema di equiparazione» aggiunge Rodolfo Giorgetti, responsabile area immigrazione di Italia Lavoro, che ha contribuito alla realizzazione del Rapporto: «È necessario che si ricerchi una più forte connessione tra le università italiane con quelle straniere, con la realizzazione di partnership». Ma il problema del riconoscimento dei titoli di studio è un aspetto piuttosto complesso che «investe anche la necessità di rispettare gli standard richiesti dall’Unione europea», puntualizza Forti.

Ingegneri e medici, le uniche eccezioni.
A tutto questo si somma una questione economica: per gli immigrati il titolo di studio – nei fatti –  influisce in maniera quasi impercettibile nella determinazione del tipo di impiego e di reddito, diversamente da ciò che accade per gli italiani. Anzi, gli stranieri si collocano, in ogni caso, nelle fasce più basse della società: solo lo 0,9% di questi percepisce un reddito superiore ai 2mila euro mensili, mentre quasi l’80% percepisce meno di 1.200 euro. Di contro solo poco più del 40% dei lavoratori italiani guadagna meno di 1.200 euro al mese, e quasi il 9% più di 2mila. Tra gli stranieri extra Ue solo il 4% dei laureati percepisce più di 2mila euro, contro il 22,3% degli italiani.

«In genere gli immigrati svolgono lavori per mansioni di livello diverso rispetto a quello previsto dal titolo di studio» conferma Forti: «Così, tra chi svolge lavori agricoli, troviamo persone con titolo di studio assimilabile alla laurea o donne laureate, in genere dell'Est Europa, impiegate come Rodolfo Giorgetticollaboratrici domestiche, spesso con situazioni contrattuali precarie o in nero». I laureati stranieri in Italia che riescono a svolgere un lavoro confacente al titolo di studio «sono essenzialmente medici e ingegneri meccanici, in genere persone che hanno svolto un tirocinio formativo in Italia prima di scegliere il nostro Paese come destinazione» specifica Giorgetti. «Dal punto di vista delle nazionalità, prevalgono marocchini e cinesi, mentre in alcune attività specialistiche di nicchia attiriamo laureati da Stati Uniti e Canada».

Il titolo di studio non conta nella scelta di rimanere in Italia.
Ma tra gli immigrati laureati provenienti dall’area mediorientale o dall’Africa la scelta di rimanere in Italia o proseguire verso il nord d’Europa raramente dipende dal titolo di studio. «L'Italia è un paese di transito per quelle nazionalità che hanno forti comunità all'estero, per esempio in Germania, Austria, Belgio, Francia e Norvegia, che forniscono loro appoggio e orientamento», spiega Oliviero Forti. «Diversamente, chi non dispone di queste reti o di risorse per continuare il viaggio. I siriani dispongono di risorse e di reti, in particolar modo in Germania, i subsahariani no. Questi ultimi, volenti o nolenti, tendono a rimanere in Italia».

Più assunzioni, ma anche più donne inattive. Nel 2015 c’è stata una complessiva inversione di tendenza dei livelli occupazionali degli extracomunitari, in base ai dati Istat elaborati nel Rapporto. Lo scorso anno sono stati assunti 2 milioni di cittadini extra Ue, pari a circa il 20% delle assunzioni totali. Ciò equivale ad una crescita rispetto al 2014 di +4,7%, superiore – anche se non di molto – a quella degli impieghi che hanno riguardato i cittadini italiani (+4,1%). Al contempo, però, cresce anche il numero degli inattivi, soprattutto tra le donne extracomunitarie, con una crescita di 20mila unità, pari a +2,2%. I dati 2015 confermano un trend che prosegue da alcuni anni in merito alla tendenza imprenditoriale degli immigrati extracomunitari: circa il 10% di questi svolge un’attività per proprio conto, prevalentemente attività commerciali piccole o medio-piccole.

I giovani stranieri con una marcia in più.
Interessante rilevare le sensibili differenze che stanno emergendo tra italiani e stranieri per il diverso peso che le nuove generazioni hanno sul mercato del lavoro. Tra i dirigenti italiani, per esempio, solo il 3,3% ha meno di 34 anni, contro il 18,8% dei dirigenti stranieri in Italia. Discorso simile anche tra i quadri, dove tra gli italiani gli under 34 sono il 7,6%, mentre tra gli stranieri il 15,5%. Medesimo rapporto anche nel mondo del lavoro autonomo: gli imprenditori italiani con meno di 34 anni sono quasi l’8%, mentre i giovani stranieri sono il 25,5%. Si tratta di dati che indicano quale contributo potrebbe dare una maggiore presenza di giovani, soprattutto se laureati e specializzati, al mercato del lavoro italiano.

«Il 90% dei laureati mondiali si forma lontano da casa. In Italia questo rapporto è essenzialmente invertito», spiega Giorgetti. «Attrarre stranieri significa quindi avere persone più flessibili di fronte ai cambiamenti nei processi di lavoro. Un ragazzo laureato che ha attraversato il deserto per raggiungere l’Europa, si conquisterà la propria posizione lavorativa con le unghie e con i denti. La sua determinazione è un valore aggiunto». Senza dimenticare però che «la vera emergenza non è tanto il riconoscimento delle competenze e dei titoli di studio
» conclude Forti «quanto il corretto inquadramento contrattuale degli immigrati, laureati o meno. Già questa sarebbe una grande conquista».

Paolo Ribichini

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