La pacchia è finita, giovani: ma potete farcela lo stesso. Basta crederci, come Elvis Presley

Annalisa Di Palo

Annalisa Di Palo

Scritto il 12 Apr 2013 in Interviste

Sebastiano Zanolli, 48 anni, vicentino, è un nome conosciuto dell'industria italiana dell'abbigliamento, ma anche un appassionato scrittore e vocational speaker, a suo agio di fronte a platee tanto di professionisti quanto di giovani studenti. Il suo ultimo libro, «Dovresti tornare a guidare il camion Elvis» è per metà sprono per metà guida pratica alla scoperta e realizzazione del proprio talento - leggi "felicità propria e della collettività" - e la Repubblica degli Stagisti, incuriosita dal tema, ha intervistato l'autore.

Zanolli, abbiamo tutti un talento?
Domanda difficile... È probabile di sì, anche se molti non
lo troveranno. Creare una fenomenologia del talento, spiegarlo in termini assoluti e generali, è impossibile; ma la mia esperienza mi porta a credere che tutti abbiamo potenzialità speciali. Il fatto che non si realizzino, o che nessuno le veda, non vuol dire che non esistano - un po' come con il cigno nero.
Secondo lei esistono, per così dire,  talenti "di serie A" - per la vendita, gli affari, le relazioni pubbliche ad esempio - e talenti "di serie B" - poniamo, per l'arte figurativa?
Assolutamente no, esiste solo la capacità di fare in maniera eccezionale una certa attività, quale che sia. Che poi la società a talenti diversi attribuisca un diverso valore, sia economico che morale, è un altro discorso. Che comunque vale per qualsiasi tipo di società: ad esempio se Picasso fosse nato e cresciuto in una tribù dell'Amazzonia invece che in Spagna e Francia, probabilmente non sarebbe stato apprezzato come da noi. Va tutto letto in relazione alle convenzioni sociali, ma il talento non conosce serie e categorie.
Lei ritiene che l'Italia, insieme a tutto l'Occidente industrializzato, sia molto fortunata ad occupare la parte più prospera del pianeta. Pensa che i trentenni di oggi, che ad esempio non conoscono guerre e non hanno dovuto lottare per studiare, siano "fortunati tra i fortunati"? Crede al paradigma della generazione viziata?
Affatto. È una banalizzazione. Credo però che chi non ha termini di paragone non riesca ad apprezzare il fatto che l'istruzione - come pure il cibo, la casa, l'assistenza sanitaria - sia un diritto, o che la doccia la si faccia con l'acqua potabile, mentre altrove il primo pensiero della mattina è recuperare un bicchiere d'acqua per vivere. Questo non è un problema generazionale, è un problema di coscienza individuale.
Però rimane il fatto che quelle che per i giovani di quarant'anni fa  erano grandi conquiste, oggi sono appunto diritti. E qualcuno ipotizza che ciò abbia creato una generazione incapace di affrontare le difficoltà, una su tutte quella - obiettiva - di trovare lavoro.
L'osservazione può essere corretta, ma il rimprovero ai giovani che spesso ne deriva è sbagliato. O per lo meno è incredibilmente mal indirizzato. È parte della natura umana sforzarsi di dare alla generazione successiva ciò che è mancato alla propria; cercare di migliorare la propria condizione e quella dei propri figli non è un male in sè. Ma bisogna pensare a spese di chi e di cosa avviene questo miglioramento. Il rimprovero quindi va fatto ad un'intera società, che non si è accorta che nell'accumulare conquiste per sè e i propri figli stava andando a credito, non solo verso le generazioni successive, ma anche verso le popolazioni più povere e verso le risorse ambientali. Quando il sistema ad un certo punto non è più stato in grado di alimentare questo enorme mutuo, ha ceduto. Non a caso il titolo provvisorio di «Dovresti tornare a guidare il camion, Elvis» era un altro: «La pacchia è finita». Ecco, è finita. 
E adesso?
Bisogna assumersi la responsabilità collettiva - tutti, a qualsiasi età - di gestire una crisi che si è contribuito a generare o che si è ricevuto in eredità, senza per questo farlo scontare ad altri. A te, giovane, è capitata la "sfiga" di essere viziato? Fa niente, fai del tuo meglio con quello che ti è capitato, non con quello che vorresti ti fosse capitato. Come racconto nel libro, ci sono comunque ampi margini di azione e miglioramento. I mezzi non mancano.
Lei oggi dirige una nota linea di moda giovanile, oltre a scrivere un libro ogni due anni e fare coaching. È stato difficile trovare la sua strada?
Diciamo che ho dovuto picchiare duro e cambiare gioco varie volte. Ho fatto diversi lavori in cui sono durato poco, perché non mi piacevano. All'inizio della mia carriera ad esempio vendevo software per la pubblica amministrazione. Poi ho mollato e sono andato a vendere condizionatori, ma neanche lì mi trovavo bene.  Alla fine, dopo molti tentativi, sono entrato nel settore dell'abbigliamento, ma non di certo dall'ingresso principale. Ho iniziato dal basso e ho dovuto lavorare sodo per affermarmi.
E va spesso in scuole ed università per condividere con i giovani  le lezioni che ha imparato. Ha in programma a breve  qualche incontro?
Sì, certo, ce ne sono sempre. Il modo migliore per tenersi aggiornati è iscriversi alla newsletter tramite il mio sito.
Infine, ci tolga una curiosità: come mai la nota introduttiva al suo libro è firmata da Donatella Rettore?
L'ho conosciuta in treno, tornando da Milano. Parlando del tema del talento mi ha colpito perché mi ha detto: «Guarda, io non so fare niente nella vita se non intrattenere le persone da un palco. Da quando ho quattro anni, se mi dai un palco riesco a tenere ferma l'attenzione della gente che mi guarda. A un certo punto ho pensato che visto che non sapevo fare nulla, almeno potevo guadagnarmi la vita con questo». Mi è piaciuta la sua onestà intellettuale. 

Intervista di Annalisa Di Palo
[foto:Yorick Photography]

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