Sei mesi ad Harvard con la Fulbright Research: «Siamo ricercatori ma anche ambasciatori culturali»

Maura Bertanzon

Maura Bertanzon

Scritto il 02 Gen 2015 in Storie

Il programma Fulbright Research Scholar assegna nove borse di studio e ricerca negli Stati Uniti per l’anno accademico 2015-2016: le candidature sono aperte fino al prossimo 9 gennaio. A disposizione, da 9mila a 12mila dollari per soggiorni da sei a nove mesi. Laura Cavicchioli, 40 anni, veterinaria e ricercatrice dell’università di Padova, ha trascorso sei mesi alla Harvard Medical School, in Massachusetts. Alla Repubblica degli Stagisti racconta la sua esperienza.

Al programma Fulbright ho voluto partecipare per fare qualcosa di diverso, anche sul piano personale. Non si tratta “solo” di una borsa di ricerca: lo “spirito Fulbright” richiede di essere ambasciatori del proprio Paese e di immergersi nella vita quotidiana americana. È quello che ho fatto anch’io, nei sei mesi che ho trascorso in Massachusetts da gennaio a giugno del 2014. 

Al Centro Primati dell’università di Harvard (New England Primate Research Center) ho studiato gli effetti del diabete di tipo 2 sui primati, per capire come il glucosio e l’insulina possano creare una degenerazione neuronale, causando un decadimento cognitivo. È un fenomeno molto simile a quello riscontrato nell’uomo, in alcuni pazienti, anche molto giovani. Per questo uno studio comparato può essere molto utile e per questo tipo di ricerca il Centro Primati di Harvard è all’avanguardia. La mia esperienza è stata parte di un progetto più ampio, coordinato dal National Institute of Health americano, che vede coinvolti vari centri universitari americani. Per partecipare a Fulbright bisogna presentare una lettera di invito e un progetto di ricerca specifico: ad Harvard ero già in contatto con una patologa veterinaria americana e volevamo approfondire questo aspetto di ricerca. Era un progetto dettagliato e penso che questo abbia fatto la differenza nella selezione, quando mi sono candidata alla borsa Research Scholar.

All’estero ero già stata in altre occasioni. Nel 2007 ero stata in Texas, alla A&M University, per degli studi sulla patologia renale del cane e del gatto. In quell’occasione, però, senza nessuna borsa. Prima ancora, nel 1998, sono stata borsista con il programma europeo Leonardo al Martin Referrals Centre di Kenilworth, in Gran Bretagna. Penso di essere stata una delle prime: le borse erano ancora in ECU! Il mio percorso di studi e professionale, comunque, è sempre stato dentro l’università di Padova. Prima la laurea in medicina veterinaria, poi il dottorato di ricerca nel 2004 e, infine, la qualifica da ricercatore in patologia e anatomia patologica veterinaria.

Fulbright è stato l’opportunità perfetta per tornare negli Stati Uniti. Sono partita per Boston, portando con me mio figlio di cinque anni. In realtà la borsa in sé (9mila dollari per sei mesi, ndr) non può coprire tutti i costi. Bisogna fare i conti anche con le necessità di tutti i giorni: l’automobile, le utenze di luce, gas, riscaldamento. E anche, nel mio caso, il costo di rimozione della neve. Sono spese alte quando si rimane per pochi mesi. La scuola, in più, è molto costosa, anche se quella pubblica è più accessibile. Se parti da solo, ce la puoi fare. Se hai la famiglia con te, si fa fatica. Prima di partire ho scoperto di essere di nuovo incinta. Ci ho pensato molto, ma non ho voluto rinunciare e l’assistenza medica ha coperto tutte le esigenze della mia gravidanza. Ho comunque dovuto aggiungere delle risorse personali, anche perché avevo bisogno di trovare una casa adatta per me e mio figlio. Tra una cosa e l’altra, in sei mesi ho speso 18mila euro. È difficile, ma non impossibile. L’università italiana mi ha comunque garantito lo stipendio e la possibilità di mantenere il mio posto da ricercatore.

L’aspetto più duro è stato a livello psicologico: sapevo che ero da sola. Mio marito non poteva lasciare l’Italia per motivi professionali. Negli Stati Uniti, però, ho trovato un’assistenza pressoché perfetta: la scuola materna poteva tenere mio figlio anche fino alle sei del pomeriggio, permettendomi di lavorare a pieno. E durante la gravidanza avevo uno scadenzario completo con le visite e i controlli da fare. In laboratorio poi non è stato un grande problema: ho lavorato molto con tessuti d’archivio, evitando il contatto con determinati reagenti. Un’infermiera aveva stilato una lista di materiali che non potevo usare o toccare e qualcun altro, quindi, lo faceva al mio posto. È una questione di organizzazione. In America sono abituati così. In maternità, in pratica, ci vai quando ti si rompono le acque. Fino al momento prima puoi lavorare tranquillamente. Il mio secondo figlio, però, è nato in Italia. Mi scadeva il visto una settimana prima della data del parto e in quel momento, in ogni caso, non volevo essere da sola. Alla fine è andato tutto bene. Anche se le hostess, in aereo, quasi temevano che nascesse in volo.

Credo che in Italia l’opportunità data da Fulbright non sia ancora così famosa e “sentita” come lo è in America. Però ne vale la pena, sicuramente a livello personale, per accrescere la propria esperienza professionale e il prestigio del curriculum. A chi volesse candidarsi, dico che è essenziale prendersi per tempo. Bisogna presentare progetti pensati con la testa e digeriti bene. Inoltre bisogna essere capaci di spiegare non solo i dettagli del proprio progetto di ricerca, ma anche perché si vuole partire proprio con questo programma. Le tre lettere di presentazione le ho ottenute facilmente, da colleghi di altri atenei italiani e stranieri con cui avevo già collaborato in passato per ricerche sul diabete. A prendere più tempo è stata la stesura del progetto, perché bisogna indicare nel dettaglio anche i costi, nonché quanto saranno spendibili i risultati della ricerca nel proprio ateneo, una volta tornati. Io ci ho messo qualche settimana. A voler preparare bene la candidatura, penso ci voglia almeno un mese. Non si devono sottovalutare i tempi di risposta per ottenere le lettere di presentazione e tutti i documenti necessari. La scadenza è ai primi di gennaio, ma con le festività natalizie di mezzo, spesso il tempo si riduce. Io l’ho usato tutto, fino all’ultimo: i documenti li ho portati a mano, di persona, a Roma, per non rischiare ritardi con i corrieri, a fine dicembre 2012. Poi c’è tutto l’iter di selezione. Come è indicato nel bando, le interviste finali sono in primavera. Se risulti vincitore, c’è almeno qualche mese di tempo per organizzare il viaggio e il lavoro da lasciare in Italia.

Prima della mia partenza, nel gennaio 2014, la  Commissione Fulbright italiana mi ha aiutato soprattutto per le pratiche relative ai visti con l’ambasciata americana. A Padova, invece, ho potuto contare moltissimo sull’aiuto dei miei colleghi: di certo non è previsto che vengano chiamati sostituti esterni. Per fortuna non avevo corsi da tenere nel semestre in cui sarei partita e l’attività di ricerca ho potuto gestirla anche da lontano: non avevo grosse incombenze di laboratorio. Ai miei colleghi ho affidato i tirocinanti che dovevo seguire. Ricambierò il favore quando rientrerò dalla maternità, visto che un’altra collega è in partenza con una borsa Fulbright. È un “do ut des”, ma vale la fatica. Resto convinta della qualità di queste esperienze: per migliorarsi è necessario uscire dall’università italiana, andare altrove. I frutti li vedremo tutti, fra un po’.


Lo “spirito Fulbright”, poi, richiede di essere ambasciatori del proprio Paese: dal punto di vista scientifico, volevo testimoniare che la ricerca da noi in Italia si fa, e anche a un certo livello. Il grande interesse che ho trovato in America per il mio lavoro me lo ha confermato. Dal punto di vista culturale, il programma Fulbright ti chiede di immergerti nella società americana e questo mi sento di averlo vissuto fino in fondo, non solo grazie a iniziative come conferenze, eventi e gite organizzate per i borsisti, ma anche nella quotidianità. In America, ad esempio, ho iscritto mio figlio all’asilo. Lui si è divertito un mondo e si è inserito subito, anche grazie allo sport. Oltre alla ginnastica nella palestra della scuola, con i maestri della Gym Academy americana che venivano apposta, ha iniziato a giocare a calcio nella squadra locale. Partite e allenamenti nei fine settimana: l’organizzazione in sè era perfetta. Lui si è appassionato moltissimo. Non è stato difficile conoscere nuovi amici. Io, con lui, ho trovato un’atmosfera molto familiare, dove tutti si interessano a te e sono pronti a darti una mano. Grazie a mio figlio ho potuto partecipare alla vita scolastica in tutti i suoi aspetti, riunioni del gruppo genitori comprese. È un modo di tessere relazioni: quando siamo tornati in Italia, abbiamo fatto nascere un gemellaggio tra le due scuole materne. Credo che anche questo sia un modo di essere “ambasciatori culturali”. Mi sembra di aver gettato un piccolo seme per qualcosa di buono. 


Testo raccolto da Maura Bertanzon

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