Jobs Act, per gli accademici bocciato in partenza: «un ritorno al passato»

Ilaria Mariotti

Ilaria Mariotti

Scritto il 04 Mar 2015 in Approfondimenti

È forse la riforma più discussa del governo Renzi quella del lavoro, il cosiddetto Jobs Act. E se i sostenitori di un provvedimento pensato e lanciato come rivoluzione copernicana per il mercato del lavoro non mancano, tra loro non figura il mondo universitario. Che al convegno 'Quale progetto per il diritto del lavoro?' organizzato qualche giorno fa dalla casa editrice Ediesse ha fatto le pulci a una misura considerata tutt'altro che un «disegno strategico o intervento tatticistico», come l'ha definito Luigi Mariucci, ordinario di diritto del lavoro e condirettore di Lavoro e diritto, quanto piuttosto «l'ennesimo bricolage legislativo». Quello che si starebbe facendo è «tornare alla legge delega 30 del 2003, introducendo flessibilità in entrata e in uscita», sostiene l'esperto. È un po' un ritorno alle origini, sostiene Mariucci, a quell'impostazione della legge Biagi che sancì la nascita delle diverse forme contrattuali precarie che oggi conosciamo.

Ma quello che non farebbe il Jobs Act è intervenire sulla questione davvero centrale, ovvero le tutele. È il contratto a tutele crescenti, nuova versione del contratto a tempo indeterminato, il bersaglio delle principali accuse. Per Lorenzo Zoppoli della Federico II«il 'catuc'», come lo ha ribatezzato il professore, «affiancato al vecchio contratto standard non può – come si auspicherebbe – portare una maggiore uguaglianza sul mercato». Al contrario, sostiene Zoppoli, «la sua funzione è quella di disequilibrare ulteriormente le posizioni contrattuali», quindi all'interno del rapporto stesso di lavoro. È chiaro infatti che se per chi offre un posto di lavoro la possibilità di licenziare diventa più praticabile in cambio di un indennizzo economico, a farne le spese è «il portato negoziale del contratto». Detto altrimenti, il lavoratore diventa più debole di fronte alla controparte.

La difesa di chi ha firmato il Jobs Act, ricorda Zoppoli, «è però che le disuguaglianze da abbattere sono quelle esterne al rapporto di lavoro», tra garantiti e non. Ma, a suo dire, non si centrerebbe neppure questo di obiettivo: «La dimostrazione è con il decreto 34 che ha reso del tutto acausale il contratto a tempo determinato, di fatto liberalizzando la precarietà». Il risultato è stato una sua ufficializzazione. E non sono certo le assunzioni sganciate da qualunque garanzia il fondamento dell'uguaglianza. È stato ripetuto del resto da più parti: l'ispirazione doveva provenire dalla flexsecurity, nei fatti rimasta invece lettera morta. «Per ora c'è la flessibilità» chiarisce Maria Vittoria Ballestrero, docente di diritto del lavoro all'università di Genova«Per la security si vedrà», forse nel momento in cui «ci saranno le risorse per aumentare i beneficiari delle tutele». «Declinando la flessibilità in entrata, si è avuta una erosione dei diritti fondam
entali dei lavoratori» ragiona la professoressa, «ma la flessibilità non può considerarsi merce di scambio con le tutele
».

L'altra critica che rivolge Zoppoli al Jobs Act è l'idea di mettere al centro il nuovo contratto a tutele crescenti. «Meglio un sistema con più piste aperte» osserva in riferimento per esempio al contratto a progetto, da non abbandonare «perché comunque legato a un sistema di tutele». Tra queste per esempio la disoccupazione erogata una tantum grazie alla legge Fornero, dietro il rispetto di una serie di requisiti. L'impianto dovrebbe insomma prevedere «un meccanismo in cui si possa intervenire con la contrattazione collettiva, quella che può fornire più paracaduti per i lavoratori».

Proprio l'esclusione dei sindacati frena l'entusiasmo di altri esponenti del mondo accademico, come Andrea Lassandari, ordinario di diritto del lavoro dell'università di Bologna«Nei confronti del sindacato c'è quasi ostilità» afferma, «l'idea è che il datore di lavoro sia autosufficiente e che non abbia bisogno del contratto collettivo: la deroga gliela consegna il legislatore stesso e non il contratto nazionale». Una riforma che non piace è anche quella sull'articolo 18, perché «se cade una fortezza se la passano male tutti, negli anni Settanta c'eravamo già arrivati» sottolinea Lassandari.

Tutti i professori schierati contro Renzi e Poletti, insomma, o quantomeno quelli chiamati al convegno da Ediesse: una platea facile per Giorgio Airaudo, esponente di Sel, per cui il Jobs Act «non è un pasticcio fatto male ma un vero disegno» dietro a cui starebbe la scelta precisa di «ridurre il peso contrattuale del lavoro». Per l'ex sindacalista oggi politico «è l'estensione del modello Marchionne: si sposta il baricentro dai lavoratori all'impresa». In definitiva, è l'affondo di Airaudo, «il Jobs Act lascia i lavoratori soli»


Meno tranchant il giudizio di Cesare Damiano, già ministro del Lavoro e oggi presidente della commissione Lavoro alla Camera - e dunque parte attiva nella redazione del provvedimento, benché in conflitto con la maggioranza del Pd su molti dei temi sul tavolo
: «La nostra è stata una battaglia di resistenza, e qualche risultato lo abbiamo ottenuto». Insomma, sarebbe potuta andare peggio: «È un impianto che non condivido» ammette, «ma ho dovuto fare i conti con una realtà che vede il lavoro progressivamente svalutato». Tuttavia, così come impostato a livello di legge delega, il sistema sembrerebbe conservare una sua logica non del tutto deprecabile. «L'idea è che sì, si sottraggono tutele» dice Damiano, «ma poi una volta disoccupato ti diamo di più», ricorda in riferimento all'estensione del sussidio di disoccupazione.

E poi c'è l'abolizione delle figure contrattuali più precarie, considerate «dai precedenti governi di destra un antidoto alla rigidità del lavoro». La loro cancellazione sarà la risposta «a un sistema di maggiore flessibilità sia in entrata che in uscita dal mercato del lavoro» conclude Damiano di fronte alla platea di docenti. Per sapere se sarà davvero così bisognerà però aspettare che tutti i decreti delegati vedano la luce da qui a giugno.


Ilaria Mariotti 

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