Studiare da infermieri conviene, ecco perché

Giada Scotto

Giada Scotto

Scritto il 08 Feb 2018 in Approfondimenti

Se nell’immaginario comune i corsi universitari che danno più chances dopo la laurea sono classicamente ingegneria e medicina, forse non tutti sanno che anche infermieristica non scherza: secondo i dati dell’ultimo rapporto Almalaurea per le professioni sanitarie infermieristiche e ostetriche, infatti, il tasso di occupazione a un anno dal titolo è di circa il 70%, con una retribuzione netta mensile che supera i 1.300 euro. Un buon risultato per i neoinfermieri, soprattutto se si considera che la maggior parte dei neo-occupati ha trovato un impiego completando solamente il primo ciclo di studi, ovvero la laurea triennale, senza proseguire con la laurea magistrale o un master di primo livello: solo l’1,4% degli intervistati dichiara infatti di lavorare frequentando intanto un corso magistrale. A confermare questa tendenza arrivano anche i dati dell'anagrafe Miur, secondo cui nell'anno accademico 2015/2016 sono stati oltre 17.500 gli iscritti al primo anno di laurea triennale mentre solo 1.038 gli iscritti al primo anno di specialistica, così come i laureati che superano i 12.700 alla triennale ma non arrivano a mille se si guarda alla magistrale.

Eppure una laurea magistrale qualche chances in più dovrebbe fornirla, in virtù del titolo ma soprattutto delle maggiori competenze acquisite. Ma quali sono allora le prospettive concrete che si offrono ai laureati di primo e secondo livello? Gli infermieri continueranno ad essere ancora così richiesti in Italia, non solo negli ospedali ma anche sul territorio?

Per capire come orientarsi al meglio, formandosi un’idea più chiara delle possibilità a disposizione, Repubblica degli Stagisti ha chiesto aiuto agli atenei di Modena e Reggio Emilia e di Udine, rispettivamente al primo e al secondo posto nella classifica della didattica Censis 2017/2018 per il settore medico-sanitario. «La popolazione sta invecchiando e questo ci suggerisce un crescente bisogno di assistenza infermieristica, che risulta già evidente» spiega Alvisa Palese [nella foto a destra], coordinatrice del corso di laurea in infermieristica dell’università di Udine: «Una ricerca dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ha riportato che nel 2015 in Europa la media di infermieri “attivi” ogni mille abitanti era di 9.0, mentre in Italia di 5.4». C’è dunque bisogno di infermieri, e sempre di più, considerando che «anche la popolazione infermieristica sta invecchiando e molti, tra pochi anni, andranno in pensione».

Gli sbocchi occupazionali per i futuri infermieri sono essenzialmente tre: lavoro dipendente nel pubblico, lavoro dipendente nel privato e lavoro autonomo, che sembra tuttavia raccogliere ancora una ristretta parte della categoria; nel 2015, infatti, dei 371mila infermieri occupati solo 17mila risultavano impegnati nella libera professione (come singoli o come associati) di contro ai ben 354mila infermieri dipendenti. Colpisce come oltre il 75% degli infermieri totali fosse occupato nei servizi ospedalieri, mentre i restanti in studi medici, strutture di assistenza residenziale e non residenziale.

La necessità di infermieri non si fa sentire tuttavia solo negli ospedali, considerati il loro regno naturale, ma anche nelle strutture pubbliche e private dislocate sul territorio, che possono essere legate alla Usl o al comune (non per forza all'ospedale) e «accolgono pazienti affetti da malattie croniche» spiega Daniela Mecugni [nella foto in basso a sinistra], presidente del corso di infermieristica dell’università di Modena e Reggio Emilia; se infatti in passato il prevalere di malattie acute rendeva gli ospedali centrali nel sistema sanitario, adesso il prevalere di malattie croniche richiede uno spostamento da un sistema ospedalocentrico verso uno “territoriale”, dove queste ultime possono venire trattate più facilmente, salvo riacutizzazioni. «In queste residenze l’infermiere risulta una figura centrale, poiché è in grado di prendere in carico il paziente sotto tutti gli aspetti, come dimostra l’elevata soddisfazione testimoniata da chi vi si è rivolto».

In via di sviluppo è poi l’area della libera professione, che offre all’infermiere più opportunità: «può infatti lavorare da libero professionista sia come singolo che come associato, con medici – aprendo una partita iva – o con altri infermieri, come ad esempio con un fisioterapista» prosegue Mecugni. Ma è bene tenere sempre gli occhi aperti, facendo attenzione a non scivolare in casi di sfruttamento, tutt'altro che rari nel privato: «Bisogna infatti distinguere subito tra lavoro interinale e nell'ambito delle cooperative» riflette Barbara Mangiacavalli [nella foto in basso a destra], presidente della Federazione nazionale ordini delle professioni mediche; «nel primo caso il lavoro è normato contrattualmente con accordi nazionali che, pur non essendo quelli del Servizio sanitario nazionale, tutelano in parte la dignità professionale dei nostri laureati. Nelle cooperative, invece, si assiste spesso a un vero e proprio sfruttamento degli infermieri, pagati anche 5 euro all'ora e costretti ad accettare simili condizioni pur di non restare disoccupati. È  per questo che la Federazione nell'ultimo anno si è battuta e ha ottenuto l'equo compenso anche per la professione infermieristica ma, nonostante ciò, l'abolizione delle tariffe minime professionali, con la complicità della crisi economica, ha senz'altro agevolato la contrattazione dei compensi al ribasso, determinando una sensibile diminuzione dei redditi professionali». 

Per coloro che preferissero invece proseguire nella formazione, così da buttarsi nel mondo del lavoro con un bagaglio di competenze più ampio, c’è poi la possibilità di intraprendere il corso di laurea magistrale in Scienze infermieristiche, della durata di due anni, o uno dei master di primo livello che «preparano su specifiche problematiche, quali ad esempio cure primarie, critiche o palliative» spiega Palese. Se dunque il proseguimento degli studi non è obbligatorio per l’accesso alla professione, garantito già con il titolo triennale, l’approfondimento dato da un ulteriore step formativo è consigliabile: «vogliamo andare il più velocemente possibile nella direzione di una maggiore specializzazione, come è in medicina» dice Mecugni.

A ben guardare infatti la laurea magistrale, grazie alle competenze fornite, amplia non di poco le possibilità future per i giovani infermieri: «con la magistrale si può accedere a ruoli dirigenziali, di docenza nei corsi di laurea ma anche al dottorato in Scienze infermieristiche, necessario per poter accedere al concorso per ricercatori» evidenzia Mecugni. Anche in termini di retribuzione poi la differenza tra laureati triennali e magistrali si fa sentire: a un anno dal titolo, un laureato triennale guadagna circa 1.308 euro, mentre un magistrale 1.529 euro.

Per chi tuttavia non riuscisse a trovare in Italia la propria strada, è senz’altro da considerare come molti paesi stranieri guardino proprio al nostro paese in cerca di infermieri già formati. Si tratta in particolar modo di Inghilterra, Germania e Irlanda: «In questi paesi i nostri neo-laureati sono davvero molto apprezzati per le loro competenze» osserva Palese; «nella nostra esperienza del corso di studi in infermieristica dell’università di Udine, ad esempio, nel 2016 ha deciso di lavorare come infermiere in Europa il 17% dei laureati, con una netta preferenza per il Regno Unito (92%), ma anche per Svezia (5,4%) e Spagna (2,6%). Nel Regno Unito prevalgono le opportunità lavorative nel settore pubblico (97,1%) con contratti a tempo indeterminato (94,3%)».

Le opportunità per i neo-infermieri dunque ci sono. Ma è bene fare attenzione perché non mancano delle criticità, sia - come visto - nel settore privato, che nel settore pubblico, dove ad ostacolare, e non poco, le assunzioni è ancora il blocco del turn over che «agevola nell’occupazione la libera professione», la quale «rappresenta uno sviluppo e una crescita per l’attività lavorativa» da sostenere però con la «definizione di strumenti professionali e proponendo percorsi legislativi dedicati, che si occupino degli standard economici e di quanto serve per rendere attuativo il neo-normato equo compenso», spiega Mangiacavalli. 
  

A risentire di tali difficoltà sono intanto non solo gli infermieri ma anche la popolazione che, a fronte del crescente livello di non autosufficienza e cronicità, si ritrova con pochi infermieri professionali convenzionati sul territorio ed è quindi costretta a ricorrere ad infermieri “privati”, pagando di tasca propria. Secondo una ricerca Censis, 12,6 milioni di italiani sono ricorsi nel 2016 a infermieri a domicilio, spendendo circa 6,2 miliardi di euro. E uno su due ha pagato in nero, evidenzia la ricerca.

Chi invece si trova economicamente impossibilitato ad affrontare questa spesa si è visto costretto a rivolgersi a “non infermieri”, come parenti e badanti che, intervenendo su casi talvolta clinicamente complessi, «portano inevitabilmente a un aggravarsi della condizione clinica e a un ricorso il più delle volte improprio al pronto soccorso» sottolinea Mangiacavalli. La soluzione? Istituire la figura dell’infermiere convenzionato sul territorio, analoga a quella del medico di medicina generale. Questo è ciò che chiede anche il 53,8% degli italiani, che non smettono infatti di dichiarare la propria fiducia negli infermieri (l’84,7%), apprezzati soprattutto dagli ultrasessantacinquenni (90%).

Tanta fiducia ma anche qualche problema, quindi, che spesso può demotivare gli aspiranti infermieri o far sorgere in loro qualche dubbio. A chiarire le cose può allora subentrare, forse, solo la passione: «Fare l’infermiere dà molta soddisfazione, perché implica un aspetto di grande disponibilità verso l’altro» evidenzia Mecugni. «L’impatto emotivo nella nostra professione è sempre forte e per questo si può scegliere di praticarla solo se si amano gli altri, se si desidera stargli vicino e contribuire a farli stare meglio».

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