Generazione 1000 euro, il regista: «Ragazzi, ricominciate a indignarvi e a lottare per i vostri diritti»

Fabrizio Patti

Fabrizio Patti

Scritto il 05 Mag 2009 in Interviste

Seguire il proprio talento ed essere condannati alla precarietà o forzare la propria natura per un lavoro relativamente sicuro? È probabilmente la domanda chiave per molti neolaureati o laureandi. Ed è quella che, mettendo il dito nella piaga, pone il film Generazione mille euro, da qualche giorno nelle sale (nella foto a destra, Alessandro Tiberi e Carolina Crescentini in una scena).
Al centro del film, tratto dal libro omonimo di Antonio Incorvaia e Alessandro Rimassa, c’è Matteo, trentenne matematico che in attesa di un concorso universitario non truccato lavora in un ufficio marketing senza la minima motivazione. E che a un certo punto è chiamato a una scelta di vita
La Repubblica degli Stagisti ha girato la domanda direttamente al regista, Massimo Venier, già noto per il sodalizio con il trio Aldo, Giovanni e Giacomo.

Chi oggi sta per uscire dall’università probabilmente dovrà scegliere, come il protagonista Matteo, tra un lavoro per cui si sente portato e uno che troverà facilmente. Vale la pena di seguire il talento?
Ovviamente sì. Io penso che il tema non sia tanto quello di seguire il talento, quanto di non uccidere la propria natura. Moltissime persone seguirebbero la prospettiva di un lavoro scintillante in una città altrettanto scintillante, magari tradendo la propria passione, perché pensano che essere adulti voglia dire fare scelte di questo tipo. E io ho molto rispetto per questo tipo di approccio, il film non vuole dare lezioni a nessuno. Ma non a caso il protagonista sceglie di non tradire se stesso. Io dico che se siamo in un’epoca in cui si dice “non puoi permetterti di essere te stesso”, la situazione è molto grave. Dal punto di vista professionale, inoltre, ho il sospetto che paghi di più seguire il proprio talento.
Il mercato del lavoro si è fatto più arduo: crede che la generazione dei neolaureati di oggi sia incapace di accettare i compromessi?

No. Non voglio naturalmente generalizzare, ci sarà pure qualcuno viziato, ma esistono tante altre persone che col compromesso ci nascono. Una gran parte di persone si impedisce persino di pensare alcune cose. Si accettano come normali situazioni per cui bisognerebbe indignarsi, a partire dal nepotismo.  Credo che dire che i ragazzi non sono capaci di accettare dei compromessi sia troppo a favore di qualcuno. Pensare di avere dei diritti è considerata una cosa borghesoccia, da figli di papà. Invece ci sono dei diritti che sono stati conquistati duramente e che stiamo buttando via.
Non ci sono stage in questo film.
Ecco, lo stage è un esempio di come si accettano situazioni ancora meno tutelate. Non ho voluto inserirne nel film perché ho pensato che la scelta del protagonista dovesse essere tra due possibilità lavorative comparabili, e non tra un vero lavoro e uno stage. 
A proposito di scelte, le due giovani donne sembrano avere le idee molto più chiare degli uomini.
Non è un caso. Credo che sia così anche nella vita reale. Ho una stima a prescindere per le donne - per il loro modo di affrontare e risolvere le cose. Se dovessi scegliere di affidare qualcosa a qualcuno, sceglierei una donna.
Non mi sembra neanche casuale la presenza di Paolo Villaggio (nella foto, in una scena del film) nell cast. È un omaggio alla feroce rappresentazione del mondo aziendale che fece con Fantozzi?
Sì, è vero. Visto che stiamo parlando di un grandissimo attore, mi sono stupito che nessuno finora l’abbia osservato. Anche senza i livelli di Fantozzi, nel film raccontiamo la “nuova alienazione”. Il fatto che lui interpreti un personaggio importante è senz’altro una citazione.
L’azienda è rappresentata come una somma di insipienza, pesantezza, perfino sadismo. Non è possibile essere umani?
Qualcuno lo è, diamo comunque una piccola speranza. Dopo i graffi non infieriamo e lasciamo che prevalga l’amore per i personaggi.
Nel film Milano non è solo uno sfondo: è molto protagonista. Questo film si sarebbe potuto girare anche altrove?
Secondo me no. Milano è il luogo dove il fenomeno della precarietà nasce e dove è più forte. È una città poco generosa, dove non esiste più la “solidarietà del quartiere”. Al massimo c’è un controllo sociale. E poi è una città carissima: l’aspetto economico è pesante.
A Milano con mille euro si riesce a vivere?
È difficile, perché la città è organizzata in modo da chiedere soldi ossessivamente, in tutti i modi. Si può vivere con mille euro rinunciando a molto. Per questo una battuta dice che è la prima volta che le persone se ne tornano in Molise. Non è per mancanza di rispetto ai molisani, che hanno frainteso il senso e se la sono presa, ma è perché per la prima volta ci sono giovani che pensano che in provincia si viva meglio.

Fabrizio Patti

 

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