Equo compenso per lavoratori autonomi, le proposte sul tavolo

Chiara Del Priore

Chiara Del Priore

Scritto il 31 Mar 2022 in Approfondimenti

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È un tema aperto da tempo, ma che negli ultimi mesi è ritornato d’attualità. A ottobre dello scorso anno è stata infatti approvata alla Camera una proposta di legge della leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni (i tre firmatari della pdl sono Meloni, Jacopo Morrone della Lega Nord e Andrea Mandelli di Forza Italia) relativa all’equo compenso, dallo scorso 15 febbraio in discussione al Senato, a cui ha fatto seguito la presentazione di alcuni emendamenti. Solo poche settimane fa Acta, l’associazione dei freelance, insieme alle associazioni Autori di Immagini, Art Workers Italia e TradInfo, ha avanzato una seconda proposta “esterna” al Parlamento, alternativa alla prima, che al momento non ha quindi dato avvio a un iter di tipo legislativo.

Cosa si intende

Per equo compenso si intende «la corresponsione di un compenso proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, al contenuto e alle caratteristiche della prestazione professionale». In sostanza un salario minimo che teoricamente dovrebbe valere per ogni professione. La parola compenso, a differenza del termine salario, si utilizza quando ci si riferisce ai lavoratori autonomi. Ma stiamo parlando davvero di tutte i lavoratori? Se per i lavoratori subordinati, il cui rapporto di lavoro è legato a un datore a una tipologia di contratto, appunto, subordinata, esistono i minimi stabiliti dalla contrattazione di riferimento, per i cosiddetti autonomi o freelance la situazione è differente. «In generale, i lavoratori autonomi non sono coperti dalla legislazione sul salario minimo» dice
Stijn Broecke, economista dell’Oecd, che ha condotto un’analisi proprio sul tema, alla  Repubblica degli Stagisti: «La retribuzione minima è di solito espressa su base oraria, mentre i lavoratori autonomi sono di solito pagati in base ai risultati più che al tempo impiegato. Tuttavia, alcuni lavoratori autonomi sono falsamente autonomi. Di conseguenza, non hanno accesso al salario minimo, anche se di fatto ne avrebbero diritto».

Il falso lavoro autonomo non è pero l’unico problema. Alcuni lavoratori sono correttamente classificati come autonomi, ma hanno comunque alcune caratteristiche simili ai dipendenti, come nel caso dei lavoratori vulnerabili, che però da autonomi non sono adeguatamente tutelati. In questi casi, ad esempio, si potrebbe prendere in considerazione l’estensione di questo tipo di tutele, incluso un salario minimo o un tasso minimo per le loro produzioni. Un esempio è New York City, che ha introdotto un salario minimo per i conducenti di ridesharing. Tali schemi hanno maggiori probabilità di successo se considerati (e progettati) su base professionale o settoriale. La contrattazione collettiva può essere uno strumento flessibile per affrontare tali casi, piuttosto che la legislazione purché, ovviamente, questi lavoratori abbiano diritti di contrattazione collettiva».

È inevitabile dunque che al centro del dibattito ci sia soprattutto questa platea di lavoratori. 1 milione e 400mila persone, stando ai dati Istat pre-pandemia, numero che comprende sia i “professionisti ordinisti”, cioè iscritti a un ordine professionale, sia i non ordinisti.

Platea di destinatari

E qui c’è la prima differenza tra le due proposte: se in quella in discussione al Senato l’applicazione del salario minimo si riferisce ai rapporti professionali «aventi a oggetto la prestazione d’opera intellettuale di cui all’articolo 2230 del codice civile», la proposta di Acta riguarda tutti i lavoratori autonomi così come sono definiti dall’articolo 1 della legge 81/2017 e cioè dal cosiddetto Statuto del Lavoro Autonomo.

Tra i firmatari della proposta attualmente in discussione c'è l'onorevole Jacopo Morrone, della Lega Nord: «La Lega ha presentato un emendamento per una ricomprensione più organica nelle previsioni della legge del lavoro autonomo professionale organizzato in forma non ordinistica, attraverso un richiamo all’art. 1 della legge 81/2017» chiarisce
alla Repubblica degli Stagisti.

Il diritto all’equo compenso dovrebbe quindi essere riconosciuto a chiunque eserciti una professione autonoma, sia regolamentata in ordini o albi, sia non regolamentata. In questo caso resterebbero esclusi solo i quei lavoratori la cui attività è configurata come attività di impresa, in linea con quanto previsto in ambito europeo dalla Commissione e dalla Corte di giustizia europea, per le quali la figura del professionista autonomo è equiparata a quella dell'imprenditore e di conseguenza la contrattazione collettiva e la fissazione di parametri sui compensi sarebbero incompatibili con la legge sulla concorrenza.

Committenti

Se in merito alla platea dei destinatari le due proposte presentano indicazioni differenti, sembrano invece concordi rispetto ai committenti, che possono essere aziende con più di 50 dipendenti o più di 10 milioni di euro di fatturato, la pubblica amministratori e, a cascata, i loro fornitori/appaltatori. Si tratta di quelli che sono stati definiti in sintesi committenti «forti». In entrambi i casi l’obiettivo è quello da un lato di tutelare maggiormente il lavoratore autonomo, dall’altro quello di dare vita a un circolo virtuoso che coinvolga aziende e pubblica amministrazione.

«La ratio dell’equo compenso è quella di porre rimedio a situazioni di squilibrio nei rapporti contrattuali tra professionisti e clienti “forti”» ribadisce
Morrone evidenziando le differenze rispetto a quanto previsto attualmente: «Poi nello specifico rispetto alla normativa vigente la proposta amplia l'ambito applicativo della disciplina sull'equo compenso delineando, in relazione alla realtà produttiva italiana, le caratteristiche che deve avere l'impresa per poter essere considerata, rispetto al professionista, un contraente "forte". Attualmente, infatti, l'articolo 13-bis, comma 1, della legge n. 247/2012  stabilisce che la disciplina sull'equo compenso si applichi, oltre che in relazione alle imprese bancarie e assicurative, anche a tutti i rapporti basati su convenzioni tra professionista e impresa diversa dalla micro, piccola e media impresa, come definite dalla raccomandazione della Commissione 2003/361/CE del maggio 2003. In base ai parametri europei la categoria delle microimprese, delle piccole imprese e delle medie imprese è costituita da imprese che occupano meno di 250 persone, il cui fatturato annuo non supera i 50 milioni di euro oppure il cui totale di bilancio annuo non supera i 43 milioni di euro. La proposta di legge fissa invece nuovi limiti, individuando come contraenti “forti” (ai quali pertanto si applica l’equo compenso) anche le imprese con più di 50 lavoratori e 10 milioni di euro di ricavi nell’anno precedente».

Anna Soru, presidente dell’associazione Acta e promotrice della proposta sull’equo compenso, chiarisce questo aspetto un po’ controverso: «L'Unione Europea accetta di non equiparare il lavoro autonomo all'impresa, e quindi di permettere azioni che altrimenti sarebbero sanzionate dall'antitrust, quando è evidente che c'è una disparità nel potere contrattuale tra lavoratore e committente. Per questo almeno in una fase iniziale abbiamo voluto restringere il campo. Tuttavia anche le aziende più piccole sono ricomprese se sono aziende che forniscono la PA o sono subappaltatrici di aziende che forniscono la PA.Un passaggio cruciale, soprattutto in considerazione delle risorse che saranno spese con il Pnrr».

Come stabilire se un compenso è equo

Ma in base a cosa un compenso viene definito equo? La proposta in discussione al Senato fa riferimento a deiparametri specifici per ciascuna professione, quella di Acta specifica che esso debba essere conforme ai parametri fissati per i compensi dei professionisti iscritti agli ordini o ai collegi professionali e a quelli previsti da normativa europea. In ogni caso il salario minimo deve essere «non inferiore alla retribuzione prevista dal Contratto Collettivo di lavoro di settore applicato dall’azienda committente per il prestatore di mansioni analoghe a quelle del professionista con maggiorazione del 20%».

«Nella proposta di legge in esame al Senato si parla di definire dei parametri per ogni professione» nota Soru: «Per le professioni legali ad esempio esistono, ma per la maggior parte delle professioni no. Questo però rischia di essere un lavoro immane. Va bene usare dei parametri se esistono, ma se non ci sono non possiamo aspettare all’infinito. Per questo noi proponiamo di stabilire di fare riferimento ai parametri europei, che non devono essere inferiori rispetto a quelli del contratto collettivo di lavoro ma devono avere una maggiorazione del 20%».

Cosa fare se le disposizioni non sono rispettate

Se il riferimento a questi parametri non dovesse essere rispettato – e un compenso, quindi, non può definirsi equo – il lavoratore, secondo quanto previsto dalla prima proposta, può ricorrere al giudice ordinario. Il testo in discussione al Senato prevede anche l’istituzione di un osservatorio nazionale sull’equo compenso, con il compito di segnalare la violazione di quanto previsto dalla legge di riforma al ministero della Giustizia e di relazionare ogni anno alle Camere i risultati della propria attività di vigilanza. L'osservatorio, nominato per tre anni con decreto del ministro della Giustizia, che lo presiede, dovrebbe essere composto da un rappresentante per ciascuno dei Consigli nazionali degli ordini professionali. Sono previsiti inoltre anche la presenza di membri non ordinistici e l'obbligo di pubblicazione di un report annuale.

La proposta Acta  propone che a decidere sulle controversie non debba essere il tribunale ordinario, ma il Giudice del lavoro, con una modalità quindi più rapida e semplice. «Riteniamo fondamentale che tutte le cause vengono trattate dal tribunale del lavoro e non da quello ordinario» puntualizza Soru «così come previsto dalla prima versione dello statuto del lavoro autonomo».

La situazione in Europa

Attualmente il Parlamento europeo ha approvato una proposta di direttiva sul salario minimo, lasciando però autonomia ai singoli Paesi. Al momento (dati luglio 2020) su 27 stati membri dell’UE, 21 hanno un salario minimo; i restanti sei, tra cui l’Italia, no. Gli importi variano molto:
per un lavoro mensile full time si va dai 2.202 euro del Lussemburgo ai 132 della Bulgaria. «Nel resto dell’Europa non c’è un termine di riferimento, il problema persiste anche in altri Paesi» chiude la presidente di Acta: «Proprio il fatto che quella del lavoro autonomo è un’area così poco coperta da diritti ne ha spiegato in parte la forte crescita negli ultimi anni».

I prossimi passi
Prossimi passi saranno l'esame e l'approvazione degli emendamenti legati alla proposta di legge. «Sono stati proposti diversi emendamenti, una trentina dalla Lega, mutuati dal confronto con gli Ordini e le associazioni di professionisti e, in generale, con il mondo delle libere professioni. Ad esempio, sempre nella direzione di estendere i benefici di questa legge anche ai professionisti non organizzati in Ordini o Collegi, abbiamo proposto di conferire la legittimazione ad adire l’autorità giudiziaria in caso di violazione delle disposizioni vigenti in materia di equo compenso anche alle associazioni di categoria maggiormente rappresentative, anziché limitare questa prerogativa soltanto ai Consigli nazionali degli Ordini o dei Collegi professionali, come invece prevede l’attuale formulazione», conclude Morrone.

Paralellamente Acta, insieme alle altre promotrici della proposta, ha intenzione di continuare a fare rete, andando avanti e facendo tutti i passi necessari affinché l’attenzione sul tema rimanga viva e si possa arrivare a rivedere o integrare quella attualmente in discussione.

Chiara Del Priore

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