I dottorandi non sono lavoratori: per loro niente indennità di disoccupazione

Ilaria Mariotti

Ilaria Mariotti

Scritto il 08 Giu 2015 in Notizie

Estendere la Dis-coll a una platea di 5-6mila dottorandi e assegnisti di ricerca, per un periodo di sei mesi: è quanto chiedono Adi (associazione dottorandi) e Flc Cgil (sindacato dei lavoratori della conoscenza) per la nuova disoccupazione per collaboratori disposta dal Jobs Act. A fine maggio hanno organizzato un sit in di protesta sotto il ministero del Lavoro a Roma: qualche decina di precari dell'università, rappresentati del sindacato e uno striscione con la scritta «È un lavoro, non un hobby», per ricordare al ministro che chi per mestiere studia dentro gli atenei è un lavoratore al pari degli altri. «È un diritto che va riconosciuto per garantire la sussistenza di chi fa ricerca», ricorda alla Repubblica degli Stagisti Alessio Rotisciani di Adi.

«È una questione politica: così facendo il ministro dimostra di non considerare la categoria appartentente al mondo dei lavoratori» gli fa eco Claudia Pratelli di Flc Cgil, convinta che l'esclusione dalla fascia di beneficiari del nuovo sussidio non abbia ragione d'essere: «Incomprensibile lasciare fuori assegnisti, dottorandi e borsisti, negando la dignità del lavoro a circa 60mila persone che rappresentano una delle poche possibilità di rilancio del nostro Paese».

Il decreto
 22 del 4 marzo 2015, sul riordino degli ammortizzatori sociali stabilisce infatti che la cosiddetta Dis-coll abbia come destinatari i «collaboratori coordinati e continuativi, anche a progetto - con esclusione degli amministratori e dei sindaci - iscritti in via esclusiva alla gestione separata presso l’Inps, non pensionati e privi di partita Iva, che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione». Ma come sottolineato sul sito di Adi, assegnisti e dottori di ricerca «hanno l’obbligo di versare contributi previdenziali presso la Gestione separata Inps, pagando un’aliquota contributiva del 30% sul loro reddito annuo». Condizione che li equipara «ai lavoratori parasubordinati», senza contare che «per le peculiari caratteristiche delle attività da loro svolte appaiono pienamente assimilabili ai collaboratori coordinati e continuativi, ovvero a progetto».

Dal punto di vista finanziario, i costi sarebbero contenuti in caso di allargamento dell'indennità. Secondo i calcoli Adi, tarati su un reddito medio netto di mille euro al mese per i dottorandi e di circa 1400 per gli assegnisti di ricerca, l'importo oscillerebbe tra i 700 e i 900 euro mensili, da erogare su sei mensilità. A spanne la somma necessaria per la copertura ammonterebbe a circa 30 milioni di euro: «cifra microscopica per le finanze pubbliche», fa notare Pratelli. Eppure
Poletti sul tema è stato chiaro. Di fronte all'interrogazione parlamentare della deputata Pd Anna Ascani sulla possibile estensione dell'indennità ai lavoratori universitari, il ministro ha spiegato che «assegnisti e ricerca e dottorandi sono iscritti alla Gestione separata per previsione di legge ma non come categoria di lavoratori coordinati e continuativi
».

«La finalità del dottorato
non è quella di eseguire prestazioni lavorative dietro pagamento di un compenso» ha aggiunto Poletti «ma di consentire al beneficiario della borsa di studio di dedicarsi ad attività di studio e di ricerca utili a perfezionare il proprio bagaglio di conoscenze». Non un vero lavoro dunque: ma allora perché far pagare i contributi? Inoltre non bisogna dimenticare che oggi è proprio l'apporto delle figure più precarie a consentire il proseguimento della didattica dentro gli atenei, ormai giunte a coprire un terzo dell'intero organico universitario, con un turn over sempre più all'osso: la Repubblica degli Stagisti ha dedicato al tema vari articoli, da cui emergono i numeri drammatici sulla precarizzazione dei sistema. Si tratta di persone non più giovanissime, quasi tutte over 30. Forse Poletti «pensa che quello della ricerca sia un hobby di massa coltivato da 30-40enni annoiati» si legge ancora nel comunicato.

Eppure per il ministro «la loro situazione non è assimilabile a quella dei collaboratori che svolgono attività in contesto di vero e proprio rapporto di lavoro». Qualche apertura lascia tuttavia ben sperare. «Se si volesse estendere la Dis-coll ci vorrebbero un intervento normativo specifico. Un'ipotesi valutabile solo dopo la verifica degli effetti della misura, al momento sperimentale, e per cui si potrebbe prevedere una proroga». Più o meno analogo il senso dell'incontro il giorno del sit in tra la delegazione di Adi e Flc Cgil e Ugo Menziani, direttore generale presso l'ufficio ammortizzatori sociali, che ha promesso che «la situazione sarà presa in considerazione». Un po' poco,
per ora, ma la battaglia non si ferma.

Su Change.org è in corso la petizione #perchénoino per chiedere il riconoscimento dell'indennità di disoccupazione Dis-coll a dottori di ricerca e assegnisti
, e le firme sono già oltre 7mila. A giugno sono invece in programma nuove giornate di protesta in attesa che dal ministero qualcosa si muova. La questione non è marginale: «Cosa succederebbe se tutti questi 'non lavoratori' smettessero di svolgere le loro attività e di versare i contributi, come andrebbero avanti gli atenei e gli enti di ricerca, come si sosterrebbe il sistema previdenziale?» si chiedono dal sindacato.


Ilaria Mariotti

Community