Se l'università al colloquio non conta più: in Inghilterra Deloitte passa ai curriculum "ciechi". E in Italia?

Sara Grattoggi

Sara Grattoggi

Scritto il 05 Ott 2015 in Notizie

Dimmi da che università vieni e ti dirò che chance hai. Per lungo tempo, nel mondo del lavoro anglosassone, è stato così. Ma ora qualcosa in Gran Bretagna potrebbe cambiare: Deloitte UK, una delle principali aziende al mondo nel campo dei servizi di consulenza e revisione, ha annunciato qualche giorno fa la rivoluzione dei curriculum ciechi, come ha titolato il Corriere della Sera: le prossime assunzioni avverranno con curriculum in cui non saranno indicati il college o la scuola frequentati dai candidati.

Questo per evitare che i selezionatori vengano influenzati troppo dalla nomea dell’università nella valutazione dei singoli e affinché privilegino altri aspetti, a cominciare dalla determinazione. Con il “contextualised recruitment”, i selezionatori avranno, infatti, a disposizione anche informazioni sul background economico e su eventuali situazioni personali particolari, così da poter valutare meglio il percorso e i risultati raggiunti a livello accademico dai candidati. Con l’obiettivo di assumere figure con caratteristiche (anche socio-economiche) diverse e di favorire la mobilità sociale, puntando tutto sul merito.

Questo nel Regno Unito. Ma si tratta di una tendenza che potrebbe fare breccia anche nel nostro Paese? La Repubblica degli Stagisti lo ha chiesto direttamente a Deloitte Italia, e la risposta è no. Quantomeno per ora, da noi non è prevista l’introduzione di un nuovo protocollo “blind”, analogo a quello inglese. Anche se l’ufficio stampa assicura che «Deloitte orienta la sua ricerca di talenti a profili che possano vantare un percorso universitario di comprovato livello, con alte votazioni, in qualsiasi ateneo italiano». L'indicazione dell'università di provenienza dunque continuerà ad essere presente nei cv che verranno valutati dall'ufficio Risorse umane di Deloitte Italia: «Il merito è importante per noi: nel processo di selezione contano molto, oltre alla formazione, le caratteristiche e le attitudini personali. Il candidato ideale deve essere pronto a raccogliere le sfide dell’innovazione, a investire sulla propria crescita professionale, a rapportarsi con i nostri clienti in un’epoca di grandi trasformazioni».

«In Italia non mi risulta ci siano, per ora, casi simili a quello di Deloitte UK» spiega alla Repubblica degli Stagisti
 Francesco Ferrante [nella foto a sinistra], professore di Economia politica alla Luiss di Roma e all’università di Cassino e curatore delle indagini del consorzio interuniversitario AlmaLaurea. Che aggiunge: «Da quanto emerge dalle nostre indagini, le imprese italiane non danno un peso significativo nell’attività di reclutamento all’università di provenienza dei candidati. Preferiscono affidarsi ad altri elementi: le conoscenze che il candidato ha del settore in cui andrà ad operare, le eventuali esperienze di lavoro pregresse, la conoscenza delle lingue e il possesso delle soft skills. Ad esempio, la capacità di adattarsi, di prendere decisioni e di affrontare i problemi con atteggiamento proattivo».

Un’analisi condivisa anche da Roberto Torrini [nella foto a destra], economista del lavoro e direttore dell’Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca: «Negli ultimi anni, molta letteratura ha dimostrato come le variabili non osservabili – come la motivazione o delle skills particolari – contino di più rispetto ai titoli che nel passato. E che i datori di lavoro italiani non tengano particolarmente conto, nella selezione, dell’università frequentata dai candidati. Questo anche perché in Italia la formazione data dalle università è molto più omogenea rispetto a quella dei Paesi anglosassoni».

Nonostante ciò, l'impressione che si possa essere discriminati nelle selezioni di lavoro a seconda dell'ateneo dove si è studiato, e che una laurea alla Bocconi o al Politecnico di Torino valga più di una laurea all'università di di Macerata o del Piemonte orientale, è molto radicata nei giovani italiani.

A fronte di questo, però, c'è un fenomeno per così dire
“uguale e contrario": solitamente chi proviene da atenei meno blasonati può contare però su una manica larga al momento del voto di laurea: e un voto alto diventa un vantaggio nelle selezioni per il pubblico impiego. Perché se gli atenei prestigiosi possono pesare nelle selezioni del personale nel campo privato, nel pubblico invece chi riesce a ottenere un 110 e lode in un'università meno selettiva passa davanti, di diritto, a chi ha studiato in un'università meno incline a erogare voti alti, e dove magari lo stesso studente non avrebbe ottenuto un punteggio così elevato.

Su questa linea di pensiero, l’estate scorsa un emendamento al disegno di legge di riforma della Pubblica amministrazione (subito ritirato, sull’onda delle polemiche e della levata di scudi di rettori, studenti e sindacati) aveva ipotizzato almeno per i concorsi pubblici il “superamento del mero voto minimo di laurea quale requisito per l’accesso ai concorsi e possibilità di valutarlo in rapporto a fattori inerenti all’istituzione che lo ha assegnato e al voto medio di classi omogenee di studenti”.

L’ipotesi era, cioè, quella di “pesare” il voto di laurea a seconda dell’ateneo in cui era stato conseguito.
Portando, di fatto, a attribuire un valore diverso alle varie università e ai titoli da loro rilasciati (più basso se le medie di un ateneo erano molto alte e viceversa). Una proposta di segno opposto rispetto ai “cv ciechi”. I cui «forti limiti» erano stati posti in luce anche da AlmaLaurea perché «
posto che si ritenga opportuno intervenire, anche se appaiono esservi differenze nei metri di giudizio tra diverse realtà universitarie, sarebbe molto complicato sul piano metodologico procedere alla pesatura dei voti» sostiene Ferrante: «Qualunque soluzione darebbe luogo a una valanga di ricorsi con elevata probabilità di successo».

La senatrice Francesca Puglisi [nella foto a sinistra],  responsabile Scuola, università e ricerca del Partitodemocratico, nega però che l’obiettivo dell’emendamento presentato dal dem Marco Meloni fosse quello di arrivare a una “graduatoria” delle università: «Il testo dell’emendamento era stato modificato rispetto alla formulazione originaria, che voleva solo eliminare la discriminazione del voto minimo di laurea per accedere a alcuni concorsi. E, se non si può negare che esistano differenze fra le nostre università, queste non sono forse così marcate come nel Regno Unito, ognuna fa didattica e ricerca. I nostri sistemi sono diversi e non raffrontabili. Quello che dobbiamo cercare di fare adesso è sostenere la qualità dei nostri atenei continuando su una strada di rigorosa valutazione, ma allo stesso tempo eliminando quei vincoli che restringono le maglie dell’autonomia».

Sara Grattoggi


Community