Contratti e occupazione, come evitare di «dare i numeri»

Chiara Del Priore

Chiara Del Priore

Scritto il 22 Nov 2015 in Approfondimenti

Disoccupazione

«Le parole sono importanti», diceva Nanni Moretti. Anche le cifre, sarebbe doveroso aggiungere. A quanto pare però questa precisazione è sfuggita a qualcuno. In molti ricorderanno i dati diffusi a fine estate dal ministero del Lavoro, che aveva parlato di oltre 630mila nuovi assunti a tempo indeterminato tra gennaio e luglio 2015, salvo poi correggere il tiro e arrivare a 327mila. Non si tratta dell’unico «errore» ammesso da Palazzo Chigi sui risultati del Jobs Act: molta confusione si è creata anche su collaborazioni e apprendistato. E non è certo un problema nato col governo Renzi: più o meno ciclicamente scoppia qualche bufera sui numeri, soprattutto relativi al tema dell'occupazione. E leggendo giornali e documenti non è raro imbattersi in una vera e propria «selva» di numeri: valori assoluti, percentuali, confronti tra semestri e anni, che non sempre «tornano».

La Repubblica degli Stagisti ha provato a capire quali possono essere le cause di queste discrepanze e quali dovrebbero essere i criteri giusti per raccogliere, spiegare e interpretare i dati sul lavoro. Giuseppe Roma, 66 anni, direttore generale della Fondazione Censis, suggerisce di partire dalle diversità tra le fonti: «Innanzitutto per valutare l’andamento dell’occupazione bisogna capire le differenze fra le due principali fonti di dati: ministero del Lavoro e Inps da una parte, Istat dall'altra. I dati del ministero registrano le comunicazioni obbligatorie che il datore di lavoro deve effettuare quando assume o quando si conclude un rapporto di lavoro. Si riferiscono al flusso e non contabilizzano le teste, cioè i lavoratori. Inoltre riguardano il solo lavoro dipendente. Userei con molta cautela questi dati. La rilevazione Istat, invece, è quella più attendibile, soprattutto il dato trimestrale. In questo caso si tratta di un’indagine su un campione di 65mila famiglie (legali o di fatto), residenti in circa 1.300 comuni. Questo campione viene articolato, da più di dieci anni, su base mensile rendendo anche possibile così la disponibilità di dati mese per mese. La rilevazione viene effettuata con la stessa metodologia in tutti i  paesi dell’Unione Europea. Considero i dai trimestrali Istat quelli più attendibili».

Una prima discriminante deve quindi essere fatta guardando la fonte dei dati e tenendo ben fermi nella mente i differenti criteri alla base dei rispettivi conteggi: ministero/Inps registrano i dati sui contratti dei dipendenti, l’Istat sulle persone. Nel calcolo dei nuovi contratti attivati è bene però non perdere di vista un altro aspetto: la differenza tra contratti attivati e contratti cessati, che restituisce il valore «autentico» sull’effettivo aumento di occupazione. 

Un altro elemento importante è la forma con cui il dato numerico è presentato, cioè valore assoluto o percentuale: «Le regole per non creare confusione sono precise, anche se presentano qualche complessità.  Consiglierei a tal fine di usare i valori assoluti in modo da valutare più correttamente le variazioni. I dati in percentuale spesso vengono interpretati in modo non corretto. Il tasso di disoccupazione è quello che crea maggiore confusione. Non si tratta della percentuale dei disoccupati sulla popolazione. Quel 44% di disoccupazione giovanile, ad esempio, non vuol dire che ci sono 44 disoccupati ogni 100 giovani fra 15 e 24 anni, ma ogni 100 giovani di quell’età presenti nel mercato del lavoro come occupati o come persone alla ricerca di un lavoro. Se usiamo di più i valori assoluti controlleremo meglio le variazioni nel tempo», spiega Roma alla Repubblica degli Stagisti.

Altro errore frequente l’utilizzo di dati non «destagionalizzati»: vengono messi a confronto dati  di periodi differenti (ad esempio dicembre 2014 con un altro mese di anni precedenti). È importante invece mettere a confronto dati gli stessi mesi o comunque periodi privi dell’effetto «stagionalità».

Calando queste indicazioni nella realtà si ottengono delle evidenze ben concrete: «Se analizziamo i dati degli ultimi quattro anni, ad esempio, notiamo che quasi tutta la riduzione degli occupati si registra nel lavoro autonomo e non in quello dipendente
» rileva Roma: «Inoltre, l’industria à stabile, i servizi aumentano mentre il crollo occupazionale si è registrato nelle costruzioni. Infine, il lavoro diminuisce nel Mezzogiorno, mentre è aumentato nel Centro Nord, anche se di poco».

stage lavoro censisDi chi è la responsabilità della corretta diffusione di queste informazioni? I giornalisti non sono esenti da colpe: secondo il direttore del Censis «da cronisti si trasformano in opinionisti e persino in analisti, rinunciando alla fondamentale funzione di utilizzare gli esperti». Ma anche la politica fa spessissimo un uso strumentale dei dati: «Mi rendo conto che nel gioco mediatico e politico si abbia l’ansia di usare i dati per dimostrare che le cose vanno bene o al contrario che tutto va sempre male. Ma i dati ci devono aiutare a capire, bisogna interpretarli con correttezza. E soprattutto non bisogna dare giudizi affrettati. Ci si guadagna in affidabilità», conclude.

Le cifre insomma non vanno solo raccolte e scritte, ma anche e soprattutto interpretate e contestualizzate seguendo criteri ben precisi per evitare di fare errori. E di veicolare al grande pubblico informazioni imprecise, o addirittura fuorvianti.
 
Chiara Del Priore

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