«Ero alla ricerca di nuovi stimoli, in Belgio con lo Sve ho abbandonato la mia comfort zone»

Giada Scotto

Giada Scotto

Scritto il 29 Ott 2017 in Storie

#buone opportunità #esperienza all'estero #servizio volontario europeo

La Repubblica degli Stagisti prosegue la rubrica sullo Sve, con l'obiettivo di raccogliere e far conoscere le esperienze dei giovani che hanno svolto il Servizio volontario europeo, una particolare - e ancora poca conosciuta - opportunità offerta dal programma europeo Erasmus+ ai giovani tra i 17 e i 30 anni. Grazie allo Sve, che copre i costi di viaggio, vitto, alloggio e garantisce un “pocket money” mensile per le spese personali, è possibile svolgere un'attività di volontariato, per un periodo dai 2 ai 12 mesi, in uno dei Paesi dell’Unione europea o in altri Paesi del mondo che hanno aderito al programma. Sono molti i settori nei quali i giovani possono impegnarsi: arte, sport, ambiente, cultura, assistenza sociale, comunicazione, cooperazione allo sviluppo e altri ancora. Per partire - dopo essersi candidati al progetto - è necessario avere un’organizzazione di invio in Italia (sending organization) e una di accoglienza nel Paese ospitante (hosting organization). Per avere maggiori informazioni sul Servizio volontario europeo, consigliamo di leggere la sezione dedicata dell’Agenzia nazionale per i giovani. Ecco la storia di Fabiola Carella.

Ho 24 anni, sono marchigiana e, se dovessi descrivermi, direi che ho sempre avuto una particolare passione per le lingue e l’«internazionalità» che sto, pian piano, cercando di sviluppare. Mi piacerebbe infatti lavorare nel settore del marketing internazionale e, per questo motivo, ho appena iniziato un master in brand management con cui spero di approfondire le mie competenze teoriche e pratiche nel settore per poter, in futuro, coordinare un progetto tutto mio collaborando con persone di differenti nazionalità. Ma il mio interesse per l’interculturalità viene da più lontano: già al momento di scegliere l’università mi sono infatti indirizzata verso il corso di studi in Lingue, mercati e culture dell’Asia dell’università di Bologna, dove ho avuto l’opportunità di studiare il cinese e di approfondire la conoscenza di inglese e portoghese.

Durante e dopo l’università ho fatto varie esperienze di studio e lavoro all’estero, a cominciare dall’Erasmus di un anno in Irlanda, presso l’università di Cork, per passare poi, dopo uno stage di tre mesi – senza rimborso spese purtroppo! – presso una catena alberghiera di Bologna, allo Sve in Belgio, che ho deciso di intraprendere non appena conclusa la triennale. Volevo mettermi in gioco con un’esperienza all’estero che andasse oltre lo studio universitario e, dopo essermi informata tramite internet e amici che lo avevano già fatto, ho inviato la candidatura per un progetto che aveva come sending organization la Joint di Milano e come hosting organization la Afs belgium flanders.

Appena saputo di esser stata accettata, sono partita per questa nuova avventura che si sarebbe svolta in una piccola cittadina a quindici minuti da Anversa, la capitale delle Fiandre. Dopo aver passato i primi cinque giorni in ostello a Bruxelles per svolgere un training e una serie di workshop preparatori insieme agli altri volontari, sono stata ospitata da una famiglia composta da madre, padre e tre bambini, con cui, nonostante le prime difficoltà di adattamento, posso dire di non aver mai avuto problemi, essendo stata accolta come parte integrante del nucleo familiare. L’idea di ospitarmi, come mi hanno raccontato loro stessi, è venuta dai genitori, i quali volevano offrire ai loro figli la possibilità di sperimentare la convivenza con una persona proveniente da un altro contesto socio-culturale, così da spronarli a fare lo stesso tipo di esperienza una volta raggiunta la giusta età; ma la decisione finale è stata approvata da tutta la famiglia prima di essere, per così dire, “ufficializzata”.

Il mio Sve prevedeva un lavoro di supervisione delle attività didattiche e ricreative dei bambini di un asilo di una scuola steineriana, grazie al quale ho avuto la possibilità di conoscere le modalità attraverso cui questo approccio pedagogico viene applicato formalmente in ambito scolastico. La più grande barriera che ho incontrato inizialmente è stata quella linguistica, che sono tuttavia riuscita a superare nel corso dei primi due mesi grazie all’ausilio di una piattaforma di studio online e all’aiuto della famiglia. Tornando indietro, però, inizierei lo studio dell’olandese già prima di partire. Devo dire che anche adattarsi alla vita in famiglia non è stato facile: mi mancavano i miei spazi e, in alcuni casi, avrei preferito risolvere alcune questioni in maniera autonoma piuttosto che con l’intervento della famiglia stessa. Tuttavia ho sempre avuto la fortuna di potermi confrontare con gli altri volontari e con la mia hosting organization, che ha cercato di offrirci tutta l’assistenza necessaria al proseguimento di quest’esperienza con motivazione e costanza.

Per quanto riguarda l’aspetto economico ho ottenuto, pur avendo anticipato tutte le spese, il rimborso sia dei costi di viaggio che di quelli di trasporto – da e per il lavoro – mentre non ho avuto contributi extra per il vitto e per l’alloggio in quanto erano in famiglia. Ho percepito poi un pocket money mensile di 110 euro con il quale sono riuscita a viaggiare, visitare musei e partecipare a diverse attività ricreative che mi hanno permesso di scoprire qualcosa in più sulla cultura del posto, a cui si sono aggiunti le giornate e i weekend in vari località delle Fiandre organizzati dalla mia hosting organization al fine di favorire le relazioni tra i volontari e seguire in maniera diretta le nostre esperienze.

Per questo mi sento di dire che, con il contributo economico che si riceve, è assolutamente possibile mantenersi anche se, personalmente, ho utilizzato anche parte dei miei risparmi.

Una volta terminato lo Sve ho deciso di rimanere all’estero, avendo trovato molto facilmente un impiego in Olanda come assistente agli acquisti per un’azienda locale che importa dall’Italia. Non era un lavoro che aveva molto in comune con la mia esperienza Sve, ma volevo cogliere l’occasione per approfondire la conoscenza della lingua e della cultura olandese, fare un’esperienza lavorativa remunerata e mettermi ulteriormente in gioco in un diverso contesto socio-culturale. Inizialmente mi è stato fatto un contratto di quattro mesi, poi prorogato per altri sei mesi, al termine dei quali ho però deciso di lasciare perché, sebbene mi fossero affidati progetti da seguire in maniera autonoma e ricevessi una retribuzione tale da potermi permettere una totale indipendenza economica, non vedevo molte possibilità di crescita all’interno dell’azienda e ciò si è tradotto in mancanza di motivazione.

Per questo ho scelto di tornare in Italia e svolgere qui il master in brand management grazie anche ai soldi che ero riuscita a mettere da parte durante i dieci mesi in Olanda. Lì, contrariamente a quanto accade in Italia, i giovani sono spinti dai genitori e dal governo a rendersi economicamente autonomi il prima possibile: ogni studente lavora nel weekend e di sera e vi sono anche incentivi che permettono, a chi non supera un certo reddito, di pagare l’affitto, le tasse universitarie e l’assicurazione sanitaria. Anche gli stage, poi, prevedono quasi tutti un compenso.

Se l’esperienza in Olanda mi ha dunque dato tanto, la stessa cosa vale per lo Sve, grazie al quale ho sviluppato una serie di competenze che non avrei altrimenti mai acquisito con tale velocità: in primis la capacità di adattamento che deriva dall’abbandonare la propria comfort zone e l’imparare a coltivare passioni e interessi che non avevo mai avuto modo di approfondire per mancanza di tempo o perché troppo presa dal raggiungere obiettivi di studio e lavoro. Inoltre ho potuto confrontarmi a 360 gradi con una cultura e un ambiente sociale, lavorativo e familiare diversi e stimolanti sia dal punto di vista personale che da quello professionale.

Partire alla ricerca di nuovi stimoli è infatti proprio una delle ragioni per cui vale la pena fare uno Sve, indipendentemente dal fatto che questo rientri o meno nella propria area di competenze. Quello che consiglio è di abbandonare la concezione del “lavorare per essere pagati” o per “conseguire esperienze tali da fare curriculum” e concentrarsi su se stessi per approfondire nuovi interessi, sviluppare nuove capacità e conoscere differenti culture con cui potersi confrontare attivamente.

Testo raccolto da Giada Scotto

 

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