Fare il giornalista: meglio o peggio che lavorare?

Silvia Colangeli

Silvia Colangeli

Scritto il 19 Apr 2015 in Approfondimenti

«Vuoi fare il giornalista? Non farlo». La prima provocazione sta nel titolo del dibattito: uno dei 279 previsti dal calendario del Festival del giornalismo, che negli ultimi cinque giorni ha attirato a Perugia decine di migliaia di spettatori. I problemi della professione sono tornati al centro anche nell'edizione 2015, che proprio oggi chiude i battenti.

Soprattutto ragazzi, quotidianamente alle prese con Ia valutazione dei costi-opportunità legati al “mestiere più bello del mondo”, hanno affollato giovedì la Sala del Dottorato per capire come fosse possibile che a un festival del giornalismo un panel suggerisse... di non fare i giornalisti. E si sono trovati di fronte cinque relatori suddivisi in due fazioni: a sostenere che, nonostante tutto, ne vale ancora la pena il condirettore di Repubblica Giuseppe Smorto, la praticante Chiara Baldi e il giovane videomaker Max Brodo; meno ottimiste la giornalista e scrittrice Caterina Soffici e l'imprenditrice, giornalista e scrittrice Giovanna Zucconi.

«Il giornalismo è come il calcio: i più bravi alla fine ce la fanno». Questa è la metafora utilizzata da Smorto,
 che ha ribadito l’importanza della professione nella società attuale e ha messo in evidenza che la difficoltà dei giovani nell'accesso al mercato del lavoro è diffusa non solo nel settore del giornalismo: «C’è una forbice generazionale tra garantiti e non che dal mondo del giornalismo si estende a tutte le professioni». Dunque i giovani aspiranti giornalisti ce l'hanno dura, è vero, ma non più dei colleghi aspiranti architetti, o insegnanti, o avvocati. E chi la dura, in qualsiasi campo, secondo Smorto la vince.

Smorza l’ottimismo del collega Caterina Soffici, dal 2010 expat a Londra da dove scrive come freelance di cultura e attualità per Il Fatto Quotidiano, l’inserto culturale del Sole 24 Ore e il settimanale Vanity Fair: «I più bravi vengono premiati, ma bisogna vedere se sopravvivono. Io credo che ancora esista ancora il buon giornalismo, ma vi posso elencare tanti motivi per cui oggi non vale la pena farlo
». Sottolineando l'aspetto più prosaico - e più spesso tenuto sottotraccia, come fosse motivo di vergogna - della querelle sul "diritto di cittadinanza" del lavoro gratuito:  «Con la visibilità che molti ottengono lavorando per anni gratis non si pagano le bollette o il macellaio».

Anche Giovanna Zucconi è convinta che oggi non si possa vivere soltanto di giornalismo
. Per spiegarlo paragona la condizione della sua generazione con quella dei più giovani: «Non discutiamo la bellezza della professione, ma c’è un cambiamento epocale che riguarda voi ragazzi: anche a me e Caterina è capitato di scrivere gratis, abbiamo  passato mesi a correggere bozze o a leggere giornali stranieri al posto dei redattori, ma lo abbiamo fatto sapendo che prima o poi sarebbe arrivata la stabilità
». Cioè l'agognata assunzione, lo stipendio sicuro alla fine del mese, la protezione in caso di malattia o maternità. In una parola, la stabilità: «Oggi non potete avere questa certezza. E lo sfruttamento avviene in organizzazioni che spesso si ergono a moralizzatrici sociali e invece pagano 6 euro i giovani, garantendo personale che forse non merita più quel trattamento».

Lo sa bene Chiara Baldi, 28 anni, allieva della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi”
, commossa nel raccontare la sua esperienza: «Nel 2012 è terminata la mia tesi specialistica sul mondo del giornalismo precario: quell’anno su 112mila iscritti all’albo, la metà era freelance. Oggi sono aumentati ancora. In questi anni ho lavorato per molti uffici stampa, per Adn Kronos, Asca e l’Espresso online. Poi ho vinto un premio dedicato a Walter Tobagi per un pezzo sulla libertà di stampa in Italia
». Un premio ricevuto proprio a Perugia, nell'edizione 2013 del Festival: «Non ho mai accettato di lavorare gratis, ma per terminare il praticantato sono costretta a pagarmi la Scuola di giornalismo. E nonostante le difficoltà non ho mai pensato di abbandonare il mio sogno. E' paradossale, ma secondo me questa è l'età d'oro del giornalismo».

Ne è convinto anche Max Brodo, 23 anni: di fronte a prospettive concrete come enologo, ha deciso di puntare sulla carriera giornalistica. Ora collabora con Il Fatto Quotidiano. Con un pizzico di realismo, il giovane videomaker spezza una lancia a favore della visibilità a costo zero: «Non lavorerei gratis per tutta la vita, ma sfido chiunque dei ragazzi presenti a dire di no alla proposta di uno stage di sei mesi gratis al Corriere o Repubblica. I costi delle Scuole sono molto alti e lo stage è uno strumento che permette di accedere alle redazioni anche a chi non può investire migliaia di euro».

Molti gli interventi degli indecisi in cerca di risposte: «Siamo nella "terra di mezzo" della professione, ci dicono che se terminiamo il praticantato non ci assumeranno perché costiamo troppo. Che cosa dobbiamo fare?» A porre questa domanda, uno degli ex redattori de L’Ora della Calabria cassintegrato dopo la chiusura della testata, alla fine di aprile 2014.

Ma insomma, vale ancora l'affermazione della storica penna Luigi Barzini junior - «Fare il giornalista è sempre meglio che lavorare» - oppure bisogna dar retta alla parafrasi proposta da Caterina Soffici: «Fare il giornalista oggi è peggio che lavorare»?
Il match non lo ha vinto nessuno: zero a zero, giornalismo al centro, e ciascuno può dare la sua risposta - scegliendo di pretendere un pagamento dignitoso per ogni suo lavoro, oppure accettando condizioni capestro o addirittura gratis.

Silvia Colangeli

(foto di Isabella Borrelli)

Community