«Allarme, con meno tirocini i giovani restano disoccupati, sarà un dramma per l'occupazione». Ma non è vero: ecco perchè

Eleonora Voltolina

Eleonora Voltolina

Scritto il 30 Ago 2011 in Editoriali

È apparsa l'altroieri sul quotidiano Sole 24 Ore, nella pagina dei commenti, una presa di posizione di Alessandro De Nicola sulla manovra ferragostana del governo, e in particolare sull'articolo 11 che introduce nuovi paletti per l’utilizzo dello strumento del tirocinio. stageDe Nicola, avvocato e docente universitario, è una penna autorevole e tra le altre cose è presidente della Adam Smith Society. Il succo del suo intervento è che il giro di vite sugli stage, che prevede un dimezzamento della durata massima per tutti quelli non curriculari (portandola da dodici mesi a sei) e uno sfoltimento della platea dei potenziali stagisti (escludendo, salvo poche eccezioni, tutti coloro che abbiano conseguito il diploma o la laurea da più di un anno), avrà conseguenze drammatiche sull'occupazione giovanile.
Dato che da anni su questo sito ci si occupa proprio di questo tema - accompagnando i giovani a scegliere gli stage più efficaci e a riconoscere le imprese virtuose, sostenendoli nelle difficoltà e denunciando i casi in cui imprese private ed enti pubblici si approfittano dello stage per poter disporre di personale a basso costo - è giusto esprimere la posizione della testata.
Nell'articolo si afferma che il legislatore limita la possibilità di svolgere tirocini senza rendersi conto che «l'alternativa non è tra uno stage di dodici mesi ed uno di sei mesi e poi l'assunzione, ma semplicemente tra un tirocinio più lungo ed uno più breve o nessun tirocinio». La
Repubblica degli Stagisti è fortemente convinta che ciò non sia vero. E per un semplice motivo: le imprese hanno business da mandare avanti. Hanno progetti, consegne, clienti, commesse. Hanno uffici da aprire ogni mattina e chiudere ogni sera. Hanno bisogno dei giovani.
Fino a che la flessibilità non è esistita, lo hanno fatto con un binomio: o contratto di lavoro a tempo indeterminato, o nero. Non era un bel mercato, ne conveniamo. Poi è arrivata la flessibilità, purtroppo fatta male, con leggi fatte male, senza ammortizzatori sociali, con un sindacato-struzzo che ha lavorato solo per mettere al riparo chi aveva già un contratto, scaricando tutte le criticità su chi ancora doveva entrare nel mercato del lavoro. Il pacchetto Treu, tra le altre cose, a cavallo tra il 1997 e il 1998 ha formalizzato i tirocini, dando loro una cornice normativa. Da quel momento in poi i datori di lavoro hanno avuto la possibilità di accogliere persone in stage, con limiti blandissimi e controlli inesistenti. Molto velocemente ne hanno capito i vantaggi: nessuna sanzione prevista in caso di violazione, tanti giovani entusiasti e speranzosi, tante braccia e tanti cervelli svincolati da ogni contratto nazionale, privi di tutela sindacale, e per di più con la bella facciata della sono-così-generoso-che-ti-offro-una-formazione-e-guai-a-chiamarla-lavoro.
Tornando al punto. Le aziende oggi come ieri come domani attuano un naturale turn-over, alimentato da chi va in pensione, chi dà le dimissioni, chi cambia lavoro, chi disgraziatamente si ammala o fortunatamente mette al mondo un figlio. E in questo turn-over un ruolo chiave ce l'hanno sempre avuto i giovani. Da una parte perché, in ragione dell’inesperienza e dell’assenza di anzianità, possono essere pagati di meno. Dall'altra perchè hanno competenze che i vecchi non hanno, specialmente in quest'epoca di impetuosa evoluzione tecnologica. Per far imparare un giornalista 50enne a scattare, ritagliare, caricare su un sito la foto di un evento, aggiungerla al pezzo e pubblicare, può passare anche un mese. A un ventenne non serve nemmeno spiegarlo: è lui che al limite ti spiega che guarda, così si può anche modificarla, vedi che questo effetto la migliora, e poi vuoi che ci aggiungiamo una didascalia? E il video dell’evento, non lo mettiamo?
Quindi: le aziende hanno avuto, hanno e avranno sempre bisogno di giovani. Limitando il bacino dei potenziali stagisti non si limita la possibilità per i giovani di trovare un lavoro: perché l'agenzia pubblicitaria avrà sempre lo spot da consegnare entro la prossima settimana, la casa editrice le bozze da mandare in tipografia alla fine del mese, l'agenzia di consulenza la consegna urgente del report, e il reparto marketing della multinazionale dovrà presentare il business plan per la riunione semestrale. I negozi avranno il surplus di lavoro natalizio, gli alberghi e i ristoranti le stagioni turistiche. Il lavoro c'è e andrà sbrigato da qualcuno: per questo c’è letteralmente sete di giovani.
L’unico effetto che questa norma avrà se resterà in vigore - e non verrà falcidiata o depotenziata con il passaggio in aula – sarà quello di far avvizzire, meglio tardi che mai!, quello che molti datori di lavoro pubblici e privati con pochi scrupoli hanno considerato l'albero della cuccagna. D'ora in poi, con i nuovi paletti, il numero degli stage non potrà che essere inferiore agli anni passati. E a quel punto si apriranno molte opportunità di lavoro vero, in primis attraverso i contratti di apprendistato. L’alternativa, parafrasando De Nicola, è tra mille stage che fino ai ieri potevano arrivare fino all'abnorme durata di dodici mesi, e di cui solo il 10-12% (uno su dieci!) portava a un contratto di lavoro, e cento stage da massimo sei mesi, a cui magari seguirà qualche assunzione in più. E a cui si andrà ad aggiungere l’attivazione di duecento, o trecento, o addirittura novecento contratti veri. Senza contare, attenzione, che gli stage di dodici mesi non saranno affatto vietati del tutto: quelli curriculari potranno continuare a durare anche così tanto.
Il mercato è stato drogato, negli ultimi 15 anni, dalla gratuità del lavoro giovanile, essenzialmente attraverso l'attivazione di migliaia e migliaia di stage che invece sarebbe stato più corretto formalizzare come contratti di lavoro. È ora e tempo di darci un taglio.

Eleonora Voltolina

Per saperne di più su questo argomento, leggi anche:
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