Rivoluzione digitale: i tre nodi che vengono al pettine

Marta Latini

Marta Latini

Scritto il 06 Set 2013 in Articolo 36

Senza ombra di dubbio la crisi non ha risparmiato neppure il mercato delle comunicazioni. Nel 2012 la diminuzione più marcata dei ricavi si è avuta nel settore delle TLC con un bilancio di 2,6 miliardi in meno rispetto al 2011 mentre la flessione più consistente ha colpito i media, ovvero radio-tv, editoria e Internet, con una perdita di fatturato di 1,4 miliardi di euro e un tasso di decrescita pari all’8%. Infine anche per i servizi postali l’anno scorso si è chiuso con una contrazione superiore al 2%. Questi sono i dati della relazione annuale dell’Agcom (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni), presentata ai primi di luglio, che hanno più impressionato.
La difficoltà del settore, a fronte della recessione generale, è ovviamente preoccupante ma non coglie certo di sorpresa. L’aspetto più interessante riguarda invece, ancora una volta, il web e la sua presenza pervasiva, registrata dal rapporto, in tutti i comparti del macrosettore. Ciò che colpisce ancora di più è quanto dichiara con fiducia l’Agcom in merito all’impatto economico di Internet: «Quello che oggi è visto come fattore di crisi dell’economia dei media tradizionali e delle telecomunicazioni può, anche con il contributo di un’adeguata regolazione incentivante, rappresentare l’effettivo motore di sviluppo dell’intero settore». Gli esiti finali dell’indagine sono un punto di partenza, e consegnano diversi spunti di riflessione per mettere sotto la lente d’ingrandimento il fenomeno e considerare i suoi effetti più importanti: la “rivoluzione digitale” del mondo della comunicazione è una prospettiva per la crescita del settore ma sembra porre almeno tre ordini principali di problematiche da affrontare.
La prima riguarda il mondo della stampa e dell’editoria. Questi sono i settori che più degli altri, secondo Agcom, sono stati cambiati dalla rete nella modalità della diffusione delle notizie, con la nascita di nuove applicazioni che propongono contenuti informativi e di testate giornalistiche esclusivamente online, a cui si adeguano anche le riviste cartacee con la propria versione sul web.
L’editoria digitale è in espansione certo, ma l’informazione stenta a trovare adeguate forme di monetizzazione che possano aiutarla a sostenere il declino: la pubblicità in Internet è così appetibile che solo nell’ultimo anno si calcola un incremento del fatturato pari al 10% ma questo non è sufficiente a poter tenere in vita intere testate e a pagare i giornalisti.

«Cresce molto, come noto, l’adv online ma la sua forma, che si limita a banner e spot prima dei video, è assolutamente inadatta ed inefficace» spiega Pier Luca Santoro, esperto di marketing e comunicazione, collaboratore dell’Ejo (European journalism observatory) e autore, dal 2008, del blog Il Giornalaio: «La pubblicità online non è, e mai sarà, risorsa sufficiente per l’editoria. Il vecchio binomio vendite-pubblicità è sorpassato e vanno ricercate nuove forme di ricavo specifiche per ciascuna testata. Non esiste più un modello di ricavi unico». Occorre dunque incentivare la crescita del settore trovando nuove misure e nuove soluzioni per alimentare l’organizzazione che sta dietro a ciascuna offerta d’informazione.
La seconda questione chiama in causa i “comunicatori professionali”: tra questi, con l’avvento della rete, si sono aggiunti nuovi soggetti con competenze specialistiche che necessitano di un riconoscimento adeguato. In Italia è stato già fatto qualche importante passo in avanti per quanto riguarda la categoria in generale: lo scorso gennaio è stata pubblicata la legge 4/13 sulle professioni non organizzate in ordini o collegi e all’inizio di marzo è entrata in vigore la norma Uni (Ente nazionale italiano di unificazione) che definisce i vari profili del comunicatore professionale, alcuni dei quali operanti sul web, come il comunicatore testuale (blogger, technical writer, ghost writer..) e il comunicatore tecnologico (amministratore di rete, web analyst..). «Quando è stata pubblicata la legge, il gruppo di lavoro, costituito da AssoProCom presso Uni, aveva già redatto il testo della norma» racconta ad Articolo 36 Sabina Addamiano, presidente del comitato tecnico-scientifico di AssoProCom, l’associazione professionale dei comunicatori, nata nel 2010 per promuovere l’affermazione della comunicazione nelle istituzioni pubbliche e negli enti economici. «La numerosità e varietà dei profili e dei compiti degli operatori della comunicazione ha reso sinora estremamente difficile una loro mappatura, che l’applicazione della legge e della norma Uni dovrebbero facilitare» aggiunge Addamiano: «A questa mappatura si lega la messa a punto dei meccanismi di tutela contrattuale, retributiva e previdenziale, che pure dovranno svilupparsi».
La norma dà un contributo rilevante ma ci vorrà probabilmente molto tempo perché possa essere recepita, per diverse ragioni: per esempio, «la convinzione diffusa che comunicare sia facile, e che tutti siamo in grado di farlo. Questo è vero, ma non per la comunicazione che deve costruire e diffondere il valore creato dalle organizzazioni: qui c’è bisogno di conoscenze, competenze e abilità» puntualizza Federico Fioravanti, vice presidente di AssoProCom.
Infine, la terza e ultima questione riguarda il presente e soprattutto il futuro. Il testo dell’Agcom è molto netto: «Il processo di digitalizzazione dell’economia è pertanto un fattore centrale per la crescita e la ripresa anche del nostro Paese, dove però si continua a registrare un ritardo nell’affermazione dell’economia digitale rispetto al resto del mondo». E aggiunge «In soli due anni si è registrata una crescita pari a 3,4 milioni di persone che giornalmente si collegano al web, numeri che comunque si collocano ancora in ritardo rispetto al resto d’Europa».
Dunque il punto è che alla diffusione di Internet non si accompagna una risposta adeguata in termini di provvedimenti. Elisa Manna, responsabile politiche culturali del Censis e fra i promotori dell’iniziativa Alleanza per Internet, ribadisce questa urgenza ad Articolo 36: «Le nuove reti stentano a svilupparsi, in Italia ancor più che in Europa. È ormai improcrastinabile creare un ambiente favorevole allo sviluppo delle infrastrutture e alla diversificazione del mix di utilizzo delle tecnologie. Ne va del mantenimento di posizioni, ma anche della creazione di nuovi posti di lavoro, un'opzione che diventa ormai necessità».
L’Italia è in ritardo ma dovrà fare comunque i conti con il perseguimento degli obiettivi di crescita definiti dalla strategia "Europa 2020", anche se il percorso si prospetta tutt’altro che pacifico. L’articolo 10 del decreto del fare prevedeva la liberalizzazione del wi-fi ma con l’obbligo di garantire la tracciabilità mediante l'identificativo del dispositivo utilizzato: in seguito alle numerose polemiche, poi, è stato accolto l’emendamento secondo cui l’accesso ad Internet «non richiede l'identificazione personale degli utilizzatori quando l'offerta di accesso non costituisce l'attività commerciale prevalente del gestore del servizio». L’approvazione di un altro emendamento al nono comma dell’articolo 18 ha invece dato il via libera al finanziamento di reti wifi nei piccoli comuni al di sotto dei 5000 abitanti. Il decreto inoltre ha inferto un bel colpo all’Agenda digitale, con tagli di 20 milioni ai fondi per il Piano nazionale banda larga, destinato ad annullare il digital divide tra le regioni. Per il futuro dunque la diffusione del wireless e del mobile possono sicuramente aiutare ma il problema forse è più profondo e ha radici culturali nel nostro contesto nazionale, lo stesso che Agcom definisce «strutturalmente ancora poco sensibile all’innovazione».

Community