I giovani italiani lavorano troppo poco e sono i più colpiti dalla crisi: lo conferma il Rapporto Censis 2011

Ilaria Mariotti

Ilaria Mariotti

Scritto il 04 Dic 2011 in Notizie

Lavoro in diminuzione e giovani vittime principali della crisi economica. Sono questi gli aspetti che più preoccupano del 45esimo Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese, presentato venerdì 2 dicembre a Roma. In un’ Italia definita «fragile, isolata ed eterodiretta» dove le linee guida dell’economia sono stabilite dall’Europa, i più colpiti dal declino economico sono proprio loro: i giovani.
Il confronto con i nostri vicini Ue è impietoso: da noi solo il 20% dei 15-24enni è occupato, contro il 34% degli europei. Ma gli italiani non sono abituati al lavoro precoce, dice qualcuno, quindi questo dato non è pertinente. Va bene, allora si guardi la fascia più ampia degli under 30: tra i 15-29enni in Italia meno di tre su cinque lavorano, la media europea è di quasi tre su quattro. Uno scarto molto ampio, di 12 punti percentuali, che evidenzia un sistema che invece di puntare sui giovani, e dunque sul futuro, li emargina. Non è un caso dunque se le donne italiane «sono tra quelle che fanno figli più tardi - l’età media al parto di 31,1 anni rappresenta una delle età più avanzate in Europa». Maglia nera poi anche per i laureati italiani, i più disoccupati del vecchio Continente: il tasso di occupazione per loro è del 76%, all’ultimo posto tra i Paesi europei dove la media è dell’80%.
E se è pur vero che il crollo dell’occupazione dall’inizio della crisi nel 2008 ha riguardato tutti raggiungendo il tasso del -4% (a fronte di un aumento dello 0,6% del lavoro sommerso), c’è però un dato che colpisce: tra il 2007 e il 2010 il numero dei giovani occupati è diminuito di 980mila unità (si registra tuttavia una lieve ripresa per l’anno in corso dello 0,4%), ma nelle generazioni più mature i livelli occupazionali hanno subito un processo inverso: i posti di lavoro sono stati non solo salvaguardati, ma sono addirittura aumentati del 7% tra i 45-54enni e del 12 tra i 55-64enni. Segno che le conseguenze più pesanti della crisi si scaricano su chi deve ancora entrare nel mercato del lavoro e non su chi è già dentro.
Non solo. I giovani sono anche quelli che pagano di più sul fronte dell’uscita dall’occupazione, quindi nei licenziamenti: «Nel 2010, su 100 licenziamenti 38 hanno riguardato giovani under 35 e 30 soggetti con 35-44 anni», si legge nel rapporto. «Solo in 32 casi si è trattato di persone maggiori di 45 anni». Del resto il motivo è presto spiegato in un’Italia così ostinatamente gerontocrate: il Censis rivela che il Belpaese presenta un tasso di anzianità aziendale superiore alla media europea. «Lavora nella stessa azienda da più di dieci anni il 50% dei lavoratori italiani, il 44 dei tedeschi, il 43 dei francesi, il 34 degli spagnoli e il 32 degli inglesi». «Tuttavia» precisa lo studio «solo il 23% dei giovani risulta disponibile a trasferirsi in altre regioni o all’estero per trovare lavoro». Siamo indietro alla media europea infatti anche per quanto riguarda la mobilità transnazionale, per cui solo 12 italiani su 100 tra quelli della fascia d'età 15-35 anni hanno soggiornato all’estero per studio o lavoro - contro il 15% europeo. Ma fa da contraltare a questo dato il costo sopportato dalle famiglie per i viaggi dei figli: sono loro a mantenerli nel 68% dei casi (in Europa la media è più bassa di tre punti).
«Investita in pieno dalla crisi» è scritto «ma non esente da responsabilità proprie, la generazione degli under 30 sembra incapace di trovare dentro di sé la forza di reagire». Commenta così il Censis il fenomeno dei cosiddetti neet, dove ancora una volta il triste primato spetta all’Italia: l’11% dei giovani di 15-24 anni, che diventa il 16% di quelli tra 25 e 29, non è interessato né a lavorare né a studiare, mentre la media europea è rispettivamente del 3% e dell’8%. Un segnale grave, su cui la classe dirigente dovrebbe riflettere. 
Esiste tuttavia un settore che sembra non conoscere crisi: quello del lavoro manuale, il 36% del totale e il più richiesto. Le aziende anzi lamentano proprio le difficoltà di reperimento di professionisti come magazzinieri, meccanici, operai, addetti alle pulizie. Tant’è che dei 309.000 nuovi posti di lavoro nell’ultimo quinquennio la quasi totalità hanno riguardato figure professionali non qualificate. «È così che negli anni è avvenuto un vero e proprio processo di sostituzione tra italiani e stranieri», si evidenzia.
Una realtà riflesso di un «sistema formativo che è da una parte con il mondo reale che sta dall’altra», a detta di Giuseppe De Rita [nella foto], presidente Censis. E infatti «con la crisi, l’appetibilità e la richiesta di laureati nel merca
to del lavoro è addirittura diminuita», e i giovani che iniziano percorsi professionali «nella maggioranza dei casi sono sottoinquadrati».
C’è poi il problema ma
i risolto della dispersione scolastica: se tutti più o meno si iscrivono alle scuole superiori, il tasso di diploma non supera la soglia del 75% dei 19enni. Circa il 65% dei diplomati tenta poi ogni anno la carriera universitaria, ma tra il primo e il secondo anno di corso quasi il 20% abbandona. C’è comunque una buona notizia. Nel 2010 la quota di 18-24enni in possesso della sola licenza media e non più inseriti in percorsi formativi è scesa dal 19 al 18%.
E in quello che il Censis chiama «il disinvestimento dei giovani», «destinati a vivere un perpetuo presente» si afferma purtroppo sempre di più un pensiero «avulso dal merito e dalla cultura del lavoro»: il 38,2% dei 15-30enni ritiene l’università un’opzione non attraente (il numero più alto in Europa).
Su un dato si può però tirare un sospiro di sollievo. Più del 57,3% degli italiani si dice disponibile a sacrificare il proprio tornaconto personale per l’interesse generale. Forse è arrivato il momento di farlo, guardando alle difficoltà delle generazioni più giovani. 

Ilaria Mariotti

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