Laureati italiani, dati pessimi. La ministra Giannini: «Lo studio torni strumento di riscatto»

Ilaria Mariotti

Ilaria Mariotti

Scritto il 19 Mar 2014 in Notizie

In Italia ci sono troppi laureati, per questo non trovano lavoro. Un'idea che si sono fatti in tanti, secondo cui ci sarebbe un tale affollamento di titolati sul mercato da rendere irraggiungibili gli impieghi qualificati. L'ultimo studio (ce ne sono altri, come quelli firmati da Almalaurea) a sconfessare questa teoria è il Rapporto 2013 sullo stato dell'università e della ricerca condotto dall'Anvur (agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca), un ente dipendente dal Miur.

I laureati sono sì aumentati negli ultimi anni, dice il report, passando tra il 1993 e il 2002 dal 5,5% al 12,7%
della popolazione in età da lavoro (quindi i 15-64enni). Se si restringe il campo ai giovani tra i 24 e i 34 anni la quota sale poi dal 7,1% di un tempo al 22,3% di oggi. Ma si tratta ancora di una quantità minima rispetto a una media europea di giovani in possesso di una laurea pari invece al 35%: nel vecchio continente ci superano tutti, fatta eccezione per la Turchia. Ha una laurea circa la metà dei giovani fino a 34 anni in Cipro, Lussemburgo, Irlanda, Norvegia, Regno Unito. Poco sotto, con cifre che si aggirano attorno al 40%, si posizionano i giovani laureati di Francia, Spagna, Polonia e Svizzera. Solo la Germania, tra i big, è indietro con un più misero 29%. Una situazione che si ripete guardando al gruppo costituito dalla popolazione fino ai 64 anni: qui la media Ue è al 25%. «Nonostante la crescita del numero di laureati, la distanza con l'Europa non si colma perché i diplomi aumentano anche all'estero e non solo da noi» ragiona il direttore Anvur Roberto Torrini, parlando alla presentazione del rapporto.

Ma i problemi del sistema universitario italiano non si fermano qui. Molti dei nodi sono stati «solo attenuati dalla riforma del 3+2 senza mai essere risolti» spiega Torrini. Per esempio le difficoltà a laurearsi, riscontrate da quel 40% di studenti che una volta iscritti alla triennale non riescono però a uscirne con il famoso pezzo di carta in mano, interrompendo il cammino prima di arrivare alla tesi. C'è poi un 15% che dopo appena un anno di università cambia indirizzo di studi, evidenziando «inefficienza dell'orientamento formativo, deficit di preparazione degli studenti, debolezza nel tutoraggio», riporta lo studio.

Oltre all'alto livello di abbandoni, altri numeri preoccupanti riguardano la durata dell'iter accademico, che la riforma avrebbe dovuto accorciare. E invece tuttora ci vuole una media superiore a cinque anni
per concludere la triennale, tanto che il 42% degli immatricolati risulta fuori corso. Dato da aggiungere poi all'inesorabile calo degli iscritti, ridotti di un quinto rispetto al 2003. «Non è solo un fatto di crisi, ma culturale: bisogna riportare in auge il concetto che solo lo studio assiduo può essere strumento di riscatto per l'individuo e per la società» rilancia la neoministra all'Istruzione, Stefania Giannini, alla conferenza di presentazione. Anche perché laurearsi, come testimoniato da altri studi, conviene: «La crisi è stata patita di più dai diplomati (disoccupati nel 10% dei casi contro il 6,8% dei laureati) e anche in termini salariali, nel lungo periodo, il titolo ripaga», sottolinea Torrini.

Il rapporto si sofferma anche sui motivi del deficit italiano in termini di istruzione. «Una delle differenze tra l'Italia e i principali Paesi occidentali è dovuta all'assenza nel nostro Paese di corsi di carattere professionalizzante che nella media europea rappresentano circa un quarto dei giovani in possesso di un titolo universitario», si legge nello studio. Da noi cioè è tutto molto – forse troppo - basato su nozioni teoriche, tanto che, prosegue il report, «i laureati italiani sono tutti titolari di un diploma di laurea Isced 5a (standard Unesco di classificazione dei titoli di studio, ndr), ovvero ad alto contenuto teorico, tipico dell'istruzione universitaria tradizionale». Anche se poi, andando a scavare, si scopre che pure circoscrivendo questo settore, tra i grandi dell'Europa l'Italia si colloca sempre come fanalino di coda, eccetto la Germania, «dove è molto forte la presenza di istruzione di tipo professionale» rileva la ricerca.

La Giannini si dice però convinta che benché sia innegabile che «l'istruzione professionale andrebbe valorizzata», in Italia – culla di beni culturali senza pari nel mondo - «è lo studio delle materia umanistiche a dover essere potenziato». «È anche la filosofia, nonostante i pregiudizi, a fornire potenzialità di lavoro concrete», assicura, ricordando come ad esempio da noi finora ci siano «soltanto due istituti tecnici su una classificazione di 58 a essere dedicati ai beni culturali».

La rottura rispetto ai ministri omologhi del passato, quelli che puntavano tutto sul manifatturiero e su un'istruzione collegata alla praticità del mondo del lavoro non potrebbe essere più netta. E non solo su questo aspetto. «Dal 2009 a oggi il finanziamento complessivo del Miur al sistema universitario si è ridotto di circa 1 miliardo», riferisce il rapporto, pari a una contrazione del 20% che si è riflessa su tagli del personale e blocco di progressione degli stipendi. Fattore a cui Giannini promette di porre rimedio, lanciando un messaggio al premier Renzi: «Ok all'investimento nell'edilizia scolastica, ma bisogna guardare anche dentro gli edifici, e riportare qualità alla formazione e al ruolo degli insegnanti. Occorre rispettare la centralità dell'istruzione, o questo per me diventerà un problema politico serio» avverte. A partire dal diritto allo studio, fortemente sminuito negli anni: le coperture delle borse di studio - informa il rapporto - sono passate dall'86% al 69% dal 2010 al 2012. «Non esiste che lo Stato non sia in grado di erogare le borse di studio agli idonei», dice Giannini, promettendo battaglia in materia.

La ministra sembra anche sposare in pieno la questione dei finanziamenti alla ricerca, altro tema centrale nello studio dell'Anvur: «La spesa italiana in ricerca e sviluppo è tra le più basse delle grandi economie industriali, le risorse pubbliche investite sono circa lo 0,52% del Pil, lo 0,18% in meno della media Ocse, che però equivale a ben 30 miliardi», si legge. «Dobbiamo cominciare a convincere gli imprenditori che investire in education e ricerca non significa spendere ma appunto investire» afferma, sottintendendo che i fondi non devono arrivare solo dal pubblico, ma anche dal privato. Anche perché i ricercatori italiani se lo meritano, attestandosi tra i più produttivi al mondo. Nella letteratura scientifica mondiale «la quota italiana si attesta al 4,4% per le aree scientifiche e all'1,9% per le aree umanistiche e sociali» scrivono dall'Anvur, precisando che «l'impatto della produzione scientifica italiana è superiore a quello medio europeo e mondiale sia nelle aree bibliometriche che non». Voltare pagina e chiudere con un passato di soli tagli all'istruzione e alla ricerca è quindi il messaggio implicito del rapporto, per ricompensare «l'eccellenza della nostra ricerca» ribadisce Torrini. E per rimettere l'istruzione di nuovo al centro delle politiche del Paese.


Ilaria Mariotti


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