Lavorare 35 ore a settimana invece che 40: ecco i pro e i contro secondo gli esperti

Ilaria Mariotti

Ilaria Mariotti

Scritto il 06 Mar 2015 in Approfondimenti

La giornata lavorativa tradizionale composta da otto ore più eventuali straordinari non è un dogma assoluto. E le esperienze di altri paesi lo dimostrano: ad esempio la Francia, dove l'orario di lavoro fu ridotto a 35 ore settimanali sul finire degli anni Novanta grazie a due leggi che prendono il nome della ministra del Lavoro dell'allora governo Jospin, Martine Aubry. Un esperimento unico in Europa, dove la maggioranza dei paesi è allineata invece sulle 40 ore a settimana. Nonché un provvedimento controverso, che nel tempo ha visto crescere i suoi detrattori, tanto che quest'estate è arrivata la proposta dell'attuale ministro francese dell'economia, Emmanuel Macron, di aumentare il numero di ore legali a 39. Ulteriore passo dopo la battaglia dell'ex presidente francesce, Nicolas Sarkozy, contro il sistema introdotto quasi due decadi fa.

Sui vantaggi di un orario più contenuto è tornato recentemente Marco Craviolatti, attivista sindacale e autore del volume E la borsa e la vita (edito da Ediesse). Il libro, per il quale è anche prevista una presentazione a Roma la prossima settimana (mercoledì 11 marzo alle ore 18 presso la Libreria Arion di via Cavour angolo via dei Serpenti), parte proprio dal caso francese, considerato a torto, a detta dell'autore, «anche in ambienti sindacali e politici italiani» un esempio fallimentare. «Dove starebbe il fallimento» si chiede, se «sul piano occupazionale tra il 1998 e il 2002, i posti di lavoro netti generati dalla riforma sono stati stimati in 300-350mila?». Con un tasso di occupazione salito negli stessi anni di 3,4 punti percentuali.

Il principale argomento a favore è che una riduzione dell'orario di lavoro si possa accompagnare anche a una migliore redistribuzione dell'occupazione. Diminuire le ore è «uno strumento di distribuzione della domanda di lavoro, soprattutto se scarsa, evitando una quota di esuberi o allargando la platea dei beneficiari di nuove opportunità occupazionali» scrive Craviolatti nelle prime pagine del volume. La convinzione è che «la distribuzione del lavoro può sopperire a una relativa scarsità di risorse economiche da impegnare». Un concetto che Craviolatti ribadisce con la Repubblica degli Stagisti: «Andrebbe accorciata la forbice tra chi non ha più una vita perché lavora troppo e chi invece fatica a campare perché un lavoro non ce l'ha».

Come si concilia però un orario di lavoro più corto con il mantenimento del salario?
L'obiezione è inevitabile, tanto che alcuni movimenti spontanei cresciuti tra l'Italia e la Spagna - qui il partito Podemos si è fatto portavoce della battaglia per le 35 ore - hanno lanciato addirittura la campagna 'Per una settimana lavorativa di 30 ore senza riduzione di orario' (con una richiesta quindi ancora più radicale). Dalla civilissima Svezia, dove la giornata media è già di 7 ore per un totale di 35 a settimana, è partito un progetto pilota su un gruppo di dipendenti pubblici del comune di Gotheburg che per un periodo lavoreranno meno delle canoniche sette ore al giorno per verificare eventuali miglioramenti della produttività. Un'idea da cui è scaturito un dibattito pubblico anche in Germania, già alle prese con l'esperimento dei minijobs. Segno che la questione è sentita e porta a chiedersi se - in anni di forte disoccupazione - abbia senso pensare di lavorare meno per lavorare tutti mantenendo però inalterate le retribuzioni.

Secondo il sindacalista, non necessariamente si andrebbe incontro a una sforbiciata degli stipendi
(anche se ammette che, per le categorie più benestanti, potrebbe non costituire «un problema un piccolo taglio a fronte di minori ore lavorate»). Il fattore monetario si potrebbe compensare con un incentivo fiscale. Invece di «detassare gli straordinari, come si fa adesso, la manovra potrebbe invertirsi, abbassando l'aliquota fiscale sulla differenza oraria tra le 35 e le 40 ore», spiega Craviolatti alla Repubblica degli Stagisti. Oppure l'alternativa potrebbe essere la compensazione con la produttività: si lavora di meno, ma si produce di più - «come dimostrano diversi studi internazionali» -, un beneficio che aiuterebbe a mantenere invariati i salari. Si sostiene poi nel libro che «in prospettiva strutturale la riduzione di orario può incidere sul rapporto tra capitale e lavoro, 'restituendo' ai lavoratori una quota dell’enorme crescita di produttività avvenuta negli ultimi quarant’anni». Di questa hanno però «beneficiato quasi esclusivamente le rendite e i profitti da capitali, che sono cresciuti molto più dei salari».

In Italia invece l'ago della bilancia continua a pendere verso l'aumento dell'orario lavorativo (lo dimostra il grafico nella foto), perché «qui le aziende tendono a fare riferimento alla contrattazione collettiva nazionale e quindi agli orari massimi» spiega ancora Craviolatti. La conseguenza è che si creano «all'altro estremo lavoratori più disoccupati e sotto occupati, cioè meno di quanto vorrebbero esserlo». Per esempio nel part time, che è applicato «come ripiego, per cui i due terzi dei contratti di questo tipo sono involontari».

Potenziare l'orario di lavoro significa anche alimentare il precariato, «le persone diventano più ricattabili, sanno che dietro di loro c'è la fila». Introducendo un meccanismo come quello proposto nel libro, non sarebbe invece neppure da escludere un vantaggio per le categorie dei parasubordinati: una maggiore redistribuzione del lavoro andrebbe anche a loro favore, specie per «quelle fasce di solito escluse dal mercato e invece più produttive come donne e giovani» ragiona l'autore.  

Il paradosso è infatti che, mentre le ore di lavoro continuano a salire, non aumenta ma anzi ristagna la produttività dei lavoratori. Meno tempo in ufficio può invece «far bene anche al sistema impresa, sia migliorando direttamente l’efficienza e la produttività del lavoro che incentivando una concorrenza fondata sull’innovazione e sulle competenze professionali, invece che sul feroce contenimento dei costi produttivi» chiarisce il sindacalista. Molti studi lo confermano: spesso in meno ore si riesce a produrre di più e meglio perché ci si organizza in modo più strutturato. Senza contare l'impatto positivo sulla vita delle persone, a livello di conciliazione, «attenuando la diffusa alienazione (da lavoro e dalla sua mancanza) e liberando tempo e spazio mentale per lo sviluppo personale» si legge nel testo.

Tutte teorie da cui prende le distanze il consulente del lavoro Enzo De Fusco, che alla Repubblica degli Stagisti dice di ritenere inattuabile un modello simile, che porta costi maggiori «in un momento di crisi economica come questo». La risposta «non può essere lavorare meno, altrimenti le aziende non farebbero i contratti di solidarietà o le casse integrazione». Introdurre il sistema delle 35 ore potrebbe comportare la necessità di nuove assunzioni, questo sì, ma aprire nuovi rapporti di lavoro implica costi che le aziende non sono oggi in grado di affrontare. De Fusco ricorda infatti che i contratti più recenti «hanno innalzato l'impegno dei lavoratori aumentando le ore di lavoro a fronte di un salario immutato». In cambio le aziende «hanno promesso ai lavoratori una ricompensa in termini economici per l'eventuale innalzamento della produttività rilevata a fine anno». Se questa è la ricetta più utilizzata per una maggiore competitività, per De Fusco è utopia pensare alla misura delle 35 ore, che potrebbe dare i suoi frutti «solo in un'economia che viaggia cinque o dieci punti di Pil, che si tiene da sola».

È anche un fatto culturale, punto su cui è d'accordo anche Craviolatti: in Italia non si punta ai risultati, ma contano di più le ore spese sul posto di lavoro, «anche per retaggi sindacali». Inultile quindi pensare alle rivoluzioni come quelle introdotte dalla Virgin, per i cui dipendenti non esiste più l'obbligo di sedersi alla scrivania ma basta raggiungere determinati obiettivi. Come se ne esce allora? Per Craviolatti forzando le imprese a ragionare a lungo termine, innovando per arrivare a «un orario a metà tra il full time e il part time, che può variare da 28 a 35 ore». Prendendo a modelli gli altri paesi dove la teoria ha funzionato, e agendo sul sistema degli straordinari per esempio, oggi agevolati dal punto di vista fiscale - mentre a detta di Craviolatti andrebbero ostacolati. Politica impensabile per De Fusco: «Il ragionamento è valido solo per i periodi in cui l'impresa è talmente florida e l'economia tira talmente tanto che preoccuparsi del benessere dei dipendenti non fa la differenza in termini economici».

Ilaria Mariotti 

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