L'apartheid del lavoro italiano al vaglio della Commissione europea: le ragioni di una denuncia

Eleonora Voltolina

Eleonora Voltolina

Scritto il 04 Ott 2011 in Editoriali

Il dibattito sul precariato italiano stagna. Vissuto sulla propria pelle da circa cinque milioni di persone, potenziato dalla crisi, il problema ha una particolarità: anziché esplodere, implode. Non trova sbocchi. Chi avrebbe in mano le leve per mutare la rotta fa orecchie da mercante.
Da qui la decisione di bussare alla porta dell’Unione europea attraverso una denuncia con sette firme in calce: quella di Emma Bonino, vicepresidente del Senato e già commissario europeo, e poi Benedetto della Vedova deputato di Fli, Antonio Funiciello direttore dell'associazione Libertà Eguale, Pietro Ichino giuslavorista e senatore PD, Giulia Innocenzi responsabile italiana del sito web Avaaz in Italia, Nicola Rossi esponente della fondazione Italia Futura, e la sottoscritta in rappresentanza della Repubblica degli Stagisti.
La denuncia è uno strumento che potenzialmente ogni singolo cittadino ha in mano, se pensa che uno Stato membro violi una delle normative comunitarie.  Noi abbiamo scelto di portare di fronte all’Ue l’apartheid del mercato del lavoro italiano. Mettendo nero su bianco quello che tutti sanno ma nessuno vuole ammettere: la disparità di trattamento fra i lavoratori subordinati regolari e quelli sostanzialmente dipendenti, ma qualificati come collaboratori autonomi continuativi. I freelance spintanei. E’ qui che si annida il vizio italiano, perché a loro «è riservato uno statuto protettivo incomparabilmente più povero rispetto ai subordinati regolari». In pratica «non hanno protezione contro il licenziamento e contro la reiterazione dei contratti a termine; sono esclusi da qualsiasi limite di orario di lavoro; non godono del diritto alle ferie annuali; sono normalmente esclusi dall’applicazione dei contratti collettivi di settore e in particolare degli standard retributivi minimi; il loro contributo complessivo ammonta approssimativamente al 27 per cento della retribuzione, mentre per i subordinati regolari esso ammonta al 32 o 33 per cento».
stageInsomma figli di un dio minore rispetto a quelli “normalmente” assunti con un contratto di lavoro dipendente. L’Unione europea però ha una direttiva specifica, la n. 1999/70, che vieta che ciò avvenga prescrivendo l’obbligo (non raccomandazione: obbligo) di prevedere misure per impedire e  punire l’abuso di una successione di contratti a tempo determinato. Non solo. La Corte di Giustizia ha ribadito che la normativa mira a «impedire che un rapporto di impiego di tale natura venga utilizzato da un datore di lavoro per privare questi lavoratori di diritti riconosciuti ai lavoratori a tempo indeterminato
».
Cosa che quotidianamente avviene in Italia. Grazie a un cavillo: i lavoratori discriminati non sono (solo) quelli temporanei, ma soprattutto quelli che sono (o meglio si pretende che siano) indipendenti. Ma «le disposizioni delle direttive europee in materia di lavoro devono intendersi riferite a tutte le posizioni di lavoro sostanzialmente dipendente» si legge nella denuncia, e dipendente va considerato chiunque «collabori continuativamente con un’unica azienda, inserito nella sua struttura, traendo da tale rapporto l’intero proprio reddito, o la parte assolutamente prevalente di esso». Quindi anche i finti cocopro, cococo e le finte partite Iva.
E’ evidente che il nostro mercato del lavoro é fuori controllo: esistono casi di finti cocopro reiterati «fino ad assumere una durata complessiva anche ultradecennale e persino pluridecennale». Prassi «diffusissima e pacificamente tollerata» che tocca una percentuale abnorme di persone, circa un terzo del totale. «L’esistenza stessa di quel terzo di lavoratori non protetti costituisce violazione grave, di entità macroscopica, della direttiva n. 1999/70».
L’Ue non può tollerare questa «fuga dal diritto del lavoro». Per realizzare la flessibilità non si può creare una serie A e una serie B di lavoratori, dove tra l’altro i giovani giocano quasi tutti nella più scadente. Ci vuole invece «un diritto del lavoro capace di conciliare la massima possibile flessibilità delle strutture produttive con la massima possibile sicurezza di tutti i lavoratori dipendenti nel mercato. Con la conseguenza che quest’ultima non può essere costruita con l’ingessatura dei rapporti di lavoro, bensì con il rafforzamento della posizione di tutti i lavoratori nel mercato del lavoro».
La denuncia è stata presentata il 14 settembre alla Rappresentanza romana della Commissione Ue. La  palla passa adesso a Bruxelles, che già entro ottobre potrebbe aprire una procedura di infrazione e di diffida nei confronti dell’Italia. Obbligandola, finalmente, a mettere fine all’insopportabile apartheid.

Eleonora Voltolina

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