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JobsAct, l'essenziale è il salario minimo

Perché il salario minimo è una assoluta priorità? Perché Renzi dovrebbe fare il possibile e l'impossibile per farlo inserire nel JobsAct che presenterà la settimana prossima, anche se prevedibilmente ci sarà da parte dell'Ncd un vero e proprio scudo? Perché in Italia il problema numero uno è il mercato del lavoro. All'interno del problema del mercato del lavoro, il problema numero uno sono i precari. E all'interno del problema dei precari, il problema numero uno sono le retribuzioni che, specialmente quando si tratta di rapporti di lavoro "parasubordinati", sono da fame. La situazione è sotto gli occhi di tutti: anzi, molti di noi che ne scriviamo e molti di voi che leggete vivono questa condizione sulla propria pelle. Non riuscire a mantenersi con il proprio stipendio, essere "working poors" cioè farsi un mazzo tanto dalla mattina alla sera e riuscire a racimolare solo poche centinaia di euro a fine mese, scontrarsi con un mercato domanda/offerta squilibrato in cui i datori di lavoro impongono retribuzioni da fame nella modalità prendere o lasciare, "tanto fuori ho la fila di gente che questo lavoro lo fa anche gratis". E questa situazione non riguarda solamente i mestieri ambiti, blasonati, quelli glamour che tanti giovani sognano e per i quali studiano: ormai si è estesa perfino ai mestieri più umili, per cui si arriva ai limiti estremi di persone che accettano di fare (l'abbiamo documentato sulla Repubblica degli Stagisti solo poche settimane fa) uno stage a 400 euro al mese come colf in una villa privata.Un mercato del lavoro completamente squilibrato, che vede nelle retribuzioni il tallone d'Achille più macroscopico e socialmente pericoloso: decine di migliaia di giovani costretti a restare giovani fino a trent'anni, fino a quaranta, addirittura oltre. Che lavorano ma non guadagnano abbastanza da andare a vivere da soli, che non sono in grado di affittarsi o comprarsi una casa, che devono contare sull'aiuto dei genitori per questa e qualsiasi altra spesa, che non possono recidere il cordone ombelicale ormai insano e non riescono a diventare pienamente adulti, anche dal fondamentale punto di vista dell'indipendenza economica. Persone ingabbiate nella condizione perpetua di giovani, persone che invecchiano senza riuscire a diventare adulte.Come siamo potuti arrivare a questo punto? Come può l'Italia vantare un posto nel G8, tra i Paesi più avanzati, e contemporaneamente avere un mercato del lavoro da terzo mondo? La situazione ha radici profonde, ramificate, complesse da districare. C'è un debito pubblico assurdo, una legislazione sul lavoro bizantina, un mercato del lavoro duale che avvantaggia gli insiders con contratto di tipologia subordinata e vessa gli outsiders cosiddetti "autonomi" o "parasubordinati", e ancora c'è un sistema fiscale oppressivo, un cuneo fiscale mostruoso, una mobilità occupazionale risibile, un sistema di servizi all'impiego scarso a livello quantitativo e qualitativo e completamente inefficiente, e l'elenco potrebbe continuare.Morale della favola: i datori di lavoro - pubblici e privati - si rivalgono sugli ultimi. Li contrattualizzano malamente, come precari, spesso come collaboratori finti autonomi (richiedendo però prestazioni da lavoratore dipendente, come presenza in ufficio, rispetto di orari e di gerarchie etc), e sopratutto gli danno salari da fame.Su questo punto incide il salario minimo. Una legge a costo zero per lo Stato, che dice semplicemente: per qualsiasi tipologia di lavoro, con qualsiasi tipologia contrattuale, se tu vuoi che una persona lavori per te non puoi pagarla meno di tot.Ieri nel programma tv "Ottoemezzo" su La7 la rubrica "Il punto di Paolo Pagliaro" ha ripreso il tema partendo proprio dalla mia proposta, ricordando che il salario minimo non sarebbe una bizzarria italiana. Questo istituto esiste nella maggior parte dei Paesi europei: recentemente perfino la Germania, che per decenni aveva ostinatamente evitato di ricorrere a questa misura, ha stabilito che a partire dal 2015 anche in tutti i land tedeschi entrerà in vigore un salario minimo, che sarà pari a 8,50 euro all'ora. Il messaggio è importantissimo e deve arrivare forte e chiaro al governo: senza salario minimo non ci può essere equità retributiva. Uno stipendio dignitoso non è un optional.Ma attenzione. L'Italia ha anche un altro problema nel suo mercato del lavoro, cui accennavo poco sopra: l'incredibile numero di persone sottoinquadrate, assunte con contratti di lavoro "atipici" per poter risparmiare sui contributi e sulle retribuzioni. Perché se i contratti di lavoro subordinati ancorano le buste paga ai contratti nazionali di lavoro, per i contratti "parasubordinati" quest'ancora non esiste e dunque si naviga in mare aperto, in balia delle onde.Qui sta peraltro il motivo del ritardo italiano sul salario minimo: il nostro mercato del lavoro infatti è stato regolato per decenni dalla contrattazione collettiva, perché solo con contratti dipendenti si poteva assumere; i contratti atipici - e con loro la contrattazione individuale che avviene tra chi propone il lavoro e chi lo accetta - esistono solo da una ventina d'anni. Ecco dunque perché una legge sul salario minimo in Italia non c'è stata fino ad ora: perché il ruolo veniva svolto dai sindacati attraverso la contrattazione di categoria. Ma questo ruolo ormai non copre più tutte le posizioni lavorative, e ha bisogno di un sostegno. Ecco anche perché una legge sul salario minimo in Italia non avrebbe quasi alcun senso se non riuscisse a comprendere quella grandissima parte di "cornuti e mazziati" che oggi portano a casa stipendi da fame. Cioè i lavoratori non subordinati.Insomma, se arrivassimo come la Germania a dire "nessun lavoro d'ora in poi può essere pagato meno di 8,5 euro all'ora", dovremmo trovare un modo granitico perché ciò valga anche per gli autonomi, almeno per i cocopro e i cococo. Come? Il dibattito è aperto. Questi contratti potrebbero per esempio dover riportare per iscritto l'indicazione del tempo che il collaboratore prevede di dedicare alla collaborazione in questione. Quanto? Il 25% del proprio tempo? Dunque indicativamente 10 ore a settimana, 40 ore al mese. Il 50%? Allora 20 ore a settimana, 80 al mese. E così via.Certo, si sa che in Italia fatta la legge trovato l'inganno. Si può immaginare che una misura del genere farebbe fiorire immediatamente un numero incredibile di contratti a progetto o di collaborazioni coordinate e continuative che formalmente indicherebbero un part-time, magari al 50%, ma che nella realtà dei fatti impegnerebbero i collaboratori full time o anche di più. È l'annoso problema tutto italiano della refrattarietà alle regole, del gatto e la volpe, del tentativo di essere sempre più furbi dello Stato, di fregare il prossimo, di fare qualsiasi cosa a proprio esclusivo vantaggio.È un problema profondamente culturale, che va affrontato: ma che non può bloccare l'iter di leggi giuste, con il disincanto di chi dice "tanto poi troverebbero il modo per aggirarla". Intanto facciamola: poi si vedrà come scovare e punire chi cerca di eluderla. E si lavorerà anche sull'empowerment dei precari, perché ciascuno in prima persona tiri fuori la dignità e rifiuti di essere sottopagato. Una legge sul salario minimo sarebbe una formidabile arma nelle mani di tutti gli sfruttati.Altro aspetto, la possibilità di non fare un salario minimo uguale per tutta Italia. La mia idea qui, ripresa nel servizio di Pagliaro di ieri sera, è quella di un salario minimo "territorialmente caratterizzato", composto da due fattori: uno fisso, che rappresenti una percentuale dell’importo, e uno variabile per la restante parte, da calcolare regione per regione attraverso un algoritmo che dipenda dal costo della vita combinato con il tasso di occupazione di quel dato territorio. Più alto è il primo, più il salario sale; più basso è il secondo, più il salario scende. La combinazione dei due permetterebbe a mio avviso una equità e "saggezza" retributiva, capace di valorizzare il lavoro senza deprimere il mercato. Entrambi i fattori andrebbero ovviamente aggiornati annualmente, adeguando il primo all’inflazione e il secondo ai nuovi valori rilevati dall’Istat. In questo modo, per esempio, si potrebbe avere un salario minimo di 1300 euro al mese a Milano (8 euro all’ora), di 1100 euro a Padova (6,9 all’ora), di mille euro a Trapani (6,25 all’ora), salari agganciati alle reali necessità dei singoli territori.Questo aspetto della proposta solitamente fa saltare sulla sedia chi ha i capelli bianchi. L'obiezione è sempre la stessa: ma come, vuoi tornare alle gabbie salariali, abbiamo fatto tante battaglie per abolirle. Ora, le gabbie salariali hanno funzionato in Italia dal 1945 al 1969. Sono passati quasi cinquant'anni: penso che sia un tempo sufficiente per superare l'emotività e poter riprendere laicamente il discorso. Nella mia proposta io mi limito a delineare un modo per non ignorare le differenze e le diverse esigenze dei territori. Il salario minimo per sua stessa natura non deve essere troppo alto, per non rischiare di deprimere il mercato del lavoro e di produrre un effetto opposto a quello desiderato (diminuzione dei posti di lavoro e aumento del lavoro nero). Il fatto che il limite minimo debba necessariamente essere basso però rischia in Italia di creare una situazione insostenibile per le regioni economicamente più arretrate, nel caso venisse modellato e parametrato a quelle più “forti”, oppure una situazione pessima per i lavoratori di queste regioni “forti” in caso la cifra venisse modellata e parametrato al ribasso, sui dati delle regioni più deboli. Una soluzione è dunque quella di differenziare per ritagliare su ogni territorio un provvedimento ad hoc, che rispecchi l'esigenza e le necessità degli imprenditori che creano posti di lavoro e dei lavoratori che hanno diritto a ricevere retribuzioni dignitose.Ma non sono "innamorata" di questo aspetto, sono ben aperta a qualsiasi altra formulazione che riuscisse a ottenere un risultato equo, riuscendo a introdurre questa misura di tutela della dignità delle retribuzioni (un diritto costituzionalmente garantito, con l'articolo 36 della nostra Costituzione) senza deprimere ulteriormente il mercato del lavoro, effetto collaterale che non ci possiamo assolutamente permettere.Ultimo aspetto, le prestazioni "genuinamente autonome". Le "vere partite Iva" insomma, le persone che davvero svolgono la propria professione in maniera autonoma, come freelance si dice in alcuni settori, comunque fornendo prestazioni lavorative singole e fatturandole ai propri clienti.Qui la soluzione per garantire anche a loro una retribuzione minima è ancora più spinosa, perché la quantificazione del valore dipende ovviamente dal pregio della prestazione, dalla numerosità o rarità delle persone in grado di fornirla, dalla complessità e dal tempo mediamente necessario per eseguirla. Le obiezioni provengono anche dall'interno, perché i professionisti più pagati temono che l'introduzione di una cifra minima indicativa, calcolata forfettariamente sull'intera prestazione, possa indurre i datori di lavoro ad abbassare i loro compensi che sono ben più alti: questa problematica è emersa per esempio recentemente in tutta la sua durezza rispetto all'applicazione della legge sull'equo compenso giornalistico, dove il problema sono ovviamente i freelance pagati 5 euro a pezzo, ma nella determinazione del simil-tariffario che dovrebbe stabilire la cifra minima obbligatoria che ogni testata sarà tenuta a pagare per un articolo giornalistico o un servizio radiotv vi è anche un piccolo ma combattivo nucleo che vorrebbe che fossero fissate tariffe altissime, fuori mercato (magari 100 euro a pezzo, o addirittura oltre), pur di non pregiudicare i compensi abituali dei fortunati non sfruttati. Insomma, il tema di quanto vale il lavoro è più che mai complesso. Ma va affrontato: è questa secondo me la vera sfida politica del governo Renzi. Per far ripartire il Paese bisogna ripartire dal lavoro dignitosamente retribuito.

La sfida più ardua del sindacato, rappresentare i lavoratori atipici

Nell'era della precarietà, della frammentazione della produzione, del lavoro disperso e deregolamentato, su quali basi è ancora possibile costruire la rappresentanza dei lavoratori? Con questa domanda si confronta in "Organizziamoci! I giovani e il sindacato dei mille lavori" Ilaria Lani, giovane sindacalista della Filctem di Firenze che dal 2009 al 2013, da responsabile per le politiche giovanili della Cgil, ha sensibilmente contribuito a portare il tema della precarietà e dei diritti dei giovani lavoratori al centro dell'attenzione dell'opinione pubblica italiana. Al termine del proprio incarico - ora ricoperto da Andrea Brunetti - Lani stila con Articolo 36 un bilancio dell'esperienza maturata in questi anni di attività a diretto contatto con il lavoro atipico. Senza risparmiare critiche all'organizzazione, ma neppure ai giovani, delineando soprattutto alcune fattive proposte per il futuro. Come quella di investire il 5% del bilancio annuale del principale sindacato italiano per mettere in campo iniziative pensate proprio per  tornare ad organizzare i non organizzati. Organizziamoci! analizza il rapporto tra giovani atipici e sindacato: una questione sufficientemente compresa nel dibattito pubblico di questi anni? Si dicono spesso cose abbastanza superficiali a riguardo. C'è ad esempio l'idea che il sindacato rappresenti solo i "vecchi" quando  la Cgil conta in realtà molti giovani iscritti, il problema è che tra questi ci sono pochi precari.  Quello che secondo me non si è compreso fino in fondo sono le oggettive difficoltà che si incontrano a  sindacalizzare fasce di lavoratori inseriti in un mercato caratterizzato da precarietà, frammentazione e ricattabilità. In un simile contesto diventa difficile anche individuare i luoghi in cui i lavoratori possano socializzare bisogni e problemi: se oggi siamo una generazione che non si ribella,  disposta a tutto pur di lavorare, lo dobbiamo anche a questo. L'esperienza della campagna Non + è stata significativa in tal senso: ci siamo resi conto che tanti ragazzi riconoscevano i loro problemi come problemi degli altri, quindi si rispecchiavano. Ecco diciamo che questo rispecchiamento, che un tempo avveniva naturalmente all'interno dei luoghi di lavoro, oggi è molto più difficile.Tu e gli altri autori non nascondete alcune critiche anche rispetto alle modalità con cui i sindacati, e nel caso specifico la Cgil, hanno affrontato la trasformazione dei rapporti di lavoro..I cambiamenti intervenuti all'interno dei processi produttivi impongono al sindacato di ripensarsi, a partire dalle sue pratiche, che certamente ancora funzionano per una parte del mondo del lavoro, ma che per un'altra parte devono essere modificate. Non possiamo pensare di organizzare i freelance con le stesse modalità con cui si organizzano gli operai di una fabbrica. E se non si riescono ad organizzare le nuove figure lavorative diventa arduo rappresentarle. Il problema dell'organizzazione è poi strettamente connesso a quello delle priorità da dare alle rivendicazioni. Bisogna iniziare ad immaginare un sindacato all'altezza di sfide molto più difficili:  pensare ad esempio ad un'organizzazione di livello internazionale. Sono questioni che poniamo con chiarezza al sindacato, ma che rappresentano anche per noi un campo di riflessione e di sperimentazione.Non esiste anche un problema legato alla rappresentanza interna al sindacato stesso, dove i giovani sono una minoranza?Sebbene ci siano molti giovani che rivestono oggi  incarichi importanti all'interno della Cgil, non c'è dubbio che ci sia anche un problema legato alla sottorappresentanza. Il ricambio generazionale è certamente un altro tema da affrontare, in stretta connessione però con l'effettiva capacità di rappresentare nuove fasce del mondo del lavoro. È necessario che maturi una sensibilità nuova, che è più facile che i giovani abbiano, ma non necessariamente. La richiesta più forte che avanziamo non riguarda posti o poltrone, ma piuttosto che una quota del 5% bilancio annuale del sindacato venga investita proprio in progetti straordinari rivolti ad organizzare i non organizzati.Avete già formalizzato questa richiesta?L'abbiamo espressa pubblicamente e la stiamo formalizzando, anche in vista del prossimo congresso. Nessuno ci ha detto no, ma non è semplice ottenere uno spostamento di risorse. Ci sarà una battaglia da fare.Il 5% non è molto: perché non chiedere di più?Non stiamo ovviamente dicendo di spendere soltanto il 5% per i precari: si tratterebbe di risorse aggiuntive rispetto a quelle che ordinariamente vengono già spese, che avrebbero lo scopo di finanziare campagne e iniziative mirate a quei settori più difficili da raggiungere con gli strumenti tradizionali. Un'altra proposta riguarda l'estensione dei contratti collettivi anche ai rapporti di lavoro autonomo.Finora non è stato possibile raggiungere questo risultato: sia perché la controparte non ha voluto, ma anche perché c'è stata la paura di legittimare in questo modo situazioni di abuso. Queste resistenze vanno però superate. C'è una fetta molto ampia di lavoratori che oggi non hanno né un compenso minimo, né la possibilità di vedere regolamentati alcuni diritti di base come la maternità, il riposo, il trattamento di fine rapporto, ma anche piccole cose come un termine prestabilito entro cui ricevere i pagamenti. Quest'azione deve ovviamente procedere parallelamente a quella di contrasto agli abusi, ma mettere nero su bianco alcuni paletti potrebbe rendere la vita un po' meno difficile a molti freelance. Non si tratta di un obiettivo impossibile da raggiungere, dal momento che la stessa riforma Fornero prevede già che per i collaboratori a progetto i contratti nazionali regolamentino questi aspetti.Accanto agli errori del sindacato anche i giovani hanno alcune responsabilità rispetto all'attuale crisi di rappresentanza del lavoro italiano?Sì: molto spesso l'approccio rispetto al sindacato è di tipo utilitaristico, analogo a quello che si avrebbe con un ente pubblico, senza nessuna disponibilità ad impegnarsi, a spendersi in prima persona. Non penso che sia una colpa: i giovani sono probabilmente le prime vittime dell'estrema competizione che si respira oggi sui luoghi di lavoro e che rende più difficile la costruzione di quei legami di solidarietà che sono alla base dell'azione sindacale. Ma il sindacato non è il luogo in cui trovare necessariamente delle risposte, bensì lo strumento grazie al quale, attraverso una battaglia collettiva,  si riescono ad ottenere risposte.Anche per questo che sono nati gli spazi dedicati ai giovani di Firenze, Enna, Bergamo, Padova, Lecce e Roma. Luoghi che ricordano le camere del lavoro alle origini stesse del sindacato. Qual è esattamente la loro funzione?Queste esperienze nascono proprio con l'idea di coniugare alcuni servizi dedicati ai giovani con l'azione collettiva. Qui il nostro patronato offre servizi mirati per i precari, come quello per l'indennità di disoccupazione o per il controllo sui contributi versati. La Nidil effettua consulenze sui contratti; adesso abbiamo un nuovo servizio per le partite iva e poi c'è il Sol, per l'orientamento al lavoro. La persona che durante il giorno entra in questi luoghi per usufruire di un servizio è invitata magari a partecipare ad una riunione la sera, per costruire una campagna su uno o più temi che la riguardano. Un altro aspetto su cui abbiamo puntato è quello dall'aggregazione: organizzando iniziative culturali o semplici aperitivi si creano delle occasioni di incontro che sono la premessa per iniziare a costruire un percorso di presa di coscienza collettiva.Nuovi spazi ma anche nuovi mezzi: nelle campagne che avete messo in campo quali strumenti si sono rivelati più efficaci?Un ruolo fondamentale è stato svolto dalla comunicazione: se il luogo di lavoro non è più luogo di aggregazione, devi provare a costruire aggregazione con altre modalità. Ciò non vuol dire semplicemente usare il web o Facebook, ma utilizzarli provando a costruire identità, generalizzando e creando consenso intorno a determinate battaglie. Uno strumento che si è rivelato molto utile è stata l'inchiesta  - come quelle che abbiamo fatto utilizzando i questionari on line - che ci ha consentito di mappare bisogni ed esigenze sulla base dei quali costruire poi un'azione rivendicativa. Un aspetto ulteriore riguarda poi la costruzione del potere: se i lavoratori non hanno sufficiente forza, perché più ricattabili e dispersi, si cerca un'alleanza con l'opinione pubblica, provando a colpire - sia in negativo, ma anche in positivo - la reputazione dell'azienda, ad esempio denunciando pubblicamente determinate pratiche. In seguito a queste campagne quanto è aumentata la percentuale di atipici sindacalizzati?Se parliamo solo in termini di iscrizioni, i risultati non sono incoraggianti. Bisogna però considerare il carattere sperimentale e non continuativo delle iniziative - molte delle quali erano orientate soprattutto alla sensibilizzazione - e poi la necessità di costruire con questi lavoratori un rapporto di fiducia, che non consente di avere risultati immediati.  Questi anni sono stati per noi di sperimentazione, in cui abbiamo provato a fare cose innovative tanto rispetto agli strumenti che rispetto al rapporto con l'organizzazione. La seconda fase dovrà essere di consolidamento:  vorremmo che alcune pratiche da straordinarie divenissero ordinarie, che si provasse ad esportarle in altri settori, che servissero come base per costruire sbocchi più concreti anche in termini contrattuali, dando una rappresentanza continuativa al mondo del precariato. Sono convinta però che rispetto al passato oggi possiamo contare non solo su una sensibilità nuova da parte dell'opinione pubblica, ma anche su un bacino di centinaia di migliaia di atipici che, se nell'arco dei prossimi tre quattro anni riuscissimo ad organizzare, potrebbero cambiare radicalmente il volto del sindacato.

Perché la Svizzera ha votato contro gli immigrati, perché l'Europa deve agire sul lavoro

La decisione della Svizzera, sancita l'altroieri attraverso il referendum, rispetto al "tetto agli immigrati" (tecnicamente, l'iniziativa popolare 'Contro l'immigrazione di massa') che nei prossimi tre anni dovrà essere implementata per favorire i cittadini svizzeri nella ricerca di lavoro è a mio avviso sciagurata. Ma come direttore di una testata giornalistica che fin dal nome, "Articolo 36", si focalizza sull'importanza delle retribuzioni e della dignità delle condizioni di lavoro, non posso esimermi da un'analisi di approfondimento. In generale chi conosce un po' la Confederazione elvetica sa che una cassiera di supermercato guadagna mediamente più di 4mila franchi al mese (3.200 euro). Sa che il servizio di orientamento scolastico è molto ben strutturato, così come l'alternanza scuola-lavoro e l'utilizzo dell'apprendistato per avviare i giovanissimi alle professioni pratiche; e che un ragazzo di 19 anni che ha appena concluso la sua formazione solitamente rifiuta lavori da meno di 2mila franchi (1.600 euro), anche perché anela al raggiungimento dell'indipendenza economica e ad uscire di casa il prima possibile. Le famiglie svizzere sono abituate a potersi mantenere con un solo stipendio; se i genitori lavorano entrambi, salvo casi eccezionali modulano i loro orari di lavoro con part-time variegati (lì è la norma), magari lavorando entrambi al 70 o 80%.Questa organizzazione permette alla Svizzera di essere quasi un alieno in Europa. Là dove noi annaspiamo nella crisi, questo Paese incastonato nelle Alpi, con una popolazione pari più o meno a quella della Lombardia, vede il suo mercato del lavoro in perfetto equilibrio. Il tasso di disoccupazione è fermo appena sopra il 3%, il che permette di dire che ci sia praticamente piena occupazione. In Italia, per fare un confronto, il tasso di disoccupazione è quadruplo. Una differenza abissale è poi quella della disoccupazione giovanile (quella famosa fascia 15-24 anni): in Svizzera 3,6%, in Italia sopra al 40.Molti ora stanno criticando la Svizzera per l'esito di questo referendum, accusandola di razzismo nei confronti degli immigrati e dei frontalieri, insomma dei non-svizzeri che lavorano sul suo territorio. Ma è troppo semplice parlare di razzismo. Gli svizzeri non sono - nella maggior parte - razzisti, e hanno invece una società molto più multietnica della nostra, con un tasso di immigrati residenti sul loro territorio pari a oltre il 20%. Per capirci: in Italia siamo al 7,5%, e già la Lega e le altre forze di destra periodicamente farneticano di invasione e di "Italia agli italiani".  La Svizzera non vuole però che sul suo territorio si verifichi un dumping salariale. E siccome il meccanismo si è innescato, ormai da qualche anno, ne ha individuate le cause nei tanti lavoratori - spesso frontalieri, dunque nemmeno tecnicamente "immigrati" - che accettano di lavorare per salari immensamente inferiori rispetto a quelli cui gli oriundi sono abituati.Troppo facile anche accusare la Svizzera di non essere generosa, di voler mantenere la propria posizione di benessere rimanendo sorda alle richieste di aiuto e di solidarietà dei cittadini dei Paesi limitrofi. Nessuno può imputare a un Paese di essere benestante: poter assicurare ai propri cittadini un buon tenore di vita e condizioni più che dignitose di lavoro e di salario è un merito, non certo un difetto. La Svizzera è benestante, lo è più o meno sempre stata, ha una democrazia molto più evoluta della stragrande maggioranza degli altri Paesi occidentali, organizza le sue scelte politiche e amministrative sempre nell'ottica del medio-lungo periodo, fa leva sulla partecipazione dei suoi cittadini alla vita pubblica. A differenza dei suoi vicini, ha inoltre sempre tenuto perfettamente sotto controllo il suo debito pubblico. È comprensibile che non voglia sacrificare il benessere della sua popolazione sull'altare dell'Unione europea, della quale peraltro non fa parte.Ora, un sito molto interessante permette di effettuare delle proiezioni rispetto agli stipendi medi degli svizzeri. Un trentenne diplomato svizzero che lavora con compiti di semplice segreteria alle Poste guadagna 4mila franchi (3.200 euro) al mese. Se lo stesso trentenne con lo stesso titolo di studio lavora invece in campo sanitario, con mansioni un po' più complesse (ma non parliamo di medici), a tempo pieno prende mediamente 7mila franchi al mese (5.700 euro). E ancora: una 40enne che faccia la commessa in un negozio di abbigliamento, con una ventina d'anni di anzianità, percepisce uno stipendio mensile medio di 4.800 franchi (oltre 3.900 euro). Un assicuratore della stessa età arriva a 13mila franchi mensili, quasi 11mila euro.Certo, gli svizzeri si devono pagare di tasca propria l'assicurazione malattia e la pensione integrativa. E certo, il costo medio della vita è un po' più alto. Ma questi stipendi, parliamoci chiaro, nel resto dell'Europa centro-meridionale noi ce li possiamo sognare.A fronte di questo, infatti, gli svizzeri hanno gli italiani (ma anche i francesi e i tedeschi) alle porte. Con buoni studi e disoccupazione crescente, e che parlano perfettamente quantomeno una delle loro lingue. Persone che hanno voglia di lavorare e per le quali già 1.500 euro al mese sono un ottimo stipendio. Vi sono svizzeri, perlopiù giovani, che sopratutto in Ticino si sentono proporre stipendi mai sentiti prima, al ribasso, e quando rifiutano la risposta dei datori di lavoro è ormai sempre la stessa: "Va bene, tanto ho tanti italiani disposti ad accettare anche meno". Io sono e rimango contrarissima alla decisione popolare presa l'altroieri, peraltro con uno scarto microscopico. Ma penso che per commentarla si debba conoscerla e comprenderla appieno. Per esempio, qualcuno potrebbe pensare (facendo riferimento sopratutto alla percentuale pressoché bulgara di "sì" in Ticino) che gli svizzeri abbiano votato prevalentemente contro gli stranieri nelle zone ad alta immigrazione, e a favore nelle altre zone. Un grafico dimostra invece che è tutto il contrario. L'analisi del voto si rivela in questo caso palesemente contro-deduttiva: le zone a maggior tasso di immigrazione sono state quelle dove sono stati maggiori i "no" alla proposta del tetto ai lavoratori stranieri. Dunque paradossalmente a votare "contro la concorrenza degli stranieri" sono stati gli svizzeri per ora meno toccati dal problema, che però hanno dimostrato di temerlo molto e di essere stati convinti dalla retorica populista del partito che ha promosso l'iniziativa popolare "anti-immigrati", e cioè l'Udc.Ha vinto dunque una visione miope, diremmo un po' "leghista", per cui "prima gli svizzeri" diventa un diktat. Certamente nei prossimi mesi le diplomazie della Confederazione e dell'Unione europea dovranno lavorare alacremente per mettere a posto i trattati e renderli compatibili con questa decisione popolare di stampo conservatore e protezionista.Ma l'Europa non può fare lo struzzo, deve capire fino in fondo quale situazione pessima ha permesso al partito svizzero dell'Udc di proporre, portare avanti e a sorpresa addirittura vincere questo referendum. Deve porsi il problema del lavoro, perché è sul lavoro che si gioca in Europa la partita più importante dei prossimi anni. Lavoro: come uniformare e armonizzare le legislazioni, i livelli retributivi e previdenziali, come rendere Schengen conveniente per chi si muove e cerca lavoro in un Paese che non è il suo senza che ciò si trasformi in una tagliola per quei Paesi dove il lavoro è pagato meglio. Senza che si inneschino, come già accade, situazioni di dumping che sono insostenibili. L'Europa deve rendersi conto che se gli italiani sono disposti a lavorare per 1.500 euro là dove gli svizzeri non accetterebbero per meno del triplo, c'è un problema profondo da risolvere. Che non si può liquidare dicendo che gli svizzeri sono brutti e cattivi e sperando che l'Europa metta in atto rappresaglie di tipo economico e politico per punirli. Citando e parafrasando il titolo di un vecchio, bellissimo libro di Gian Antonio Stella: adesso gli albanesi siamo di nuovo noi. Sarà bene lavorare su questo, senza preconcetti, per tornare a livelli di occupazione e di retribuzione decenti in tutta Europa.

Case editrici, ci sono anche quelle che chiedono agli autori di pagare per pubblicare

Il sogno di tutti gli aspiranti scrittori è vedere pubblicato il proprio libro, magari sullo scaffale di una libreria in mezzo ai propri autori preferiti. La filiera dell’editoria, però, è molto complessa e per essere pubblicati, tanto dalle case editrici più importanti tanto da quelle più piccole, bisogna riuscire a far arrivare il testo a un editore che legge il libro, lo esamina, lo valuta, lo corregge e se lo ritiene interessante lo pubblica, dopo aver firmato un contratto che prevede una percentuale delle vendite all’autore. Ma c’è una scorciatoia: pagare per vedere il proprio volume pubblicato. Un escamotage che a molti sembra essere l’unica soluzione e che trova una spiegazione nei numeri del mercato editoriale fotografati dall’inchiesta EditoriaInvisibile dell’istituto ricerche economiche sociali dell’Emilia Romagna, pubblicato nell’aprile 2013, e dal Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia 2013 dell’Associazione italiana editori. Ricerche che mostrano una crescita, ben oltre 5mila, di case editrici in Italia di cui la stragrande maggioranza con non più di cinquanta nuovi titoli all'anno. Rientrare in questi pochi titoli è difficile, così per riuscire a farsi pubblicare, in tanti cadono nella trappola degli editori a pagamento, cioè di quelli che prima di stampare i libri chiedono dei soldi in anticipo agli aspiranti scrittori. Nonostante la legge 633 del 1941, più nota come legge sul diritto d’autore, abbia un articolo, il 118, in cui si definisce il contratto di edizione come quello in cui: «L'autore concede ad un editore l'esercizio del diritto di pubblicare per le stampe, per conto e a spese dell'editore stesso, l'opera dell'ingegno». Un testo che gli aspiranti scrittori dovrebbero tenere a mente perché in qualche modo tutela proprio la loro opera e il loro lavoro.Il tema è ritornato alla ribalta a inizio dicembre 2013 durante la fiera Più Libri Più Liberi, quando il direttore Fabio Del Giudice ha vantato i risultati raggiunti dall’evento che in molti, invece, hanno criticato perché comprendeva anche molte case editrici che si fanno pagare dagli scrittori. Una delle critiche più aspre è arrivata da Carolina Cutolo che dal blog Scrittori in causa, organismo indipendente di confronto e assistenza legale sui diritti degli autori, ha commentato che «per contrastare finalmente l’editoria a pagamento bisognerebbe cominciare ad escludere dalle fiere del libro tutti gli editori che chiedono contributi agli autori». Dimostrando con calcoli precisi che la perdita reale per le fiere in questione non sarebbe così grave in confronto alla spesa complessiva di organizzazione. E soprattutto non passerebbe il messaggio, che invece in questo modo sembra quasi leggersi tra le righe, che anche i grandi editori non ritengono sbagliata la pubblicazione a carico dell’autore. La proposta della Cutolo non è, però, condivisa da Ernesto Ferrero, direttore editoriale del Salone internazionale del libro di Torino, che ad Articolo36 si lascia andare, in una lunga intervista, a una dichiarazione esplosiva e che sicuramente farà discutere gli addetti ai lavori: «C’è chi si approfitta del desiderio di questi autori di essere pubblicati, ma fa parte della libera contrattazione e delle libere scelte umane. A un autore consiglierei molta prudenza e attenzione, ma non vedo perché queste case editrici debbano essere eliminate».Ma chi sono e quanti questi editori a pagamento? Un censimento non esiste, ma gli addetti ai lavori hanno provato in più occasioni a fare luce su questo tema. Prima fra tutti è stata Miriam Bendia con Editori a perdere in cui raccontava la richiesta avuta da una casa editrice di pagare 11 milioni di lire dell’epoca per vedersi pubblicato il volume. Da allora molti addetti ai lavori hanno continuato a raccontare sempre la stessa storia: l’ha fatto anche Loredana Lipperini sul suo celebre blog. Eppure cercando in rete si trovano offerte agli scrittori del domani che lasciano perplessi gli attenti lettori. Ed esistono anche siti internet che elencano tutti i concorsi letterari a cui gli aspiranti romanzieri possono inviare i propri manoscritti con versamenti dai 10 ai 40 euro per avere, in caso di vittoria, attestati, targhe e la tanto agognata “notorietà”. Quella che una volta arrivava dopo anni di fatica, soprattutto grazie al duro lavoro che facevano i talent scout all’interno delle case editrici: gli editor. Il loro compito è, o forse sarebbe meglio dire era dato che si tratta di una razza in via di estinzione, quello di fiutare il talento dietro ai manoscritti inviati e investire su quegli autori sconosciuti prendendosi il rischio, e in seguito il merito, di lanciarli. Un percorso ridotto da alcune case editrici e tagliato del tutto da altre perché non si può più investire tanto in pochi scrittori e magari non vendere. Bisogna puntare alla massa per conquistare più quote di mercato e si finisce per pubblicare qualsiasi cosa – come alcuni librai denunciano – per vedere solo dopo, con le vendite, come va a finire. «Che si produca troppo, questo mi pare evidente» ha dichiarato ancora Ferrero nell'intervista ad Articolo36, che però sostiene che gli editor esistano ancora e lavorino bene: «Mi sembra che continuino a cercare e investire molto sui giovani ed esordienti, che oggi mi sembra la categoria seguita con più attenzione».Ma se il direttore editoriale del Salone internazionale del libro di Torino non crede che le case editrici a pagamento vadano eliminate perché «vanno incontro a chi non riesce a pubblicare con gli editori di primo livello», ben diversa è la posizione del presidente dell’associazione italiana editori, Marco Polillo, che in più occasioni ha dichiarato di essere contrario alle case editrici a pagamento definendo «stampatori» gli editori che si comportano in questo modo. Niente, però, è stato fatto fino ad ora per controllare questa situazione. Pochissime sono, infatti, le fiere che hanno eliminato l’editoria a pagamento dai propri stand: lo ha fatto ad esempio il Flep, Festival delle letterature popolari, diretto e organizzato da Terranullius  un portale che pubblica i volumi in copyleft e che ha un’idea ben chiara degli editori a pagamento. Escludono questo genere di editoria anche le fiere Codice a Sbarre e Liberi sulla Carta, una goccia però nel mare magnum dei tanti altri eventi che invece non vogliono rinunciare a questi falsi editori.Recentemente, poi, sono arrivati segnali per nulla incoraggianti dalle grandi case editrici e che sono rimbalzati da una testata all’altra: se gli agenti letterari confermano di ridurre sempre di più gli anticipi sulla stampa dei libri, Mario Baudino su La Stampa ha pubblicamente rivelato che, come anche molte altre case editrici già fanno sopratutto con gli autori esordienti o meno noti, la Mondadori ha moltiplicato i contratti ad anticipo zero. Un genere di contratto che Ferrero nell'intervista ad Articolo36 definisce «nullo», spiegando che «un contratto che non prevede un corrispettivo in danaro anche minimo, secondo me può essere impugnato. Vale la stessa regola dell'opzione sul secondo libro: se l'editore vuole averla me la deve pagare, se non lo fa non vale niente». Con questo tipo di contratto le case editrici – grandi o piccole non ha molta importanza – condividono il rischio di pubblicare il testo e quindi, nero su bianco, garantiscono di pagare lo scrittore solo quando, e se, il libro venderà. Normalmente, invece, una casa editrice nel momento in cui firma un contratto con l’autore del libro versa un anticipo sulle vendite presunte, quindi i diritti, dell’opera. Una somma che resterà allo scrittore anche in caso di un basso volume di vendita. Una cifra che è ben giustificata perché un libro non si scrive dall’oggi al domani ma è frutto di mesi e a volte di anni di lavoro: lunghi periodi che vanno adeguatamente ripagati proprio con quell’anticipo che oggi è sempre più difficile avere. Senza contare che si toglie ogni possibilità per gli scrittori esordienti di avere prospettive reali di provare a vivere del proprio lavoro.Visto che in Italia ci sono tanti editori e scrittori, ma pochi lettori - se si considera che solo un cittadino su due dichiara di leggere almeno un libro all’anno - a uno scrittore che voglia pubblicare il suo libro si può consigliare solo di studiare bene la casa editrice a cui spedire il proprio volume, di non farsi abbindolare dalle promesse di pubblicazione facili e di ricordarsi che il lavoro va sempre pagato anche se si è degli esordienti. Perché il mercato degli editori a pagamento entrerà in crisi solo il giorno in cui gli scrittori capiranno che essere pubblicati a tutti i costi non è necessariamente sinonimo di vendita e di successo.     Foto quadrata: di FranArtPhotography [in modalità creative commons]

Concorsi, il ministero rassicura i vincitori: «Assunti entro il 2016». Enti territoriali esclusi però

I prossimi tre anni si annunciano decisivi per il futuro dei vincitori e degli idonei di concorsi pubblici in attesa di assunzione. Fino al 31 dicembre 2016 i ministeri e le altre amministrazioni centrali dello Stato saranno infatti vincolate ad effettuare nuove assunzioni esclusivamente attingendo dalle graduatorie in vigore. In tale modo, come spiega in questa intervista ad Articolo 36 il capo dipartimento della Funzione pubblica Antonio Naddeo, lo Stato conta di assorbire gran parte delle circa 2mila persone in lista di attesa per un posto in un'amministrazione centrale. Minori certezze attendono invece le decine di migliaia di vincitori e idonei di concorsi banditi da regioni, comuni e altri enti territoriali, a cui neppure il nuovo decreto legge 101/2013 è riuscito ad imporre obblighi in materia di assunzioni.Tra vincitori ed idonei di concorsi pubblici si stima che ci siano oggi tra le  70 e le 100mila persone in attesa di un posto di lavoro in una pubblica amministrazione. Dottor Naddeo, secondo lei questo numero è realistico?Se parliamo di tutte le amministrazioni, incluse le regioni, gli 8mila comuni, le oltre 200 Asl e anche qualche provincia, sì: qualche anno fa avevamo stimato un numero che si aggirava tra le 60-70mila persone tra vincitori ed idonei.Ma com'è stato possibile che si sia venuto a creare questo enorme bacino di persone, in molti casi in attesa da anni per un posto di lavoro che sulla carta dovrebbe già essere loro?Il blocco del turn over, ovvero la possibilità di sostituire i dipendenti andati in pensione con nuove risorse di personale, ha messo un freno molto forte alla possibilità di assunzione da parte delle pubbliche amministrazioni.  Che però, per un certo periodo di tempo, hanno avuto la possibilità di bandire comunque nuovi concorsi. Se in un'amministrazione erano disponibili poniamo dieci posti, si è fatto un concorso per dieci posti, anche se il blocco delle assunzioni consentiva di assumere quell'anno al massimo due vincitori. Così nel tempo si è venuto a creare questo bacino. Per quanto riguarda i ministeri, gli enti  pubblici non economici e le altre amministrazioni centrali, questa asimmetria tra numero di posti messi a bando e reale possibilità di assumere è stata superata grazie ad una norma che, già da alcuni anni, impone la richiesta di un'autorizzazione per bandire un nuovo concorso. Un'autorizzazione che diamo noi come Funzione pubblica e il ministero dell'Economia, non solo sulla base dei posti scoperti, ma anche in relazione al regime delle assunzioni, che per il  2014 è ad esempio fissato nella misura del 20% delle uscite.Non essendo soggette a questo filtro, le amministrazioni territoriali hanno invece continuato molto spesso a fare concorsi per il totale dei posti che si rendevano liberi.Regioni, comuni e gli altri enti locali restano fuori anche dai nuovi obblighi imposti dal decreto 101/2013: in particolare dal divieto di bandire nuovi concorsi in presenza di graduatorie vigenti e l'obbligo di ricorrere al concorso unico nazionale. Eppure è proprio in queste realtà che si verificano molto spesso le situazioni più problematiche: basti pensare alla vicenda del maxiconcorso di Roma Capitale.Non è che con il decreto 101 non si sia voluto affrontare il problema: è il titolo V della Costituzione a vietarci di imporre obblighi a regioni ed enti locali, che in tale ambito godono di propria autonomia. Per quanto riguarda la questione di Roma Capitale ricordo che al momento in cui sono state bandite le procedure noi stavamo per avviare, tramite il Formez, un concorso analogo per il Comune di Napoli. Un'opportunità a cui stanno peraltro ricorrendo molte amministrazioni, che in questo modo sono sollevate non solo dalle incombenze che comporta un concorso, ma hanno anche la sicurezza che la procedura sarà gestita da personale che ormai ha acquisito una specifica professionalità in materia. Avevamo proposto la stessa modalità anche a Roma, che invece ha preferito gestire direttamente il concorso, rivolgendosi tra l'altro ad una società esterna. Risultato: il concorso di Napoli è durato un anno, dall'uscita del bando all'assunzione dei vincitori, che lavorano ormai da due anni…..mentre a Roma molte delle 22 procedure devono ancora concludersi e su tutto il concorso incombe l'ombra delle famose buste trasparenti ..Ho sentito la conferenza stampa in cui si annunciava che il concorso non sarebbe stato sospeso ma che gli atti sarebbero stati comunque inviati in procura. Faccio un discorso crudo: da un punto di vista amministrativo la procedura o è valida o non è valida. Se non fosse stata garantita la segretezza delle prove d'esame, il sindaco avrebbe dovuto annullare il concorso. Mandare tutto alla procura della Repubblica significa invece che sono state rilevate non delle irregolarità amministrative - come nel caso delle buste trasparenti - ma qualcosa di penale. Perché non affrontare alla radice il problema dell'assunzione dei vincitori di concorso modificando il decreto legislativo 165/2001? In base all'articolo 35 del decreto non esiste infatti un preciso vincolo di assunzione per l'ente che ha bandito un concorso, ma solo l'obbligo di attingere per tre anni dalla relativa graduatoria. Non sarebbe più coerente imporre l'assunzione dei vincitori all'amministrazione che ha bandito un concorso?Certamente in questo modo si farebbe maggiore chiarezza, ma bisogna considerare che così non avremmo più concorsi per venti o cinquanta posti , ma per uno, due o tre posti.  In una fase successiva a quella attuale ci si può comunque ragionare. Adesso siamo in un momento in cui, almeno per le amministrazioni centrali, la maggior parte dei concorsi è bloccata: fino al 2016 c'è l'obbligo di assumere dalle graduatorie aperte e contemporaneamente si dovranno aprire le procedure per i precari, ai quali il decreto ha comunque riservato il 50% delle assunzioni.Avete fatto una stima di quanti vincitori ed idonei sarà possibile assumere nel prossimo triennio? Una stima complessiva è impossibile: non conosciamo ad esempio qual è la situazione degli enti territoriali. Non per negligenza, ma proprio perché le amministrazioni locali non devono né  essere autorizzate, né sono tenute a comunicarci questi dati. Per quanto riguarda invece le amministrazioni centrali speriamo di assumere buona parte dei circa 2000 vincitori - che hanno ovviamente la priorità - e poi, se ci sarà la possibilità, anche gli idonei. Se la sente di dire qualcosa per rassicurare queste persone? Certo che me la sento!  Finora il problema non era mai stato affrontato in maniera diretta. Per prima cosa il decreto 101 ha prorogato tutte le graduatorie fino alla fine del 2016, introducendo nuove garanzie per i vincitori e idonei delle amministrazioni centrali. Anche se questa norma non si applica direttamente alle regioni e agli enti locali, essa costituirà in ogni caso un principio per la giurisprudenza che, su questa materia, si è già pronunciate varie volte vincolando anche agli enti territoriali ad attingere dalle graduatorie vigenti piuttosto che bandire nuovi concorsi. Infine bisogna considerare che le pubbliche amministrazioni cominciano davvero a soffrire la mancanza di personale: non si possono continuare a sostituire dieci persone che vanno in pensione soltanto con due. Se questa situazione dovesse protrarsi per altri due o tre anni finiremmo col mettere seriamente a rischio i servizi al cittadino.

Startup e occupazione, un binomio ancora acerbo

«Con le start-up rilanciamo l'occupazione». Nel settembre 2012 l'allora ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera annunciava così i provvedimenti contenuti nel decreto che ora porta il suo nome. Ma quanto queste misure hanno inciso in termini di posti di lavoro?«Stiamo studiando il fenomeno», afferma Andrea Cavallaro, responsabile dell'Osservatorio sulle start-up del Politecnico di Milano e coautore del rapporto “The Italian startup ecosystem: who's who”, pubblicato nello scorso ottobre da Italia Startup. «Gli Stati Uniti sono il Paese che sta sfruttando meglio questo fenomeno», aggiunge: «La Fondazione Kauffman, che si occupa da anni dell'impatto sull'economia delle start-up, ha evidenziato che negli Usa ogni anno un milione di posti di lavoro viene creato da aziende che hanno meno di un anno di vita, la quasi totalità delle assunzioni avviene in imprese che hanno meno di cinque anni e il 40% del Pil del 2010 è stato generato da società che non esistevano nel 1980». Tra queste, però, ci sono anche colossi come Google, che nel quarto trimestre del 2010 generava ricavi per oltre 8 miliardi di dollari e dava lavoro a 24mila persone.Numeri lontanissimi dalla realtà italiana, dove le start-up innovative iscritte al registro imprese hanno superato quota 1.500 con l'inizio del 2014 e il crowdfunding ha preso forma solo nell'autunno scorso con il lancio della prima piattaforma certificata dalla Consob. Eppure la realtà è in fermento: se ancora è difficile quantificare l'occupazione generata dalle nuove aziende, è pur vero che l'offerta di lavoro all'interno dell'ecosistema si sta strutturando. E proprio grazie a due start-up.“Storicamente”, per quanto si possa usare un termine di questo tipo per un fenomeno così recente, in Italia la ricerca di personale per le nuove imprese si è affidato ai social network, in particolare a Facebook. Annunci di lavoro compaiono quotidianamente sulla pagina “Italian Startup Scene”, comunità degli startupper italiani con oltre 14mila membri. Ma esistono anche gruppi dedicati, come “Start-up cercano web deigner e developer” o “Start-up cercano componenti per team”. Ora però sono nate due piattaforme riservate alla ricerca di personale da parte delle giovani imprese. In entrambi i casi il modello è Berlin Startup Jobs, un portale dedicato alle offerte di lavoro in una delle capitali europee dell'ecosistema.«In Italia una realtà del genere mancava, mi sono chiesto perché non lanciarla anche qui». E così nel giugno dello scorso anno Alessandro Balasco ha sviluppato Italian startup jobs, un progetto «dietro al quale non c'è alcun tipo di business plan, solo la voglia di offrire un servizio». A 35 anni è andato a ingrossare le fila dei "talenti in fuga", dato che si è appena trasferito a Berlino; racconta di aver lanciato il portale più che altro con un obiettivo culturale: «A me dispiace vedere che in una realtà come quella italiana non si riesca ad avere un'offerta di lavoro qualificata in un settore nel quale invece ci si aspetta che la gente sia più sveglia e illuminata».Per capire meglio basti pensare a quello che succede all'estero: «Quando leggi un annuncio la descrizione del lavoro è molto precisa, vengono indicate in maniera chiara sia la tipologia contrattuale che la retribuzione. In Italia questi sembrano essere argomenti tabù». E che invece devono essere messi bene in chiaro prima di pubblicare un annuncio sul suo portale. Ma se Balasco ha lanciato la sua piattaforma in un'ottica di servizio, nel senso che la pubblicazione di annunci è gratuita, Giuseppe Colucci e Marco Melluso lavorano a tempo pieno al loro progetto Startup Italia jobs. Anche in questo caso «il modello è quello di Berlino, città dove vivo, mentre il mio socio si trova a Milano», racconta Colucci. Attiva dallo scorso ottobre «abbiamo pubblicato tra i due e i tre annunci ogni giorno, una cinquantina solo a dicembre, un centinaio da quando siamo partiti». Ad essere interessate a questo portale non sono solo le start-up innovative. «Almeno il 50% di chi pubblica annunci non compare nell'elenco», perché non ha fatto domanda o semplicemente perché non possiede tutti i requisiti di legge. La figura più ricercata «è quella dello sviluppatore, sia di front-end che di back-end, su diversi linguaggi». Non mancano però «gli annunci per business development, sales e marketing, anche se in questo caso la richiesta è bassa e spesso viene offerto un tirocinio».Qualcosa si muove, dunque, anche se «in Italia parliamo di numeri ancora troppo bassi per avere un impatto sul mondo del lavoro. Certamente ce l'ha a livello di immaginario, si prefigura un futuro in cui i giovani abbiano possibilità imprenditoriali e siano in grado di offrire lavoro ad altri». Ma il percorso compiuto è ancora troppo breve perché già si riescano a cogliere i frutti dell'albero dell'innovazione.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it

Start-up, 300mila euro di fatturato l'anno: «Ma non si fidano nemmeno a farci comprare i computer a rate»

Un fatturato di 300mila euro nel 2013, in crescita del 40% rispetto all'anno precedente, un leasing attivo per l'auto aziendale, cinque soci che vivono della loro start-up e tre dipendenti, due a progetto e uno a tempo indeterminato. Eppure «solo da poco siamo riusciti ad avere un primo fido bancario, che ci permette una maggiore elasticità nei pagamenti. Ma non riusciamo a comprare l'hardware a rate: la finanziaria Apple ce l'ha negato, le catene della grande distribuzione non prevedono più questa formula per le srl perché hanno subito diverse truffe. E quindi abbiamo dovuto pagare subito i computer per intero, acquistandone un paio fissi che costano meno». A compilare questo cahier de doléances è Daniele Albanese, ingegnere informatico 29enne che con tre compagni di corso all'università di Tor Vergata ha creato nel 2011 JustBit, società che si occupa di fornire soluzioni Internet e dello sviluppo di applicazioni mobile. Senza dimenticare le spese assurde: per esempuo quando Albanese con i suoi soci Simone Notargiacomo, Francesco Pace e Manuel Cugliari, ha ceduto lo scorso anno il 4% delle quote della società al collaboratore Massimiliano Masciano, l'operazione è costata ben 800 euro «visto che abbiamo dovuto pagare le tasse su ogni transazione. Avremmo risparmiato se un solo socio avesse ceduto il 4%, ma dovevamo fare una cosa equa e così siamo arrivati a spendere una cifra importante».Sono questi alcuni degli ostacoli che la burocrazia italiana ha posto sul cammino di JustBit. La start up ha visto la luce tre anni fa per partecipare con l'applicazione “What's in my kitchen” agli “Application awards” indetti da Ericsson. Un concorso che gli intraprendenti startupper ingegneri vinsero aggiudicandosi un premio di 15mila euro e due anni di incubazione all'interno del Programma Ego, incubatore che il colosso svedese della telefonia gestisce a Roma. Ed è nell'ufficio messo a disposizione gratuitamente in via Anagnina che i quattro ingegneri hanno lavorato per far crescere la propria azienda. Nata come srl, con un capitale di 10mila euro suddivisi in parti uguali tra i quattro soci, vanta oggi una capitalizzazione di 100mila euro: «Abbiamo inserito Extended controls, applicazione sviluppata da Notargiacomo e Pace nel 2009, valutata 118mila euro da un perito». Questa app, capace nei primi due anni di vita di generare ricavi per 100mila euro, è valsa a JustBit anche l'accesso alle metriche relative ai download fornite da Google, dati che «ci hanno permesso di capire le potenzialità di questo mercato». Al punto che sono diverse le applicazioni sviluppate, che si uniscono ai servizi Internet forniti ai vari clienti. Quella di differenziare i settori di attività è stata una scelta consapevole: «Le aziende incontrano sempre maggiori difficoltà nei pagamenti, specialmente quelle che lavorano per la pubblica amministrazione, come alcuni nostri clienti», spiega Albanese: «Il fatto di mettere su iStore e sul market Android delle applicazioni proprietarie fa sì che raggiungiamo direttamente il consumatore. E così alla fine del mese l'assegno di Apple e di Google non ce lo toglie nessuno».Certo, per quanto importante, questa somma non è di per sé sufficiente a garantire da sola il pareggio di bilancio. «Tra costi del personale e spese di affitto arriviamo a 15mila euro al mese. Anche per questo è importante avere più clienti, così se uno è in ritardo con i pagamenti ce n'è sempre qualcun altro che salda le fatture». E così JustBit cresce, consolidandosi. «Il nostro dipendente a tempo indeterminato è partito con un contratto a progetto, l'idea è quella di stabilizzare il personale nel giro di un anno e mezzo, al massimo due. In questo modo cresce la società insieme ai dipendenti che sono legati all'azienda. Inoltre siamo tutti coetanei e si lavora in un clima di amicizia, disteso». Le noie, come si è visto, arrivano quando si ha a che fare con clienti insolventi, ma soprattutto con la burocrazia italiana.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it

Disparità salariale tra uomini e donne: davvero in Italia si sta meglio?

A guardare i dati italiani sul gender pay gap (la discriminazione retributiva tra uomini e donne a parità di mansioni) sembrerebbe quasi che l'Italia una volta tanto sia messa meno peggio degli altri Paesi. Nel 2011 la disparità di salario si attestava a quota 5,8%, più o meno stabile nella serie storica (nel 2008 era del 5,1%, e su valori simili anche nei periodi successivi). Una cifra che pur riferendosi al solo settore dell'industria, delle costruzioni e dei servizi, risulta di molto inferiore alla media europea, pari al 16,2%, o a quella di altri Paesi più avanzati sul piano economico come la Germania, dove raggiunge il 22%. L'apparenza però mai come in questo caso può ingannare. E a sottolinearlo è la Consigliera nazionale di parità, figura istituita nel 2006 «per la promozione e il controllo dell’attuazione dei principi di uguaglianza di opportunità e non discriminazione per uomini e donne nel mondo del lavoro». L'occasione è stata la conferenza prenatalizia di presentazione delle misure per l'occupazione femminile messe in campo dal ministero del Lavoro, dove insieme alla presidente nazionale dei consulenti del lavoro Marina Calderone ha approfondito la questione. «È vero che la disparità salariale è solo al 5,8 ma bisogna tener conto che in Italia le donne lavorano meno ed escono prima dal mercato» ha evidenziato la Calderone, ricordando come quella classifica elaborata incrociando le statistiche Inps, Istat, Eurostat e ministero del Lavoro fornisca la fotografia di una realtà parziale. E i rapporti sullo stato della disoccupazione lo confermano: secondo l'Istat nel 2013 gli occupati maschi erano più di 13 milioni, contro i 9 milioni di donne, che tra gli inattivi sono addirittura quasi il doppio, 9 milioni contro 5 di uomini. E questo nonostante la popolazione femminile sia superiore a quella maschile (31 milioni contro 29, secondo l'Istat, a dicembre 2010). C'è poi da prendere in considerazione un altro aspetto della disparità retributiva, come messo in luce dall'Eurostat: la sottile - a prima vista - differenza tra salario delle donne e degli uomini schizza improvvisamente in alto quando si analizza il mercato occupazionale dividendolo tra pubblico e privato, e il livello si porta a 3,8 nel primo caso e a ben 16,7 nel secondo. E la stessa subisce ulteriori fortissime variazioni se si prendono in considerazione altri criteri come l'età (qui il gender pay gap nel 2011 risulta specialmente concentrato nella fascia 25-34 anni), o gli ambiti lavorativi. L'istituto di ricerca segnala come una donna che lavora ad esempio nella manifattura percepisca il 14% in meno di un uomo (anche se in Germania ha vita ancor più dura: qui il salario diverge di 27 punti percentuali). C'è di peggio, come nel settore finanziario e assicurativo - dove si arriva fino al 23% in meno – o in altri settori designati come «altri servizi» dove il gap tocca il 26%. Una lettura più attenta delle rilevazioni indica quindi come la verità sia più complicata di come sembra e la strada per raggiungere una sostanziale parità tra uomini e donne nel mondo del lavoro sia molto lunga. Ancora una volta l'Europa cerca di correre ai ripari, fissando l'annullamento delle differenze retributive tra gli obiettivi da raggiungere entro il 2020, e dunque pungolando l'Italia e gli altri Paesi con performance più deludenti in questo campo. Una mini guida contro la disuguaglianza salariale recentemente predisposta dal ministero ricorda infatti che «la parità retributiva tra lavoratori e lavoratrici è inserita tra le priorità della Strategia Europea 2020 ed è uno degli obiettivi della road map 2011-2015 relativamente ad occupazione e diritti sociali». Uno dei passi per annullare lo scarto sarà per esempio quello di indagare sulla struttura – complicatissima in Italia – delle buste paga. Ad annunciare la creazione di una commissione ad hoc in questo senso, orientata anche al miglioramento delle possibilità di concilizazione vita-lavoro per le donne, è stata la consigliera nazionale di parità Alessandra Servidori: nel 2014 sarà avviata una «task force di consulenti e ispettori da inviare sui luoghi di lavoro per sapere come è fatta la busta paga, operativamente parlando e con strumenti che tutti capiscono» ha detto alla conferenza. Come spiega il vademecum, la retribuzione lorda si compone infatti da una parte di elementi fissi, tarati sulla contrattazione collettiva nazionale o di secondo livello (un esempio sono gli scatti di anzianità), e da elementi variabili, «spesso frutto di una scelta unilaterale del datore di lavoro o di una negoziazione tra le parti», chiarisce la guida, come ad esempio i premi di produttività o i superminimi. Ed è qui che la questione si fa come ovvio più scottante. Perchè se la fetta del salario determinata dai contratti collettivi non può dipendere dal sesso dei dipendenti, il discorso cambia per quel segmento della retribuzione non predeterminato, che può essere invece utilizzato «per discriminare sotto il profilo retributivo le lavoratrici», dice chiaro e tondo l'opuscolo: «Pertanto è a questi elementi che bisogna guardare con particolare attenzione per verificare eventuali discriminazioni salariali di genere». Anche perché un trattamento diseguale a seconda del genere comporta anche un impoverimento generale del Paese dal momento che questa distanza si riflette, come ha ricordato la presidente dell'Ordine dei consulenti del lavoro, «sulle pensioni del futuro». Gli addetti ai lavori non dovranno comunque creare niente di nuovo. Si tratta di sensibilizzare i cittadini su «una visione culturale», ha aggiunto la Calderone, perché gli strumenti normativi per far rispettare l'uguaglianza in ambito lavorativo ci sono già. Non solo l'articolo 36 della Costituzione, che sancisce il principio di una «retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto», ma anche il 37 comma 1, che vale la pena riportare: «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore». Senza dover aspettare i mesi necessari all'attuazione delle misure, per le donne discriminate dal punto di vista salariale è possibile sin da ora fare qualcosa, iniziando con una segnalazione. La via è rivolgersi alla Consigliera di Parità, alle Direzioni territoriali del lavoro, o all'Ordine provinciale dei Consulenti del lavoro, e tradurre così le chiacchiere nei «fatti concreti» auspicati da Marina Calderone - e da tutti coloro che hanno a cuore il problema dell'equità retributiva. Ilaria Mariotti

Pubblica amministrazione, il posto fisso è una chimera anche per chi vince un concorso

Dedicare anni e sacrifici per partecipare ad un concorso pubblico: superare le prove preselettive, gli scritti e infine gli orali; leggere il proprio nome tra i vincitori o gli idonei nella graduatoria finale e poi attendere altri lunghi anni per un'assunzione, che potrebbe anche non arrivare mai.Secondo stime accreditate sarebbero oggi tra le 70 e le 100 mila le persone che in Italia hanno superato una procedura selettiva pubblica senza però riuscire a coronare il sogno dell'assunzione. Colpa dei tempi biblici che occorrono per portare a termine un concorso, degli immancabili ricorsi, di una legislazione che ha progressivamente allungato la vita lavorativa dei dipendenti pubblici e dei tagli imposti alle dotazioni organiche; ma colpa soprattutto del famigerato blocco del turn over, che negli ultimi anni ha drasticamente ridotto la possibilità di rimpiazzare i lavoratori che vanno in pensione con nuove risorse di personale. Basti pensare che nel 2014 le amministrazioni potranno procedere a nuove immissioni in ruolo in misura non superiore al 20% dei pensionamenti; percentuale destinata a salire di 20 punti percentuali all'anno fino al 2018, quando si dovrebbe tornare finalmente all'equivalenza tra entrate e uscite.Dopo anni di immobilismo - in cui il legislatore si è per lo più limitato a prorogare la validità delle graduatorie - il governo Letta è di recente intervenuto sulla materia con una serie di norme grazie alle quali si conta di smaltire progressivamente queste interminabili liste di attesa. Fino al 31 dicembre 2016 l'art.3 del decreto legge 101/2013, vieta infatti alle amministrazioni centrali dello Stato di aprire nuovi concorsi prima di aver immesso in servizio tutti i vincitori collocati nelle proprie graduatorie, la cui validità è parallelamente prorogata per i prossimi tre anni. Prima di pubblicare un nuovo bando, gli stessi enti dovranno inoltre verificare l'eventuale presenza di idonei per il profilo ricercato all'interno delle graduatorie pubblicate a partire dal 1 gennaio 2007. Introdotta anche una regolamentazione più severa per l'utilizzo dei contratti flessibili, altra storica piaga dell'amministrazione italiana, che coinvolge altre 120mila persone, la cui posizione finisce molto spesso per confliggere proprio con quella di vincitori ed idonei, in un'assurda lotta per il posto di lavoro. Su questo fronte il decreto 101 introduce la possibilità di svolgere concorsi riservati al personale in servizio a tempo determinato da almeno 3 anni (negli ultimi 5) entro il limite massimo del 50 % delle risorse destinate alle assunzioni.Una delle novità più interessanti riguarda infine il così detto "concorso unico", ossia una procedura di reclutamento per i dirigenti e le figure professionali comuni a tutte le PA, indetto e gestito direttamente dalla funzione pubblica, che consentirà tra l'altro un evidente risparmio in termini di costi e al quale potranno eventualmente decidere di aderire anche Regioni ed enti locali.Il primo aspetto da tenere presente qualora si decida di intraprendere l'impervia strada di un concorso è che non esiste in realtà un preciso vincolo di assunzione da parte dell'amministrazione che lo bandisce: non soltanto rispetto agli idonei - coloro cioè che, pur avendo superato tutte le previste prove, non si sono collocati nel numero delle posizioni messe a concorso - ma neppure dei vincitori.  La legge che regola la materia, il decreto legislativo 165/2011, (art. 35 comma 5 ter) si limita infatti a stabilire che «le graduatorie dei concorsi per il reclutamento del personale presso le amministrazioni pubbliche rimangono vigenti per un termine di tre anni a partire dalla data di pubblicazione». Ciò significa che in questo arco temporale l'amministrazione potrà assumere nuovo personale con contratto di lavoro a tempo indeterminato soltanto attingendo da tale graduatoria, «ma se l'ente decide di non assumere, nessuno può obbligarlo» puntualizza il presidente del Comitato nazionale XVII Ottobre, Alessio Mercanti, 34 anni, che dal 2007 porta avanti la causa dei vincitori e degli idonei mai assunti dalla Pa ed è diventato un vero e proprio punto di riferimento sulla materia - impegno tanto più meritorio considerato che Mercanti è già un dipendente pubblico presso l'Inail. «Tra i casi più gravi ci sono al momento il concorso per il ministero della Giustizia, con vincitori che attendono un'assunzione da cinque anni; la vicenda dei 107 posti banditi nel 2008 dall'Istituto del Commercio estero, poi soppresso e in seguito ricostituito come Agenzia e quella dei 404 vincitori del concorso Inail del 2007. La vicenda più eclatante resta però quella del concorso per restauratori bandito nel 2000 dalla Regione Sicilia dove, tra ricorsi e altre vicissitudini, la graduatoria finale è stata pubblicata nel 2011 e ancora non è stato assunto neppure un vincitore» spiega Mercanti. Al di là delle stime, le proporzioni di quest'isola di senza diritti restano per lo più ignote: l'unica rilevazione disponibile, effettuata nel 2011 dal dipartimento della Funzione pubblica sulle graduatorie approvate dopo il 30 settembre 2003, indicava una percentuale di vincitori in attesa di assunzione pari al 25% su un totale di  7.164 posti messi a bando dalle sole amministrazioni dello Stato. Tra gli esempi meno virtuosi ci sono proprio i ministeri, con una percentuale di assunzione di vincitori di appena il 53 per cento. Numeri che non includono peraltro né il comparto sicurezza, né - soprattutto - il vastissimo arcipelago dei concorsi banditi dagli enti locali, regioni e soprattutto comuni, dove i numeri potrebbero anche essere più inquietanti. «Rispetto alle amministrazioni centrali, che devono sempre essere autorizzate sia a bandire nuovi concorsi sia ad effettuare le relative assunzioni, gli enti locali sono soggetti a minori controlli».Su questo fronte i maggiori problemi per vincitori, idonei come anche per candidati che devono ancora terminare una procedura tendono a presentarsi molto spesso a seguito di nuove elezioni: «Quando cambia una giunta i nuovi amministratori sono di norma poco favorevoli all'assunzione dei vincitori» rileva il presidente del comitato XXVII Ottobre. «Anche se si è del tutto estranei ai retaggi politici, in molti casi si finisce per pagare il fatto che il concorso sia stato bandito con la vecchia gestione. In questo caso forse l'obbligo del concorso unico avrebbe un senso, ma è non è facile sfilare ad un sindaco o ad un presidente di regione il potere di bandire un concorso pubblico, che è un potere enorme in termini di consenso». Ci sono ovviamente delle eccezioni: tra le storie di concorsi locali a lieto fine c'è ad esempio quella del Comune di Napoli, dove il sindaco Luigi De Magistris ha di recente deciso di adottare le graduatorie nate con la precedente consiliatura, dando il via libera a 235 nuove assunzioni. Restano invece nel limbo dell'incertezza i partecipanti del maxiconcorso per Roma capitale, una delle più grandi procedure mai bandite da un ente locale, fortemente voluto nel 2010 dalla giunta Alemanno e sul quale il nuovo sindaco Ignazio Marino ha avanzato nelle scorse settimane pesanti ombre di irregolarità, arrivando a minacciare l'annullamento di tutte le 22 procedure selettive, per un totale di 1995 posti, per i quali avevano presentato domanda 300mila candidati. Tutto considerato appare legittimo porsi la domanda se valga ancora la pena investire nel percorso che, stando all'articolo 97 della Costituzione, resta pur sempre la via ordinaria per accedere ai pubblici impieghi. In merito la posizione del presidente del Comitato XVII ottobre è netta: «no, non penso che ne valga la pena, almeno sino a quando non si deciderà di cambiare sul serio le regole del gioco».

Centri per l'impiego: pochi addetti (e poco istruiti), e i giovani non li usano

In Europa, per cercare lavoro, è normale recarsi ai centri per l'impiego: uffici pubblici efficienti, con una forte interazione con le realtà imprenditoriali del territorio, in grado di offrire ai cittadini servizi efficaci e personalizzati e trovare per loro opportunità occupazionali adeguate nell'arco di pochi mesi (nei casi di eccellenza anche poche settimane). Anche perché il numero di addetti è proporzionato alla "clientela", e permette di fare in modo che ciascun operatore possa davvero farsi carico dei disoccupati a lui assegnati, "conoscerli per nome", elaborare per loro bilanci di competenze e piani di azione ad hoc. In Gran Bretagna il rapporto tra operatori e utenti, per esempio, è di uno ogni 24 disoccupati; in Germania di 1 a 49, in Francia di 1 a 70. La media italiana è di un addetto ai front office dei cpi per ogni 354 utenti.Forse è per questo che lo scorso anno hanno visto arrivare ai loro sportelli solo due milioni e 215mila utenti: tante le persone che hanno sottoscritto una Did, ovvero una dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro. È questo il bacino dei centri per l'impiego descritto nella prima edizione del “Rapporto di monitoraggio” resa pubblica qualche giorno fa dal ministero del Lavoro in collaborazione con il portale “ClicLavoro”. Un documento che descrive l'attività e la tipologia degli utenti dei 566 sportelli diffusi su tutto il territorio nazionale. Strutture che danno lavoro a 7.600 persone, delle quali però solo 5.300 svolgono un'attività di front office, sono cioè a contatto diretto con il pubblico. Uno dei problemi principali è il grado di istruzione dei dipendenti, davvero modesto: delle persone che dovrebbero prendersi in carico i disoccupati e portarli, con competenza e professionalità, a trovare un nuovo lavoro, solo una su quattro ha la laurea. La stragrande maggioranza (57,1%) si ferma al diploma, e un numero impressionante (15,8%) ha solamente la licenza media. Dal punto di vista dell'inquadramento contrattuale l'88,2% dei dipendenti dei Centri per l'impiego è inserito con un contratto a tempo indeterminato; un dato però molto variegato da Regione a Regione: si va dalla Sicilia, dove il 99,6% degli impiegati ha il posto fisso, al Molise dove questa tipologia contrattuale riguarda appena il 61,7% del personale.Un dato che salta all'occhio scorrendo le 89 pagine del rapporto riguarda la discrepanza tra i disoccupati censiti dall'Istat a fine 2012, pari a più di 2,7 milioni, e il numero di quanti si sono rivolti ai Cpi sottoscrivendo una Did. Una differenza che si spiega innanzitutto con le modalità di calcolo dell'Istituto nazionale di statistica, che considera disoccupati quanti abbiano cercato attivamente lavoro nelle quattro settimane precedenti l'intervista. Eppure, si legge nel rapporto, «il numero degli individui che sottoscrivono una Did tecnicamente può rappresentare una sovrastima del numero dei disoccupati». Questo perché la dichiarazione di immediata disponibilità «è condizione necessaria per avere accesso ad alcune prestazioni sociali». E quindi chi ne fa richiesta «potrebbe non essere affatto interessato a cercare un impiego». In altre parole, non necessariamente chi firma la Did è in cerca di lavoro: magari il riconoscimento è necessario per accedere a contributi di natura economica dagli uffici dei servizi sociali dei comuni.La regione che ha visto il maggiore afflusso agli sportelli è stata la Lombardia, dove nel corso del 2012 si sono presentate 297mila persone, seguita dalla Puglia con 255mila e dalla Campania con 243mila. Il numero di utenti non è però correlato né con la quantità di sportelli, né con la popolazione disoccupata. A questo proposito è interessante un raffronto tra la Lombardia e la Sicilia, le realtà con il maggior numero di centri per l'impiego sul territorio: 65 nella “locomotiva d'Italia”, altrettanti nell'isola. Nel primo caso i 297mila soggetti che hanno sottoscritto una Did rappresentano l'86,1% di una popolazione disoccupata che secondo l'Istat raggiunge le 346mila persone. In Sicilia, invece, a fronte di 319mila persone senza lavoro, solo 163mila si sono rivolte ai cpi: appena il 51,1%.E la proporzione non torna nemmeno se si considera la quantità di pratiche che devono essere seguite dai singoli operatori di front office. I 486 impiegati lombardi seguono infatti in media 613 persone l'anno, contro le 209 affidate ad ogni singolo operatore in Sicilia. Uno degli scopi per i quali il ministero ha deciso di stilare questo rapporto si legge in una nota per la stampa, è legato al fatto che questo monitoraggio è ritenuto «indispensabile per la realizzazione della Garanzia per i Giovani». Una misura da 1,5 miliardi per favorire l'ingresso nel mondo del lavoro degli under 25 alla quale sta lavorando una struttura di missione istituita al ministero. Secondo il rapporto nel 2012 sono stati solo 478mila gli utenti con meno di 25 anni che si sono rivolti ai Centri per l'impiego: tale numero corrisponde al 21,6% del totale. Il dato è molto variegato a livello territoriale: si va dai poco più di mille della Val d'Aosta agli oltre 66mila della Campania. Eppure non solo i giovani rappresentano più di un quarto dei disoccupati, ma questo sottoinsieme presenta anche il maggior numero dei Neet, ovvero persone che non studiano, non lavorano e non sono impegnate in un tirocinio. Basandosi sui dati Istat il rapporto individua poco meno di 5mila giovani che si trovano in questa situazione nel bacino di ogni centro per l'impiego campano, per un totale di 225mila ragazzi e ragazze fuori sia dal sistema della formazione che dal mondo del lavoro. Un dato che sale a 396mila persone se si allarga il raggio fino agli under 29. In Campania, come in tutta Italia dove secondo l'Istat nel 2012 i Neet erano 2 milioni e 110mila, la platea cui si rivolge la “Youth Guarantee” è molto ampia, quattro volte superiore al numero degli under 25 che hanno fatto riferimento ai Cpi per la ricerca di un'occupazione. Tutti numeri che rendono sempre più urgente l'attivazione, da parte del governo, della "Garanzia per i giovani".Riccardo Saporiti