Volontariato in crescita: chi lo fa è anche più felice

Ilaria Mariotti

Ilaria Mariotti

Scritto il 24 Gen 2015 in Notizie

Sarà perché il lavoro è sempre più scarso, la disoccupazione sale e tante persone hanno, volenti o nolenti, molto tempo libero. Sarà che a volte, in un mondo di consumismo, fa bene ritrovare il valore della semplicità e del dono. Sta di fatto che il volontariato, così come in generale tutto il terzo settore o comparto non profit che dir si voglia, è in forte ascesa. E non certo solo per la malavita che – come informa la cronaca  – ha attinto a piene mani da questo bacino. Chi sceglie questa strada lo fa perché ci crede davvero e per un'autentica spinta altruistica. Del resto chi l'ha detto che la soddisfazione personale arrivi solo dalle occupazioni retribuite? A censire il fenomeno è stato l'Istat insieme a CSVnet (Coordinamento nazionale centri servizio per il volontariato) e Fondazione Volontariato e Partecipazione.

A «offire il proprio tempo per gli altri» fa sapere alla presentazione Tania Cappadozzi, responsabile della ricerca, «sono 6,63 milioni di volontari operativi, di cui 4,14 attivi in organizzazioni». Considerando una settimana lavorativa standard da 36 ore, l’ammontare del lavoro volontario equivale a quello di circa 875mila unità occupate a tempo pieno. La sezione più cospicua è quella dei 45-65enni, quasi un quinto del totale. Più pigri i 25-44enni, che costituiscono solo 15% del totale. Al Nord est è concentrata la parte più attiva dei volontari (16%), seguiti da Nord ovest (13%) e Centro quasi a pari merito. Il Sud è invece fanalino di coda con un più ristretto 8% di persone che si impegnano per il prossimo. Ed è sbagliato credere che a dedicarsi agli altri siano risorse con poche chance di essere occupate: al contrario, la maggior parte di loro possiede una laurea e ha anche già un impiego.

La decisione di utilizzare quel tempo che avanza dopo il lavoro (sempre che ci sia, il lavoro) è quindi dovuta a una voglia di darsi da fare che prescinde dalla ricompensa economica. Corollario di questo profilo stilato dalla Cappadozzi è che il «benessere soggettivo», come lo definisce la ricercatrice, è più spiccato nei volontari rispetto al resto della popolazione. Tra i volontari organizzati - quelli cioè che prestano servizio per organizzazioni vere e proprie, a differenza dei non organizzati, che agiscono per conto proprio - la fiducia nel prossimo è superiore di quasi quindici punti rispetto agli altri: 35 contro 20%. Di pari passo cresce la soddisfazione nei confronti della propria vita (+11%) e l'ottimismo verso il futuro (+6%).

Il ritorno sul piano umano per chi esercita una qualche attività di volontariato è indiscusso: tantissimi dicono di «sentirsi meglio con se stessi, di aver allargato la propria rete di conoscenze, di aver addirittura cambiato modo di vedere le cose», sottolinea Riccardo Guidi della Fondazione Volontariato e Partecipazione, che ha curato una ripartizione dell'esercito dei volontari italiani particolarmente interessante. Ci sono quelli che lo abbracciano per «sopperire ai bisogni non soddisfatti della comunità e dell'ambiente», la metà circa, abitata soprattutto dalla fascia di mezzo dei 45-54enni (58%). Ci sono i volontari per amicizia, che lo praticano «per stringere e coltivare nuovi rapporti» (il 30% che però diventa il 40 nei ragazzi tra i 15 e i 24 anni), o per credo religioso (il 25%).

E poi c'è anche una piccola fetta che lo fa invece per «valere, ossia mettersi alla prova, valorizzare le proprie capacità o accrescere la propria occupabilità». Sono il 17% dei 4 milioni di volontari italiani organizzati, ma «i giovani tra i 14 e i 24 anni e tra i 25 e i 34 anni caratterizzano significativamente questo gruppo», spiega Guidi. Ed è qui che infatti si ristabilisce un ponte tra terzo settore e mondo del lavoro, tutt'altro che separati. Marco Musella, docente di economia politica alla Federico II di Napoli, ha illustrato nella sua ricerca come «il volontariato sia infatti propulsore di nuove professioni». Il professore lo ritiene «sperimentatore di nuove professioni, strumento di accumulazione di capitale umano e facilitatore dell'incontro tra domanda e offerta di lavoro». È in questo campo che si crea infatti l'esigenza di «operatori di primo contatto, che si dedichino all'accoglienza» ad esempio. Insieme a loro si rendono necessari «animatori di centri socio-educativi» che accompagnino le persone nella crescita e nel benessere personale attraverso la cosiddetta 'education', ovvero l'insieme dei processi formativi. Per rendicontare i progetti si crea spazio poi per «figure gestionali e amministrative di vari livelli», sottolinea Musella, che «reperiscano risorse e organizzino processi produttivi sui generis». E poi ci sono i progettisti, quelli che per mestiere devono conoscere le caratteristiche dei bandi pubblici e quindi essere in grado di formulare progetti che possano vincerli.

Qui si aprono possibilità anche per «un profilo alto, di tipo manageriale, del quale si avverte il bisogno in settori come la cultura, l'ambiente, il sociale, dove i processi produttivi avvengono sfruttando le reti relazionali corte e lunghe». Il volontariato «contribuisce alla creazione di capitale umano e all'incremento delle competenze trasversali». Non a caso le principali attività svolte nelle organizzazioni di volontariato sono in mano a specialisti delle scienze gestionali (per il 76% dei casi).  Il volontariato agevola pure il matching tra domanda e offerta di lavoro: anche nel non profit, come altrove, la partecipazione delle persone rende più facile la circolazione delle informazioni e quindi la creazione di nuovo «capitale umano».

Ilaria Mariotti 

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