Modello tedesco: tutti ne parlano, ecco in cosa consiste

Ilaria Mariotti

Ilaria Mariotti

Scritto il 06 Ott 2014 in Approfondimenti

Con un tasso disoccupazione inferiore al 5% (da noi è del 12), e una percentuale di giovani senza lavoro del 7,6 (in Italia del 44%), la Germania ha senz'altro qualcosa da insegnare al Belpaese in tema di mercato del lavoro. Specie ora che il premier Matteo Renzi ha dichiarato di voler prendere quel sistema a modello. Se ne è parlato nei giorni scorsi nel corso di un seminario presso la sede del Pd, su iniziativa di Cesare Damiano, presidente della Commissione lavoro alla Camera.

Tutti gli snodi di un accostamento dell'Italia al Paese leader d'Europa - ammesso che importare quello schema sia fattibile - sono contenuti nella rivista presentata all'evento e edita da Lavoro e Welfare, associazione presieduta da Damiano. A cominciare dalle politiche attive: «La Germania spende per politiche del lavoro più dell'Italia rispetto al Pil, ma la differenza sta soprattutto nell'allocazione di queste risorse» scrivono gli autori Romano Benini e Maurizio Sorcioni. Nello specifico in Germania più della metà è concentrata in formazione, orientamento, ricollocazione, mentre da noi la quasi totalità (80%) finisce in politiche passive, dunque ammortizzatori sociali come pensioni e cassa integrazione. Nel dettaglio, riferiscono Benini e Scorcioni, «dei 48 miliardi spesi per il lavoro, 24 se ne sono andati per servizi di attivazione del lavoro e centri per l'impiego» contro i 4 dell'Italia investiti nel segmento (su un totale di 27). Ai servizi per l'impiego sono andati 500 milioni. Un sesto rispetto al Paese guidato da Angela Merkel.

Bocciati anche gli incentivi fiscali alle assunzioni – effetto desiderato ma mai raggiunto
applicati dai precedenti governi. Per i due esperti la soluzione è invece lanciare «un sistema di incentivazione al risultato del reimpiego del lavoratore» come in Germania, dove i servizi per il lavoro incassano 2500 euro a lavoratore assunto. Lì «un'impresa che cerca un lavoratore ottiene un lavoratore, non uno sgravio».

Ridurre gli incentivi alle assunzioni comporterebbe un risparmio di 3 miliardi l'anno, da indirizzare «all'abbattimento dell'Irap e alla remunerazione per il reimpiego dei disoccupati». Tutt'altro che un aspetto marginale: è proprio grazie alle politiche attive che chi si trova impantanato nella precarietà potrebbe trovare la ricetta per uscirne. Si conclude un lavoro a termine, ma – grazie ai sistemi di formazione e inserimento – ne inizia in un altro. Nel frattempo coperti da sussidi di disoccupazione. Damiano, nel suo articolo, lo spiega così: «La deregolazione attuata con la cattiva traduzione fatta dai partiti della destra delle intuizioni di Marco Biagi non è stata nient'altro che il tradimento del pensiero del giuslavorista» ragiona. Biagi aveva concepito «accanto alle nuove flessibilità, una tutela nei momenti di disoccupazione da realizzare attraverso ammortizzatori sociali universali». Da noi invece - «con Berlusconi al governo» sostiene Damiano - si è sostenuta la flex e «rimandata la security». Un messaggio mal interpretato che ha portato alle conseguenze drammatiche di oggi.

Ma, si sa, con un debito pubblico quasi doppio rispetto alla Germania (136 contro il 78) e il tetto del deficit sul Pil al 3% da rispettare, solo con un miracolo si potrebbe replicare l'indennità di disoccupazione generale per i lavoratori dipendenti (biennale) e il salario di cittadinanza per le persone in difficoltà su cui possono contare i tedeschi.

Speranze di emulazione potrebbero esserci per il sistema duale di alternanza scuola-lavoro, in Germania «davvero vincente» spiegano ancora Benini e Sorcioni, con una «vera alternanza, certificazione delle abilità acquisite e accesso possibile anche all'istruzione universitaria». La proposta per l'Italia prevederebbe misure come «la definizione di un sistema nazionale di riferimento, la qualificazione degli istituti tecnici, l'instaurazione di un rapporto tra sistema formativo e imprese». E infine, «la promozione per gli ultimi anni di corso di tirocini obbligatori e la sperimentazione di percorsi di placement tra istituti formativi e imprese del territorio».

Anche i minijobs – contratti part time a 5-700 euro al mese
potrebbero rappresentare una via d'uscita dal tunnel, se non altro con l'obiettivo di far emergere il lavoro nero, soprattutto femminile. In Italia esiste uno strumento simile, il lavoro accessorio, secondo gli esperti «da rendere più agevole, accessibile e sistematico» perché potrebbe ridurre «l'inattività di alcune fasce della popolazione più povera o sostenere percorsi di attivazione».

La sede del seminario, il Nazareno, era la stessa del durissimo scontro sull'articolo 18 avvenuta giorni fa all'interno della direzione democratica. Finito poi con la vittoria di Renzi sull'applicazione della norma solo per i licenziamenti disciplinari o discriminatori. Lo ha ricordato Gianni Cuperlo, dirigente Pd, che all'incontro ha riflettuto sul fatto che «un approfondimento come questo avrebbe potuto cambiare le sorti della discussione». Sottolineando che l'abolizione dell'articolo 18 non sposterebbe di una virgola i dati sulla disoccupazione «senza gli investimenti in politica industriale».

In Germania, è vero, licenziare è meno complicato. Ma è tutto il sistema a essere improntato alla garanzia del lavoratore. In primis grazie alla «cogestione», ovvero i comitati aziendali che per il 50% sono formati dagli stessi lavoratori. Insieme ai consigli di amministrazione decidono sul futuro delle imprese e risolvono i problemi dei singoli, riducendo al minimo i conflitti aziendali. «Sarebbe divertente ascoltare il punto di vista di Marchionne sull'argomento e delle multinazionali che abbandonano il territorio nazionale senza rendere conto a nessuno» ha concluso, con un certo sarcasmo, Cesare Damiano.

Ilaria Mariotti  

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