Disoccupazione in calo in tutto il mondo tranne che in Italia: ecco perché

Ilaria Mariotti

Ilaria Mariotti

Scritto il 01 Ott 2014 in Articolo 36

Sono nere le previsioni del Cnel, il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, riguardo la condizione dell'occupazione in Italia. «Una discesa del tasso di disoccupazione ai livelli pre-crisi, ovvero intorno al 7%, sembra irrealizzabile». È quanto si legge nel Rapporto sul mercato del lavoro 2014, in cui è spiegato che per ottenere un risultato simile ci vorrebbe «la creazione da qui al 2020 di quasi due milioni di posti di lavoro, ovvero un incremento medio annuo dell’occupazione pari all’1,1 per cento». Per le condizioni in cui versa l'economia italiana, di fatto una chimera.

A ben vedere - ed è questo il paradosso italiano - non sarebbe neppure così elevato il numero di occupati persi dal periodo pre-crisi (2008) a oggi. Secondo i dati raccolti, nel quinquennio che ci precede la diminuzione delle persone con un impiego è stata pari al 4%, meno ad esempio della stessa Danimarca (-5,5%). Senza contare poi i casi più estremi, come la Grecia (-23%) e la Spagna (-16%). Vale a dire che nel nostro Paese, al contrario che altrove, la perdita  di posti di lavoro è stata decisamente più contenuta: un milione, contro i tre della Spagna tanto per fare un esempio (pur tenendo conto che le cifre sono influenzate dalla forte incisività della Cassa integrazione in deroga, che ha in un primo momento sopperito al decifit occupazionale).

Il problema tutto italiano resta quindi quello della stagnazione, dovuta all'incapacità di fornire al mercato gli input necessari a ripartire. In passato si sono addirittura adottate politiche che hanno contrastato l'occupazione, invece di stimolarla, azzarda il Cnel. Una su tutte la riforma delle pensioni targata Elsa Fornero. Il ragionamento è semplice: «L’ingresso di nuovi lavoratori nell’area dell’occupazione è frenato dal ridimensionamento della naturale evoluzione della domanda sostitutiva di lavoro, data la tendenza a rinviare l’uscita per pensionamento, anche per effetto delle riforme varate negli anni scorsi». Conseguenza: «Le coorti più giovani restano così ai margini del mercato, non trovando spazi per un ingresso. In alcuni casi restano nello stato di disoccupato, in altri casi rinunciano alla ricerca di nuove opportunità per scoraggiamento». Tanto che il segmento dei lavoratori over 60 si è guadagnato nell'ultimo biennio uno scatto nelle percentuali sull'occupazione di almeno tre punti, mentre di pari passo è scesa l'occupazione dei 25-34enni. I ventenni a casa e i sessantenni al lavoro dunque: l'immagine del Paese attuale.

Ma i  nodi non si limitano 
a questi aspetti. Oltre a politiche controproducenti, ci sono anche quelle mai attuate. Osserva Stefano Scarpetta, direttore per le politiche del lavoro dell'Ocse, che la stessa Spagna ha ad esempio adottato un regime di riduzione dei salari «pari al 2%, una strategia molto costosa per i lavoratori ma tale da riuscire a mantenere posti di lavoro». Il sistema, spiega l'esperto, «non ha previsto l'abbassamento del salario orario, ma altre forme di compensazione», una su tutte sul cosiddetto overtime, gli straordinari. Una pratica adottata anche negli Stati Uniti e che ha di fatto bloccato l'emorragia occupazionale. Proprio negli Usa la disoccupazione ha raggiunto il suo picco intorno al 2009-2010 (circa il 10%), per poi invertire la tendenza arrivando a quota 6% negli ultimi dodici mesi, per di più con un trend calante. 


Anche l'Europa sta facendo il suo giro di boa. Passati gli anni peggiori della crisi, dal 2013 in poi i tassi dei senza lavoro hanno cominciato a decrescere, mentre l'Italia continua a restare al palo e l'Istat sforna senza sosta statistiche negative (le più recenti quelle sulla disoccupazione giovanile, ormai al 44%). Certo è che in Italia intervenire su salari già congelati e tra i più bassi d'Europa potrebbe non essere la scelta più lungimirante.

Su questo il Cnel è molto chiaro: «La caduta nei livelli occupazionali e la stagnazione dei salari reali hanno determinato una riduzione dei redditi disponibili familiari, dei quali i redditi da lavoro rappresentano una componente prevalente, e un generale impoverimento delle famiglie italiane» si legge nel rapporto. Per di più «tale effetto è stato più pronunciato nei percentili inferiori della distribuzione, ovvero per quei lavoratori che ricevono retribuzioni più basse», e dunque «la distribuzione dei redditi (netti) da lavoro è cambiata evidenziando l’aumento delle diseguaglianze». Una conseguenza da scongiurare sarebbe proprio quella di accentuare ancora di più le disuguaglianze che già caratterizzano l'Italia più degli altri Paesi.

Ed è sempre su questo fronte che il Cnel interviene per sconfessare una delle credenze più comuni, e cioè che il costo del lavoro in Italia sia tra i più alti
. Non è così. Dal confronto internazionale emerge un'altra realtà in cui l'Italia si piazza circa a metà della classifica dei 28 Paesi Ocse. Prendendo come base il costo orario nella manodopera dell'industria, il Belpaese si posizione al 14esimo posto, sotto Germania, Francia e Usa e appena sopra il Regno Unito.

A dominare è invece nella classifica che riguarda il cuneo fiscale (al quinto posto dopo Grecia, Francia, Belgio e Austria). «Secondo il dato Ocse il cuneo fiscale per il lavoratore singolo era pari nel 2013 al 47,8%, contro una media dell’Europa a 27 paesi di 41,1 e una media Ocse ancora più contenuta, pari al 35,9%» è scritto nell'indagine.

È qui che infatti il governo Renzi ha tentato di sferrare il colpo – tutt'altro che decisivo – degli 80 euro in più in busta paga, diminuendo di fatto per una fetta dei lavoratori l'incidenza dell'Irpef. Ma finora è stato troppo poco per il rilancio dei consumi. L'unica possibile efficacia si darebbe «nel caso in cui fosse reso permanente», sostengono dal Cnel: in quel caso «potrebbe avere effetti sul mercato del lavoro, dato che per una fetta non trascurabile della popolazione riduce il cuneo fiscale e modifica di fatto, e non poco, l’aliquota Irpef effettiva». Per ora tuttavia solo previsioni alimentate dalle speranze. «L’uscita del sistema dalla crisi non è agevole» afferma ancora il rapporto, considerati anche i margini «limitati di cui gode la nostra politica di bilancio». La sfida ora è tutta per il premier e il ministro dell'Economia.

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