Precari e pensioni, le stigmate dei contributi bassi e il rischio povertà

Eleonora Voltolina

Eleonora Voltolina

Scritto il 24 Mar 2015 in Editoriali

"Noi giovani" avremo mai una pensione decente? Chi è nato dalla seconda metà degli anni Settanta in poi, che ha cominciato a lavorare a partire dagli anni Novanta, tra quarant'anni riuscirà a mantenersi con quello che percepirà di pensione? Su queste generazioni si è scatenata, in Italia, una serie di calamità pressoché apocalittiche.

Prima c'è stato il cambio di modello pensionistico, da retributivo a contributivo, in vigore integralmente su tutti coloro che hanno cominciato a lavorare nell'ultimo ventennio (esclusi coloro che entro il 1995 avevano già accumulato 18 anni di contributi). Il modello retributivo - valido per i 9/10 delle pensioni oggi erogate - prevede che uno percepisca una cifra quasi uguale al suo ultimo stipendio. Il contributivo invece calcola al centesimo la pensione sui contributi versati: un sistema più sostenibile per le casse dello Stato, ma molto meno generoso per chi con la pensione ci deve vivere.

Poi ci sono state le riforme del mercato del lavoro, che tra il 1997 e il 2003 hanno ridisegnato contratti e tutele, rendendo molto più precario e accidentato quantomeno il primo periodo lavorativo dei giovani. Un "primo periodo" che prima si contava in mesi, adesso purtroppo in anni. E poiché oggi un giovane cambia spesso lavoro, quando ne trova uno,
non di rado i suoi contributi finiscono spezzettati in più casse previdenziali, non solo l'Inps: e le procedure per "ricongiungere" questi contributi sono bizantine e spesso costose. Col risultato che spesso si "abbandonano", talvolta senza nemmeno saperlo, dei contributi versati.

Inoltre in Italia si viene pagati poco: specialmente i giovani percepiscono retribuzioni bassissime, a volte irrisorie. Il fatto di essere mal retribuiti ovviamente comporta una impossibilità di risparmiare - e infatti molti giovani erodono, di fatto, i risparmi delle loro famiglie d'origine che si svenano per pagare case, integrare i magri stipendi e far fronte alle spese improvvise - e una impossibilità di pagarsi pensioni integrative.

Infine ci si è messa la crisi: dal 2007 in poi una emorragia di posti di lavoro, di cui hanno fatto le spese prima di tutto coloro che avevano contratti a termine, cioè sopratutto i giovani. Tutte queste circostanze messe insieme producono un risultato pessimo per quanto riguarda il futuro: la maggior parte dei giovani oggi trova lavoro con difficoltà, lavora in maniera discontinua e dunque paga contributi in maniera discontinua, viene pagata poco e dunque versa quote contributive molto basse. Tutto questo fa sì che i loro, direi i nostri, contributi siano miseri. E col sistema contributivo lo dice la parola stessa: contributi miseri uguale pensioni misere.

La riforma Fornero delle pensioni, che ha creato tanti malumori e di cui oggi da più parti si invoca una revisione, ha rivisto al rialzo l'età pensionabile - creando peraltro l'allucinante problema degli esodati - ma non ha affrontato questo problema. Che è invece l'unico aspetto che davvero inciderà sulla qualità della vita di almeno due-tre generazioni.

Si rincorre una illusione: che chi ha cominciato male, accumulando contributi bassi e discontinui e spezzettati in varie casse nei primi cinque o dieci anni di vita lavorativa, poi possa improvvisamente andare molto meglio. Certo, lo auspichiamo tutti: ma oggettivamente, realisticamente tutti i precari sottopagati nati tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Novanta non vivranno un miracolo italiano. L'Italia non ricomincerà a crescere come faceva negli anni d'oro, a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio degli anni Sessanta, quando la crescita era del 7% annuo. Siamo in stagnazione da anni, direi da decenni; se ci riprenderemo, ed effettivamente stiamo cominciando a riprenderci, ci vorranno certamente molti anni perché il mercato del lavoro ridiventi florido.

La mia generazione e quelle successive dunque porteranno sempre le "stigmate" di questo inizio funesto: la loro pensione subirà sempre un drastico ribasso proprio a causa degli anni sfortunati. Alla politica dunque si deve chiedere con forza di affrontare questo problema, e ideare un correttivo per proteggere le generazioni che andranno in pensione nel 2030-2040 dal rischio concreto di indigenza. Se non lo farà, potremo ancora per venti o trent'anni nascondere la testa sotto la sabbia: ma poi, quando vedremo le file di professionisti italiani neopensionati davanti alla Caritas, non potremo più farlo.

Il rischio maggiore, il quadro più eloquente di quel che potrebbe accadere se ci ostinassimo a non prendere sul serio questo problema, è che una persona che ha lavorato per quarant'anni finisse per prendere come pensione la stessa cifra della "pensione sociale", che viene erogata anche a chi non ha lavorato mai. I famosi 500 euro al mese, schiaffo alla povertà: già sono pochi per chi li riceve "in regalo" dallo Stato, in un'ottica di redistribuzione e di contrasto alla povertà. Sarebbero pochi, ma sopratutto sarebbero uno schiaffo alla dignità, per chi invece li ricevesse dopo una vita di lavoro e di contributi pagati.

L'arrivo di Tito Boeri alla presidenza dell'Inps, l'ho già scritto e lo ribadisco, è una buona notizia per i giovani e per i precari. Si tratta di un professore che fin da tempi non sospetti si è occupato delle diseguaglianze sul mercato del lavoro e anche sullo specifico tema delle pensioni, e che ha preso pubblicamente posizione a favore di riforme che riequilibrassero il sistema, sia dal punto di vista della selva dei contratti di lavoro, con una sua proposta di contratto unico che per molti versi è simile a quel che ha appena realizzato il governo Renzi con il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, sia dal punto di vista dell'equità previdenziale.

L'altra sera nella trasmissione di Lilli Gruber Boeri ha confermato di voler fare quello che il suo predecessore Mastrapasqua aveva sempre evitato in tutti i modi: inviare la famosa “busta arancione”, con il prospetto dell'assegno pensionistico basato sulle proiezioni di retribuzione e contribuzione, a partire dai dati passati e presenti - dei contributi finora versati insomma. Noi come Repubblica degli Stagisti ci battiamo da anni perché queste buste arancioni arrivino sopratutto ai precari e ai freelance: la promessa di Boeri è dunque un balsamo rispetto alle irrispettose parole (e azioni) di Mastrapasqua, che temeva il “sommovimento sociale” e preferiva tenere le informazioni più negative nelle segrete stanze, lasciando i cittadini nell'ignoranza. Solo conoscendo invece il problema ci sarà la possibilità di creare la massa critica necessaria a farlo arrivare in cima all'agenda politica del governo, e auspicabilmente ad arrivare a una soluzione.

Non solo: Boeri a Ottoemezzo ha annunciato di voler lavorare a una proposta, da presentare al pubblico a fine giugno, su una riforma complessiva del sistema pensionistico italiano. Speriamo davvero che in questa proposta tenga conto anche della drammatica prospettiva futura di centinaia di migliaia di persone che oggi sono giovani lavoratori, precari e sottopagati, e che domani con ogni probabilità saranno pensionati sotto la soglia della povertà. E che affronti il tabù dei contributi silenti: quei contributi versati da lavoratori che poi per un motivo o per l'altro non hanno raggiunto i requisiti minimi per poter ricevere una pensione. Quei contributi in altri Paesi vengono resi indietro al lavoratore che li ha versati, un gesto non solo di equità ma anche di semplice onestà: lo Stato non può "rubare" dei soldi, obbligando il lavoratore a versarli e tenendoseli in caso non vengano raggiunti i requisiti affinché quei soldi accantonati rendano un assegno pensionistico.

Chiediamo a Boeri, e a Poletti, di dimostrare coraggio anche su questo punto, delicatissimo perché i conti dell'Inps stanno in piedi anche grazie a questi piccoli e grandi "scippi": perché ogni centesimo versato in contributi deve tornare al lavoratore, sotto forma di pensione oppure sotto forma di ri-accredito una tantum del montante versato. Cosa che ad oggi non avviene, col risultato che molti pagano "inutilmente" i contributi, pur nella consapevolezza che non si trasformeranno mai in pensione.

In ogni caso, il problema più grande di tutti resta la scarsissima consapevolezza di questo problema nella opinione pubblica. Ancor più che di Boeri, infatti, il dramma del futuro previdenziale dei precari di oggi dovrebbe essere la priorità dei precari di oggi. Che invece, fagocitati dal problema numero 1 - e cioè il lavoro: trovarlo, tenerlo, sopravvivere tra un contratto e l'altro - e concentrati solo sul presente, sembrano sottovalutare la questione pensione. Liquidandola a volte, un po' fatalisticamente, con la frase "Tanto noi la pensione non la vedremo mai". Quasi a gettare preventivamente la spugna: non si possono combattere due battaglie nello stesso momento, quella per il lavoro e quella per la pensione. Eppure la verità è che le due battaglie sono una sola: concentrarsi su un fronte lasciando scoperto l'altro rischia di creare un vero e proprio dramma sociale tra pochi decenni. “Ah, averlo saputo prima…” Ecco, sappiatelo prima, sappiamolo tutti prima: e attrezziamoci perché non succeda.

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